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PARTE QUARTA

La signora Clotilde, intontita dal successo e dall'abbaglio dei lumi della ribalta, ritornò barcollante verso il suo camerino. Percorse coi neri piedi scalzi il dedalo degli stretti corridoi, aprendo molte porte che non erano la sua, e gli artisti – chi più o meno vestito, chi più o meno spogliato – salutarono con urli di protesta o con strilli d'ilarità la sua breve apparizione sulla loro soglia. Finalmente aprì una porta – N. 12 – che era la sua: ma si ritrasse ella stessa con un grido, vedendosi confrontata da una fosca e spaventosa apparizione.... Poi s'avvide che era la psiche che le rimandava la sua propria imagine.... e sorrise.

Ma il sorriso bianco in quella faccia color cioccolata le fece una penosa impressione, e si affrettò a volgere le nere spalle allo specchio. Si tolse di testa la parrucca di lana nera che le dava un caldo insopportabile; indi, seguendo appuntino le istruzioni di Miss Alabama, si dedicò alla delicata impresa del «démaquillage».

Prese un grosso batuffolo di ovatta e vi versò qualche goccia di liquido trasparente. Anzichè cominciare dal viso, volle, per prudenza, provarselo prima su una gamba.... la sinistra....

Benissimo!… Constatò con gioia che, dovunque passava il batuffolo bagnato, il magnifico colore nocciola scuro spariva subito, lasciando trasparire a strisce la naturale tinta carnicina. Quando il cotone fu tutto nero e la gamba tutta bianca, la signora Clotilde gettò in un angolo il batuffolo usato e ne prese uno nuovo. Aveva appena afferrato la bottiglia del liquido, quando udì battere alla porta.

– No! – strillò la signora Clotilde, – no!

Ma la porta ciononostante si aprì, e un signore col cappello in testa entrò con passo risoluto. Era il Direttore in persona che veniva a chiedere spiegazioni alla ignota sostituta di una delle sue artiste.

Con un urlo la infelice signora Clotilde, ricordando di essere nipote di un sottoprefetto, volle nascondere a quell'intruso le sue bicromatiche forme. Fece un balzo all'indietro, vacillò, scivolò...., la bottiglia – la preziosa bottiglia del liquido Americano! – le cadde dalle mani e andò a frantumarsi in mille pezzi in un angolo sotto lo specchio.

Allora una sequela di frenetici strilli riempì di stridore il camerino e i corridoi. Il Direttore, non comprendendo la gravità del disastro, si turò le orecchie colle mani:

– Ma cos'hai da strillare, cretina? Credi forse che mi commuova la vista delle tue gambe.... Per me, oramai, gamba più, gamba meno....

. . . . . .

L'intera Compagnia si radunò intorno al camerino N. 12, con consigli e suggerimenti. La signora Clotilde, avviluppata in un ampio accappatoio prestatole dal baritono, tremava e piangeva in un angolo, presentando invero lo spettacolo della più.... nera disperazione.

Tutti offrivano consigli, unguenti, vasetti, bottigliette. Si provò a strofinarla colla vasellina, colla lanolina, colla benzina, col sapone al pomice, col sale e il limone.... I Giapponesi suggerirono una mistura d'alcool e di latte caldo. Il padrone dei cani ammaestrati suggerì la terebentina collo spirito canforato. Nulla valse....

La signora Clotilde fu portata a casa in carrozza, accompagnata dalla canzonettista Belga che aveva buon cuore, e dalla Pace Imperante sul Mondo che aveva voglia di ridere.

Si telegrafò a tutti i Cafè-Chantants di Parigi, chiedendo nuove di Alabama Loo. Invano. Certo ella aveva cambiato nome e colore.

Si fecero richieste in tutte le farmacie americane, si telegrafò a New-York, a Washington e a Chicago. Invano.

. . . . . .

Lugubre, truce, colla sua faccia nera e la sua gamba bianca, la signora Clotilde, chiusa in due camere, aspetta fosca e depressa la lenta azione del tempo.

E infatti, adagio, a poco a poco, col passare dei mesi, la tinta va lievemente rischiarandosi. Dal caffè moka scuro ha preso qua e là una tinta khaki.... e si spera che forse, tra un anno o due anni....

. . . . . .

Una profonda malinconia incombe sulla casa, interrotta a rari intervalli da improvvisi e pazzeschi scoppi di risa.... È l'Amico (l'unico ammesso in quella tragica dimora) che tratto tratto non sa frenare la sua crudele, spasmodica ilarità.

E contemplando Manlio, – sprofondato nella sua disperazione, sfuggito dai suoi simili, temuto dalle donne, sospettato d'uxoricidio – egli talvolta mormora sommesso:

– L'hai voluto!… L'hai voluto un tenebroso amore!

IV. Fata luminosa

La Fata Luminosa sono io.

Questa dichiarazione può sembrare mancante di modestia. Infatti, scrivendolo, arrossisco.

Tuttavia, trattandosi di narrare una storia che ha la sua brava morale, la racconto tale e qual'è.

E forse a Lola farà piacere.

Incontrai Lola in montagna. L'estate era stata torrida, ma io, occupata a scrivere degli articoli illustranti la barbarie della perfida Albion, non me ne ero accorta. Un giorno alzando gli occhi per caso al calendario m'avvidi che l'estate era già lontana. Ed io non ero stata in campagna! Non ero stata, come ogni anno, a 1000 o 2000 metri d'altitudine!

– Dov'è la più vicina montagna? – chiesi a chi mi stava accanto, mettendomi in fretta il cappello.

– Macugnaga, – mi fu risposto.

– Avanti. Vado a Macugnaga. Addio a tutti.

Invano si protestò che Macugnaga in ottobre sarebbe vuota, che a Macugnaga sarei gelata....

Partii.

Il sole d'ottobre – il più bel sole dell'anno – raggiava in un cielo di lapislazzuli quando arrivai lassù, e i ghiacciai del Monte Rosa fumigavano abbaglianti e le valanghe balzavano e rotolavano tonando, come per un foot-ball di giganti.

E Macugnaga era vuota.

Meglio così. Tutta questa gloria di sole e di neve era per me, per me sola.

Ma facevo i conti senza l'oste: l'oste di Macugnaga chiudeva i suoi alberghi, e se non volevo dormire nelle pinete o sul ghiacciaio, dovevo scendere con lui al piano.

Scesi; ma il meno possibile. Mi fermai a mezza montagna, a Ceppo – ridente villaggetto che si posa come una driade montana, con un piede sul pendìo e l'altro nel torrente – e presi alloggio nel piccolo Hôtel des Alpes, presso la signora Maria. (Signora Maria! se voi leggerete questo racconto, sentitevi nel cuore il mio saluto).

E a Ceppo conobbi Lola. Passando un meriggio accanto alla scuola, la vidi, circondata dai suoi venti o trenta bambini, che tutti le strillavano qualche cosa. Lei non rispondeva. Teneva fissi su me gli occhi, occhi immensi, neri, ardenti.

Le dissi qualcosa; ella si fece rossa e poi pallida e mormorò il mio nome. Mi parve lusinghiera, sebbene esagerata, la sua commozione.

Nel pomeriggio venne a trovarmi. Mi portò molti fiori. Era magra, esaltata, febbrile.

E nel villaggio mi dissero: – Ah, la maestrina? Poveretta! va consunta.

Anche lei me lo disse un giorno, ansando un poco: – Vado consunta. – E nella sua voce vi era insieme una grande paura e un certo romantico compiacimento. – L'hanno detto tutti; anche i dottori di Milano; e il dottore di qui, che mi fa delle iniezioni. È tutto inutile! Vado consunta.

Io ne ebbi grande dolore e pietà. Quando salivo correndo per la montagna, al sole e al vento, pensavo a lei, e mi dicevo: – Povera Lola, che non può!… – Perdendomi nei boschi d'abeti, arrampicandomi per l'arida morena, traversando il torrente e scivolando sui sassi levigati e bagnandomi fino alle ginocchia nella gelida acqua, arrivando infine alla croce sul ghiacciaio e guardandomi intorno, col mondo ai miei piedi e soltanto il cielo sopra di me, pensavo: – Povera Lola!… povera Lola che non deve muoversi, che non deve stancarsi....

E ad ogni cappelletta, ad ogni crocifisso sull'orlo delle vie alpestri mi fermavo a dire una piccola preghiera perchè Lola guarisse; ad ogni Madonnina ammantata d'azzurro, impallidita dal sole e dalle pioggie, sussurravo piano: – Oh Madonnina, fate guarire Lola.

Ma in fondo al cuore sapevo che Lola non poteva guarire.

Lola si aggrappò a me con un affetto febbrile e appassionato. Ad ogni passo la incontravo, ferma a guardarmi con quegli occhi troppo lucenti. Le bambine della scuola avevano tutti i momenti ricreazione perchè la maestra doveva uscire; lieve e lenta passava davanti alla bianca porta e sotto alle verdi finestre dell'Hôtel des Alpes.

Allora, un giorno, l'invitai ad entrare.

Poi l'invitai a rimanere; ed ella passò i suoi pomeriggi sdraiata sul divano a guardarmi scrivere; talvolta, in pieno sole, uscivamo entrambe sul terrazzo. Non permettevo che mi parlasse. Era l'ora in cui le veniva la febbre; aveva le guance infocate, le mani brucianti: e i brevi capelli neri le si arricciavano sulla fronte sudata.

Sempre, quando arrivava e quando partiva, io la baciavo. Ed ogni volta che la baciavo, lei mi diceva:

– Grazie!

Venne il novembre, e il sole si ritirò da Ceppo; si ritirò con garbo, un poco ogni giorno, allontanandosi gradatamente dal villaggio come un amante infedele che medita un tradimento.

– Ora per tutto l'inverno il sole in paese non verrà più, – disse la signora Maria. – Tornerà in aprile. E spero che allora, – soggiunse, china ad aiutarmi a chiudere la valigia, – tornerà anche Lei!

– Anch'io lo spero, – dissi con un sospiro, pensando come di rado mi sono concessi i ritorni.

Tutto il villaggio si radunò davanti alla Posta per salutarmi alla partenza; soltanto Lola non c'era.

Io avevo prescelto di fare a piedi i dieci o dodici chilometri di via maestra che scendono allegramente a valle tra rocce e abeti; e alcuni dei miei nuovi amici mi accompagnarono per un tratto di strada. Ma già tutti se n'erano tornati indietro al villaggio allorchè, a uno svolto, vidi Lola seduta su un tronco d'albero ad aspettarmi. Aveva le braccia piene di fiori e gli occhi pieni di lagrime. (Non mi piacciono nè le lagrime quando sono per me, nè i fiori quando sono colti).

 

– Non dovevate venire così lontano, – la sgridai. – Come farete ora a tornar su?

Tremava tutta. – Addio, addio! Non La scorderò mai, – disse. – Ella è stata per me.... una fata luminosa!

– Che esagerata! – risi, baciandola.

E lei subito mormorò il suo solito – Grazie!

– Addio, Lola. Andate a casa. Badate di far giudizio. E mangiate molte uova.

– Addio, Fata Luminosa, – singhiozzò lei.

E la lasciai così – sola, in mezzo alla strada maestra; piccola e scura sullo sfondo del Monte Rosa, col suo male e la sua malinconia. Ricordo che dopo qualche chilometro – e i fiori ciondolavano le teste di qua e di là, stanchi d'essere portati come io di portarli – passai davanti a una piccola cappella. Mi fermai a guardare. Dentro, una Madonnina sorrideva in atteggiamento assai mite, quasi le rincrescesse d'aver messo per errore il piede sulla testa del serpente. Sette stelle le incoronavano il capo.

Le posi sul davanzale i fiori. – O Madonnina dalle Sette Stelle! – pregai. – Fate guarire Lola.

E ripresi la via.

. . . . . .

Il destino mi trasse lontano, e Lola era già da un pezzo scordata, quando mi giunse a Parigi (rispeditomi dal mio indirizzo «stabile» di Milano, dove non mi trovo mai) una cartolina. Era scritta in una grande calligrafia chiara e infantile; e diceva:

«Fata Luminosa!!… Noi siamo ventinove bambine che le vogliamo bene. La nostra maestra ci parla sempre di lei. Andremo questa primavera a cercare le viole nei boschi per lei»!

Sorrisi. Come era sentimentale e romantica Lola!… Con una cartolina ringraziai collettivamente le ventinove bambine; che a loro volta mi risposero con un'altra cartolina. Nella stessa calligrafia grande e tonda cominciava anche quella, al solito:

«Fata Luminosa!».

(Mi sembrò che il portiere dell'albergo presentandomela avesse un piccolo sorriso).

E in primavera mi giunsero le viole. Ogni otto giorni arrivavano delle scatolette di cartone schiacciate, piene di muschio – talvolta ancor umido – su cui posavano pallide ed avvizzite delle violette boschive. Mi seguivano da Milano a Roma, da Roma a Genova, da Genova a Montecarlo, da Montecarlo a Parigi.... Un giorno di nebbia nera a Londra, al mio ritorno da un tragico viaggio in Irlanda, ecco sul mio tavolo il solito pacchettino sgangherato, con dentro i cadaverini di viole mammole. Tutta una piccola primavera morta!

Le gettai via con impazienza.

Ma nel cuore me ne rimase, lene e lieve, il profumo.

Alfine la mia felice ventura mi ricondusse in Italia. Ed ecco che un giorno mi venne annunciata una visita. Sospirai, ed entrai nel salotto.

In un angolo sedeva una figuretta, una figuretta esile sotto un grande cappello di feltro. Si alzò e mosse con passo trepido verso di me.

– Fata Luminosa! Non mi riconosce?

Era Lola. Una Lola rosata, abbronzata, ingrassata.

– Ma Lola! Come state? Ma state meglio, molto meglio!

– Sono guarita, – disse Lola. – Peso quarantanove chili. – Per Lola è l'obesità, poichè a Ceppo ne pesava trentasette. – E lo devo alla Fata Luminosa.

– Silenzio! Non siate sempre così esagerata, – dissi severamente. E l'abbracciai.

Notai che stavolta non mi disse grazie.

– Sono guarita, – disse; – e lo devo a Lei che mi ha incuorata e consolata; a Lei che non aveva paura di baciarmi; a Lei che....

– Lo dovete alle uova. E alle iniezioni del dottore. – E in cuor mio soggiunsi: – E alla Madonnina delle Sette Stelle.

Lola chiese ed ottenne una licenza di due mesi dalla sua scuola. E quei due mesi li passò con me.

Parlandomi, o parlando di me, essa mi chiamava invariabilmente: «Fata Luminosa». Non ci fu verso di farla smettere. E – devo confessarlo? – da principio questo nomignolo mi lusingava deliziosamente. Quando per la casa mi udivo chiamare così, accorrevo lieta e sorridente. E a poco a poco anche gli altri in casa – un po' per ridere di Lola, un po' per prendersi gioco di me – cominciarono tutti a chiamarmi con quell'appellativo.

.... Ebbene, se io dovessi dire quale martirio, quali sacrifici m'impone oggi quel nome, non mi si crederebbe.

Vengono dei momenti nella vita, dei momenti nella giornata in cui non si è, nè si vuol essere, una fata luminosa. Quando si ha molto da fare, quando si ha fretta, quando le cose non vanno pel loro verso, quando si è nervosi e contrariati, allora è odioso, è insopportabile sentirsi dare della fata luminosa.

«Fata Luminosa!». Con queste due esecrabili parole Lola mi ha amareggiata l'esistenza. Un tempo io facevo press'a poco ciò che mi garbava. Al mattino mi alzavo quando mi pareva; mi vestivo come mi piaceva; quando aveva voglia di ridere, ridevo; quando avevo voglia di far bronci, li facevo. Ora non più.

Ora, all'alba, prima ancora ch'io abbia aperto gli occhi, mentre lo spirito è voluttuosamente inabissato nelle lontane, vellutate profondità del sonno, odo al mio capezzale un saluto alacre e festoso:

– Ben svegliata, Fata Luminosa!

Allora mi tocca aprire gli occhi e abbozzare un sorriso il più possibile luminoso; mi tocca rispondere a tono – non con un inarticolato brontolìo, ma giuliva come risponderebbe una fata desta all'aurora:

– Ah! buon giorno! buon giorno!…

Alzata di malavoglia nel grigiore mattutino, infreddolita e lugubre, penso di indossare una certa vestaglia di flanella regalatami da mia suocera (che disprezza le apparenze) e infilare i piedi in un paio di pantofole paleontologiche, ma che serbano i resti d'una fodera di pelliccia. Così, appuntate le chiome à la sans-façon, apro la mia porta per dire che mi si porti il caffè-latte. Lo prenderò, sola, con un certo «confort», leggiucchiando il giornale.

Ma ecco le voci dei familiari che da lungi mi salutano: – Ti aspettiamo, fata! – E il trillante soprano di Lola che esclama:

– Ah! ora viene la fata!… la Fata Luminosa!

Richiudo la porta. Getto uno sguardo nello specchio e mi convinco che, lungi dal sembrare una fata, somiglio piuttosto (come direbbe la mia toscana amica, Pia) a «Quella che diede la via ai fulmini!…»

Con ira getto lungi da me la vestaglia di flanella, scaglio una dietro all'altra, fuori dei piedi! le pantofole colla pelliccia; mi vesto, mi calzo, mi profumo.... e mi presento con un sorriso estatico alla soglia della sala da pranzo.

– Ah! eccola la fata! La Fata Luminosa!

La morale? Sì, al principio di questo racconto vi ho promesso una morale.

Eccola. Se tu, caro amico sconosciuto che mi leggi, hai la fortuna di avere nella tua casa una donna – sia essa moglie o sorella, suocera o cognata, zia o nipote; sia essa allegra o arcigna, indulgente o rigida, angelo o megera – tu prenderai l'abitudine di dirle, e lo dirai tutti i giorni, incessantemente:

– Ah, Clelia! (o Sofia, o Luisa, o come del caso), tu sei invero una fata luminosa!

Basta questo semplice mezzo perchè la tua casa divenga un paradiso.

Quando la vedi un poco torva, un poco severa, quando la senti litigare coi fornitori, gridare colla cameriera, dare gli otto giorni alla cuoca, assestare qualche scappellotto ai bambini strillanti.... presto, prima che venga il tuo turno, hop-là! senza por tempo in mezzo, apri la porta e chiama con voce soave:

– Sei tu, mia Fata Luminosa?

Ella ti dirà: – Sì. Sono io. – (Perchè non può dirti: – No, non sono io!).

E nove volte su dieci la bufera si dileguerà.

Ma questo non è tutto. Nove volte su dieci quell'appellativo la indurrà non soltanto a comporsi un'espressione intonata all'epiteto; ma inclinerà anche la sua anima alla blandizia.

A poco a poco, ella prenderà la consuetudine – direi quasi il vizio – di essere adorabile e adorata, di effondere intorno a sè luce e letizia, di sentirsi il sorriso sempre presso alle labbra, la carezza sempre dentro alla mano, e la bocca sempre «di perle piena e di rose e di dolci parole».

.... Così, quasi per incanto, pronunciando queste due parole evocatrici di raggi e di lucentezze, ecco che il mondo intorno a noi si riempirà tutto di fate luminose.

V. Quella che Landru non uccise

Parigi, 26 Novembre.

.... Uscivo questo pomeriggio dalla Direzione del Matin, dove ero andata a salutare l'amabile De Jouvenelle e la sfolgorante Colette, allorchè il vecchio usciere – un sorridente cerbero che conosco – mi fermò, e additandomi una donna che in quel punto scendeva le scale uscendo dagli uffici di redazione, susurrò misterioso: – Sa chi è quella signora?

Io non lo sapevo; ed egli, abbassando ancor più la voce, mi informò:

– È quella.... che Landru non uccise!

– Landru! – Subito mi si affacciò alla niente la imagine del terribile uomo supposto uccisore di almeno dieci donne. Tratto in arresto per una frivola mancanza (faceva un breve viaggio senza biglietto) ecco che venne alla luce la più mostruosa serie di delitti che sia mai stata attribuita ad un essere umano. Una donna che era partita con lui non era più tornata; una seconda donna ch'egli aveva condotto nella sua villa a Gambais, non aveva più dato nuove di sè; una terza donna ch'egli aveva promesso di sposare era sparita.... E così via. Il Matin pubblicò il suo ritratto, e da ogni parte di Parigi affluirono alla redazione di quel giornale e all'ufficio della Sûreté lettere, telegrammi, ricerche di parenti d'altre donne che, partite col sorridente Barbableu, non erano mai più ritornate.

Gli abitanti del villaggetto di Gambais (a un'ora da Parigi) lo vedevano arrivare ogni poche settimane sempre con una compagna nuova ch'egli installava con affettuose premure nella solitaria villa. E per alcuni giorni i passanti scorgevano quella donna, ignara e lieta, aggirarsi nel giardino, cogliendo fiori o seduta all'ombra degli alti alberi secolari.

Per ben dieci volte Landru aveva fatto il viaggio da Parigi a Gambais in lieta compagnia, prendendo – particolare trasecolante! – un biglietto d'andata e ritorno per sè, e un biglietto di sola andata per la sua compagna! Quelle giovani donne erano tutte eleganti; molte portavano ricche vesti e preziosi gioielli.... Poi da un giorno all'altro, non si vedevano più.

Ciò che si vedeva era, al calar della notte, delle nuvole di fumo denso e giallastro uscire dai camini della villa; un fumo così acre e fetido che i contadini passando esclamavano tra loro: – Ma che orrenda cucina si fa mai in quella casa! – (Orrenda cucina, invero!)

Ciò che si vedeva – o qualcuno almeno dice di averlo veduto – era una misteriosa automobile chiusa, che nelle notturne ore s'avviava dalla villa verso lo Stagno delle Brughiere – un'acqua viscida e profonda sull'orlo di un bosco vicino....

– Quella che Landru non uccise!… – Non stetti ad ascoltare di più; scesi rapida dietro la snella figura che già spariva allo svolto della scalinata. Volevo vederla, questa donna scampata da una morte così atroce; volevo vedere se il suo viso portava le traccie del passato terrore.

Giunsi quasi contemporaneamente a lei nel grande vestibolo, ed ella, uscendo, si volse a tenere con atto cortese la porta aperta dietro di sè.

Pioveva; sul boulevard Montmartre passavano frettolosi i viandanti sotto gli sgocciolanti ombrelli; in mezzo alla via correvano veloci le carrozze tutte occupate.

La mia automobile stazionava vicino al marciapiede.

Mi volsi e guardai quella donna che, senza ombrello, ferma sullo scalino del Matin pareva incerta se avviarsi o no; non era bella, ma aveva un viso estremamente interessante e due grandi occhi scuri, mobilissimi. Seguendo l'impulso del momento io le rivolsi la parola.

– Vuole ch'io la conduca.... quelque part?

Ella mi guardò un po' stupita e non rispose subito. Indi chiese repentina: – Lei appartiene alla redazione del Matin?

– Sono scrittrice, – risposi evasivamente.

– Ah! – vi fu un attimo di pausa. – E.... sa chi sono io?

Allora, guardandola fisso, io ripetei la frase dell'usciere.

La donna si volse di scatto e un'espressione indefinibile le passò sul volto. Era come un tic nervoso che per un attimo le sconvolse i lineamenti.

– Ah!… – fece di nuovo. E tacque.

In me la smania dell'esplorazione psicologica era nata, e s'agitava.

– Venga a prendere il thé con me al Grand Hôtel, – dissi, seguendo l'impulso irrefrenabile dello scrittore davanti ad un'anima nuova, ad un'esperienza nuova.

– Che strana idea! – esclamò lei, e rise. Aveva un sorriso bellissimo; ma non era un sorriso consenziente; anzi, vidi i suoi occhi vagare inquieti per il boulevard, come s'ella meditasse la fuga..

 

D'improvviso mi balzò nel ricordo un consiglio datomi un giorno a Roma da un eminente personaggio diplomatico: «Se mai volete ottenere qualche cosa da qualcuno», mi aveva detto lui, «ricordatevi di guardarlo fissamente in mezzo agli occhi: proprio tra le due sopracciglia! Quindi esprimete lentamente e con ferma volontà il vostro desiderio. Vedrete che nove volte su dieci riuscirete nel vostro intento».

Allora io, ferma su quel trottoir parigino, incurante dei passanti, fissai con intensità ipnotizzante quella sconosciuta; la fissai nel centro della fronte tra le due sopracciglia nere, e ripetei il mio invito.

Ella ebbe uno strano gesto delle spalle, un istante d'esitazione.... Indi accettò.

Il foyer del Grand Hôtel era pieno di una folla cosmopolita, profumata e mormorante. L'orchestra suonava dei languidi «Hesitations» e dei sussultanti «Shimmy-shakes». Trovammo una tavola appartata in mi angolo, tra fronde e fiori; e ci venne servito il thé.

– Volete aprirmi per un istante la vostra anima? – diss'io.

La donna volse su me i suoi occhi un poco spiritati. Aspettava.

Ed io l'interrogai.

– Foste amata da.... quell'uomo?

Ella chinò il capo in segno di affermazione.

– Che cosa vi siete detta quando scopriste che era un assassino?

Un attimo di silenzio. Indi ella disse lentamente, deliberatamente: – Io lo sapevo già.

– Lo sapevate!… Quando?

– Prima di andare da lui. Mademoiselle Marchadier, quella ch'egli.... – la voce cadde d'un semitono.... – ch'egli strozzò e bruciò, era una mia amica.

– Voi sapevate.... sapevate ch'egli l'aveva uccisa?

– Lo immaginavo. Essa mi aveva fatto delle confidenze molto strane. Poi era sparita. Nessuno aveva più saputo nulla di lei.

– Ma allora.... – E mi mancò la voce per continuare.

Gli occhi spiritati si fissarono su me con una espressione stranissima. – Già. Allora sono andata lo stesso da lui.

– Ma voi.... siete dunque un'isterica? siete una pazza? – esclamai.

– Può darsi. – E la sconosciuta si strinse nelle sottili spalle. – Siamo tutte un poco squilibrate, noi donne oggigiorno. Non trovate?

Io non rispondo. Contemplo smarrita e stupefatta questa enigmatica creatura; e guardandola negli occhi mi pare di guardare nelle torbide acque di quello Stagno delle Brughiere che nasconde tanti orrendi misteri.

L'orchestra frattanto intona un malinconico valzer e la mia vicina si volge subitamente a me.

– Volete proprio guardare nella mia anima? Ebbene....

Colle labbra pallide e le mani strette convulsivamente in grembo essa mi fa il seguente racconto:

– Sappiate che io ho sempre avuto orrore di tutto ciò che è consueto, usuale, terre-à-terre.

Il mio sogno era di vivere una vita stravagante e fuori del comune. Sognavo delle avventure fantastiche, degli amori bizzarri.

Invece parve che la mia esistenza dovesse scorrere sulle grige linee della più tediosa convenzionalità. Mio padre era notaio in un piccolo villaggio, ed io, la maggiore di quattro sorelle, avevo, a quanto pare, un certo talento per la musica. Fatto sta che quando ebbi sette anni mia madre cominciò ad insegnarmi il pianoforte. Si principiò col Diabelli; poi venne lo Czerny; poi il Cramer; poi le mazurke di Chopin.... Alla terza mazurka mia madre morì.

La maggiore delle mie tre sorelline aveva allora otto anni; e mio padre volle ch'io le insegnassi la musica. Così ricominciai da capo col Diabelli, col Cramer, collo Czerny.... Quando fummo alle mazurke di Chopin, mia sorella sposò il farmacista del paese.

Le altre due sorelle avevano allora nove e dieci anni; ed ecco che si dovette ricominciare anche con loro il Diabelli, il Cramer....

Stavolta, arrivate allo Czerny io scappai di casa col figlio del sindaco, e venni a Parigi.

E qui speravo che cominciasse per me la vita strana e avventurosa che avevo tanto sognato. Ma quasi subito il figlio del sindaco mi lasciò, ed io, per poter sussistere, dovetti cercare delle altre bambine che volessero imparare il Diabelli, il Cramer, lo Czerny e il Chopin.

Disgustata della vita sognai di morire. La morte almeno me la potevo scegliere e foggiare a piacer mio.

– Ah, vivaddio! – dissi un giorno alla mia amica, Céline Marchadier; – la vita è quella che è. Ma la morte è quella che noi vogliamo. Io voglio trovare pel grigio dramma della mia vita un finale inedito!

Ella rideva; e mi rimproverava d'essere romantica ed esaltata. Aveva una piccola anima borghese, Céline. E colla sua piccola dote borghese s'apprestava a trovare una calma felicità nel matrimonio.

Aveva infatti incontrato il fidanzato dei suoi sogni: una onesta persona, con modi corretti, con barba rassicurante, con villa in campagna.... Landru!

Céline partì un giorno per la villa di Gambais col suo fidanzato; mi disse che sarebbe ritornata la settimana seguente.

Non la vidi mai più.

Ricevetti da lei una strana lettera:

«Questa villa», diceva essa, «è lugubre. La parete della mia camera, accanto al mio letto, è tutta chiazzata di macchie scure.... Il giardino mi fa orrore. Figurati che in un angolo, sotto a delle foglie secche, ho visto due cani e un gatto morti; avevano tutt'e tre intorno al collo uno spago, quello spago impeciato che adoperano i calzolai.... Ce n'è molto in questa casa di quello spago....».

Una seconda lettera, datata il giorno seguente, diceva:

«Credo che quest'uomo sia un maniaco! Tutto il giorno mi ha fatto raccogliere delle foglie secche e portarle nella cucina.... Domani torno a Parigi».

E un terzo messaggio mi giunse da lei; era una cartolina tutta sgualcita ch'io stessa le avevo scritto: ella aveva cancellato a matita l'indirizzo e riscritto il mio; le parole erano quasi illeggibili. La carta era infangata come se fosse stata gettata sulla strada, e poi raccolta da qualcuno e impostata. Diceva:

«Vieni, vieni subito! È pazzo. Sta accendendo un gran fuoco.... Ho paura».

Immediatamente, con una mia vicina e suo figlio, partii per Gambais. Trovammo la villa chiusa e silenziosa. Nel villaggio nessuno sapeva nulla.

L'indomani e l'indomani ancora, tornai sola a Gambais, ma il cancello del giardino era sempre chiuso.

Una terza volta, in un grigio pomeriggio di marzo, feci da sola quel viaggio; e già me ne tornavo via, scoraggiata e depressa, allorchè sulla strada solitaria che conduce alla stazione mi trovai d'improvviso faccia a faccia con un uomo. Era lui!

Lo riconobbi subito. Era tal quale Céline me lo aveva descritto.

Mi fermai, come paralizzata; senza respiro. Quell'uomo mi guardò in faccia – non so dire l'impressione di ribrezzo e insieme d'orribile attrazione che provai. Rimasi ferma a guardarlo, e un gran freddo mi correva come una serpe viva per la schiena.

– Buona sera, – disse lui. – Cercate qualcuno?

Aveva una voce stranamente morbida e bassa.

– Sì, – balbettai; – cercavo.... volevo.... delle notizie di Céline Marchadier.

Vi fu un attimo di silenzio. Poi quell'uomo si avvicinò di un passo.

– Io posso darvene, – disse, – se volete entrare nella mia villa....

Io volevo gridare, volevo fuggire. Già mi vedevo correre urlando per quella strada solitaria, inseguita da questo spaventevole uomo, pazzo ed assassino.... Ma egli mi teneva ferma, come catalettica, sotto il suo sguardo, e non potevo parlare, non potevo muovermi.

D'improvviso mise una mano sul mio braccio. Come una sonnambula io lo seguii.

. . . . . .

Non vi dirò ciò che provai quando fui chiusa in quella casa con lui. Quando ridomandai di Céline, egli disse: – Prima mangiamo!

E mi preparò egli stesso una cena: – Da studenti!… – diceva lui ridendo.

– Le piacciono queste avventure, signorina?

Ed io, tra me e me, pensavo:

– Quando mi ucciderà? E come?… Mi salterà al collo improvvisamente e mi strangolerà? Oppure in questo vino che mi offre avrà già messo un narcotico o un veleno?…

Egli frattanto mi parlava, mi parlava di cose indifferenti.

Ed io lo guardavo.... lo guardavo. Guardavo le sue mani scure e nervose.... e me le figuravo intorno al sottile collo di Céline....

Ed ecco ch'egli si mise a parlare di lei; disse ch'era partita per l'America....

A quelle parole io fui presa come da una crisi isterica e scoppiai in una risata, una risata convulsa, frenetica, rotta da singulti. Landru mi guardava con aria stupefatta.

A un tratto si alzò, andò nella stanza attigua ch'era la cucina, e tornò portando un bicchierino di liquore.