Tasuta

Vae victis!

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

Gli pareva di essere ancora nelle spire di un sogno faticoso e incoerente. Doveva fare un grande sforzo mentale per persuadersi che realmente lui, Florian, s'aggirava per il mondo vestito d'un paio di scarpe e d'una coperta da campo. Probabilmente nulla di tutto questo era vero. «Probabilmente» – si disse Florian – «io sono ferito, sono in un ospedale con qualche lesione al cervello, e questo è parte del mio delirio.» Era inverosimile, era impossibile che qualcuno potesse avergli rubato tutti i suoi abiti lasciandogli in cambio il latte, la cioccolata e le sigarette. Come conciliare la viltà da parte di chi lo aveva derubato quand'era incosciente, collo spirito di fraternità e di affetto dimostrato nell'avergli fatto trovare a portata di mano latte e cognac, cioccolatta e sigarette?… Era tutta una cosa assurda e fantastica.

«Di due cose, l'una,» ragionò Florian procedendo nella direzione di un bosco che vedeva non lontano, e inciampando ad ogni passo nella sua coperta: «o sono stato la preda di un pazzo, oppure sono io che in questo momento non ho la testa a segno… («Die Flundern werden sich wundern.»)

Dovette fare un enorme sforzo per non dire quelle parole insensate ad alta voce; sentiva che se le diceva sarebbe impazzito davvero. Gli pareva che finchè se le teneva chiuse dentro al cervello ne era padrone lui, ma guai se gli sfuggivano di bocca: sarebbero diventate più forti di lui, e certamente avrebbe continuato a dirle e a ripeterle come quel povero tedesco delirante… Ah, sì; decisamente non aveva il cervello a posto; bisognava tenersi bene in freno. Non bisognava.... «Die Flundern werden sich wundern.»

D'un tratto vide uscire dal bosco dei soldati a cavallo. Li riconobbe subito per una pattuglia tedesca. Pensò di tornare indietro e nascondersi nella cascina; ma ormai era tardi. Già l'avevano scorto e venivano a grande galoppo verso di lui.

«Basta; la partita è persa,» disse Florian tra sè e sè; l'avrebbero preso. Già non poteva uccidere nè sè stesso nè altri con un pezzo di cioccolatta e un pacchetto di Josetti. Sostò, incrociò le braccia e attese, ritto e immobile, il loro arrivo. («Die Flundern werden sich wundern.»)

Gli otto o dieci cavalleggeri arrivavano al galoppo e Florian potè notare anche da lontano il loro sbigottimento alla sua vista. Gli gridarono qualche cosa in tedesco, ma egli non rispose. Ritto, come una statua egli disse a sè stesso che incontrerebbe il suo fato con dignità.

Ma non aveva fatto i conti col suo grottesco abbigliamento. Due soldati smontarono ed uno di loro gli rivolse la parola in tedesco, mentre tutti lo guardavano da capo a piedi con un largo sorriso.

Ma l'altro – un giovane ufficiale – imponendo bruscamente agli altri di tacere si volse a Florian con fosco cipiglio e gli domandò in francese cosa diavolo facesse vestito così.

«Dov'è la vostra uniforme?» chiese, aggrottando minaccioso le ciglia.

Anche Florian aggrottò le ciglia e lo fissò senza rispondere. Aveva deciso che non aprirebbe bocca. («Die Flundern werden sich wundern.»)

L'ufficiale diede un ordine; due soldati lo presero per le braccia e gli strapparono da dosso la coperta. Egli rimase così, nelle sole scarpe, nudo alla grande luce del giorno, col viso, le mani e i capelli imbrattati di fango. Era una forte e magnifica figura d'uomo.

L'ufficiale e gli uomini avevano rivolto la loro attenzione al nodo nell'angolo della coperta. Lo sciolsero e vuotarono del suo contenuto quella tasca improvvisata. Si guardarono l'un l'altro; poi riguardarono l'uomo nudo. Il cioccolatto era tedesco; le sigarette erano tedesche; le scarpe erano tedesche. – E l'uomo cos'era?

«Meschugge,» mormorò il tenente, a spiegazione non della nazionalità di Florian, ma della sua condizione mentale.

«Meschugge! Meschugge!» Ripeterono gli altri sghignazzando.

Tuttavia l'ufficiale sembrava incerto. Dopo aver fissato lungamente Florian si volse a parlare a bassa voce cogli altri. Florian capiva che discutevano di lui. A quale decisione arriverebbero? L'arresterebbero come un astuto belga che, spogliatosi della sua uniforme, aveva rubato le scarpe e la coperta ed ora si fingeva muto e demente? O lo crederebbero un tedesco ammattito e lo manderebbero in un ospedale? Meglio se fosse così. Certo sarebbe più facile la fuga da un ospedale che da una prigione tedesca. Una prigione tedesca!… Florian digrignò i denti. Dall'atteggiamento dell'ufficiale Florian lo giudicò incline a quest'ultima decisione.

«Die Flundern werden —»

A momenti lo diceva forte! Sentiva nel palato una smania, un solletico, quasi una necessità fisica di pronunciare quelle parole insensate. Erano certamente quelle voci tedesche intorno a lui, era il suono gutturale di quegli accenti che gliele strappavano di bocca. Già le sue labbra si movevano a formularle....

L'ufficiale l'osservava intento.

Invano Florian strinse le labbra, morse la lingua tra i denti – d'improvviso le grottesche parole gli scapparono dalla bocca: «Die Flundern werden sich wundern…»

L'effetto di quella frase fu istantaneo e inatteso. Tutti ruppero in un grande scoppio di risa; persino il fosco volto dell'ufficiale si spianò in un largo sorriso.

I soldati ripetevano le parole, commentandole. «Avete sentito? Die Flundern!… Ah, bellissima! Sarà stata una canzonettista dell'Ueberbrettel a mettergli i topi nel cervello!» E si smascellavano dalle risa, battendogli le spalle nude e chiedendogli in quale Kabaret avesse lasciato il cuore ed il senno.

Di quanto dicevano Florian non capiva una sillaba; ma questo capì: era salvo. Almeno per il momento. Qualunque fosse il significato di quelle parole, certo ad esse doveva la sua salvezza e l'ilarità amichevole di quegli uomini. Per quanto ancor confuso e debole, ebbe la lucidità di prenderà un'immediata decisione: se quelle parole l'avevano salvato non ne pronuncerebbe altre.

E difatti fece così.

Un po' più tardi aggiunse un vocabolo di più al suo repertorio: «Meschugge.» Florian stesso non aveva la più lontana idea del significato di «Meschugge,» ma lo udì pronunciare molte volte dal tenente prussiano e dai soldati che lo ricondussero, dignitosamente avvolto nella sua coperta, alle linee tedesche.

«Die Flundern werden sich wundern,» e «Meschugge.» Con queste sei parole, mormorate a intervalli tre o quattro volte al giorno, Florian passò incolume il fronte e le retrovie tedesche; con questo frasario entrò in un ospedale da campo prima, e poi in una infermeria di Liegi.

Ufficiali e medici lo visitavano, ridevano, gli battevano sulle spalle. «Famoser Kerl!» Qui non c'era errore. Costui non poteva essere nè belga, nè francese, nè inglese. Giammai un forestiero avrebbe potuto scegliere dal ricco vocabolario tedesco proprio la parola «Meschugge,» nè avrebbe scoperto nella letteratura poetica tedesca il verso dei «Flundern.»

Ach nein! bisognava essere un autentico figlio del Vaterland per capirne puranco il significato. Questo bel matto arrivato fra loro in costume adamitico e scarpe gialle era un Berlinese purosangue!… Er lebe hoch!

* * *

E fu in questo modo che la famigerata Wasserleiche – l'Annegata del Caffè des Westens – e la sua amica Mélanie salvarono la vita ad un valoroso ufficiale belga.

Ed è questa, probabilmente, l'unica buona azione ch'esse abbiano mai compiuta nella loro deplorevole e sciagurata esistenza.

XXI

Nei primi giorni di maggio, il lento fiume Ourthe e la spumeggiante Aisne, incontrandosi nei pressi di Bomal, si salutarono coi soliti frizzi e spruzzi. «Eccoti qui, pettegola,» brontolò l'Ourthe. «Non si può mai fare questa strada in pace.»

«Sei tu che ti spingi vicino,» protestò l'Aisne. «Guarda che gomito fai! Stammi più lontano.»

«Devo pur passare sotto il ponte,» borbottò l'Ourthe.

«Anch'io!»

«Ah, vedo già che tu vuoi farmi straripare,» gorgogliò l'altro stringendosi nelle sponde.

«Oh, guarda, guarda!» fece l'Aisne, per cambiar discorso. «C'è una cicogna che passa sopra di noi.

«E che me n'importa?»

«E' la cicogna che porta i bambini! Guarda – ne ha uno nel becco!…»

«Farebbe meglio a lasciarlo cadere,» brontolò l'Ourthe; «qui sono molto profondo.»

L'Aisne che lo era poco non comprese il bisticcio. «Come sei plumbeo,» disse, avvicinandosi sempre più, sinuosa e serpentina. «Sarà che vuol piovere.»

«Se piove,» mugghiò l'Ourthe, rabbrividendo, «farai bene a stare nel tuo letto.»

«Io no!» esclamò l'Aisne. «Vengo nel tuo!» E con un balzo gli fu accanto, tutta arricciata e increspata.

«Oh, che ti pigli la Mosa!» spumeggiò l'Ourthe, gonfio ed iroso.

.... E a Liegi la Mosa se li prese tutt'e due.

—–

La cicogna frattanto era volata alta sopra il ponte di Bomal. Scese a cerchi digradanti sopra la casa del dottor Brandès. Pose una zampa sul tetto e si fermò.

Schiuse con precauzione il becco. «Apri gli occhi, bambino umano,» disse: «Eccoci arrivati.»

XXII

 
«Rockaby, lullaby,
«bees in the clover…»
 

cantava Nurse Elliot, facendo dondolare la culla e guardando distrattamente dalla finestra donde si scorgeva il campanile della chiesa di Bomal e le cime ondeggianti degli alberi nel cimitero.

«Forse,» sospirò Miss Elliot, infermiera della Croce Rossa Americana, «forse questa povera creaturina starebbe meglio se dormisse già laggiù, sotto quegli alberi....»

Quasi in assentimento il bimbo nella culla emise un malinconico vagito. Allora Miss Elliot ricominciò a ninnare la culla ed a cantare.

Il bambino rinunciò subito a gareggiare con quella poderosa voce di contralto e per disperazione si riaddormentò. Non era al mondo che da sette giorni e, a dir vero, non vi aveva trovato gran che da rallegrarsi; Vi era molto trambusto e canto, poco nutrimento e parecchi dolori di qua e di là.

 

«Questa è la vita!» gli disse la cicogna che stava ancora sul tetto, ritta su una gamba sola, a riposarsi dal viaggio. «Potevi stare dov'eri!»

«Non si potrebbe tornar via?» pianse il piccino. «Si stava assai bene nell'azzurra landa dell'inesistenza, sdraiati nel calice d'un fiore di loto.»

La cicogna si strinse nelle ali e si pettinò le piume col becco. «Abbi pazienza. La vita dura poco.»

«Quanto tempo dura?» chiese il bambino umano, un poco inquieto.

«Meno di cent'anni,» rispose la cicogna.

Allora il bambino pianse più di prima. «Ma come? Ma perchè dura così poco?»

«Ah, questa stolta, illogica umanità, quanto la disprezzo,» disse la cicogna; e volò via.

—–

Erano arrivate a Bomal dieci giorni prima, Luisa, Chérie e Mirella, dopo un viaggio terribile traverso l'Olanda e le Fiandre. Alla stazione di Liegi Chérie stava così male da muovere a compassione anche le autorità, che permisero a un'infermiera di accompagnarla fino a Bomal. La buona Nurse Elliot ottenne dalla Croce Rossa il consenso di rimanervi ad assistere l'ammalata fino ad evento compiuto.

Al loro arrivo a Bomal Luisa non era andata direttamente a casa. Le mancava il coraggio di condurvi Mirella. Tremava – ella stessa non sapeva di che. Avrebbe la bambina riconosciuto quei luoghi? Quale effetto produrrebbe sulla piccola anima sensitiva la scossa di tali ricordi?.... Luisa si sentì incapace di affrontare una nuova emozione; le fatiche e le angoscie del viaggio aggiunte alla tormentosa inquietudine, d'ora in ora crescente, per lo stato di Chérie, l'avevano affranta. Decise dunque di condurre Mirella in casa della loro vecchia amica, Madame Doré.

Incerta dell'accoglienza che ne riceverebbe, tremante dei mutamenti che vi potrebbe trovare dopo nove mesi d'assenza, Luisa battè con tremante mano alla porta della «Maisonnette des Lilas.»

Fu Madame Doré in persona che venne ad aprire. Ma era questa veramente Madame Doré? Questa donna dai capelli bianchi, dal volto stralunato, che la fissava senza riconoscerla?

«Madame Doré! Sono io, Luisa e la piccola Mirella! – Non ci riconoscete?»

La donna sussultò. «Zitta, parla piano. Entra, entra!» E prendendole il braccio la trasse rapida nell'anticamera e chiuse a chiave e col catenaccio la porta di casa.

Il suo sguardo era oscillante, smarrito, e di tratto in tratto uno spasimo nervoso le contraeva il volto.

«Oh, mia cara!» esclamò Luisa, e l'abbracciò piangendo.

Madame Doré la condusse di sopra nella sua camera da letto, ed anche là chiuse la porta a doppio giro: aveva l'ossessione di essere costantemente spiata e vigilata.

Allora sottovoce, tra il pianto, narrò a Luisa la sua terribile storia – Andrea ucciso nella notte del 4 agosto sul piazzale della chiesa; Jeannette, quindicenne, preda della soldataglia tedesca e morta in un ospedale di Bruxelles; Cecilia fuggita in Inghilterra.

Ed a sua volta la triste donna apprese dalle labbra di Luisa il loro triplice martirio.

Col cuore stretto da un'infinita pietà Madame Doré accarezzava i morbidi capelli di Mirella. «Sì, sì; lasciala pure con me. Puoi essere tranquilla sul suo conto. Sarà anzi un grande conforto averla qui. Ah, se ci fosse anche Cecilia che l'amava tanto!»

«Come mai Cecilia ha trovato il coraggio di partire così, tutta sola?» chiese sommessa Luisa.

«Altre quattro donne di Bomal sono andate con lei. Ve n'era una che aveva dei parenti nella contea di Surrey… Qui Cecilia non poteva più vivere,» singhiozzò la madre, «dopo la morte di Jeannette e di suo fratello Andrea. —» Di nuovo lo spasimo nervoso le contrasse il viso macilento. «Tu sapevi di lui… che l'avevano ammazzato a fianco del nostro povero curato in quella notte....»

Sì, Luisa sapeva. E strinse forte tra le sue le mani scarne e tremanti della vecchia amica.

Parlarono di tutti i loro amici e conoscenti. Su tutti, su tutti era passata la procella, travolgendo, rovinando quelle esistenze, mandandole disperse per il mondo....

«Taci!» sussurrò improvvisa Madame Doré afferrando il braccio di Luisa. «Ascolta! Ascolta!»

Fuori si udivano i passi cadenzati della soldatesca, e un vociar rude, ed imprecazioni e risa.

«Li senti, i nostri padroni?» susurrò Madame Doré stringendosi convulsa a Luisa. «Entrano nelle nostre case quando vogliono, anche nel cuor della notte. Entrano e frugano da per tutto; portano via i nostri denari; leggono le nostre lettere; ci comandano, consultano a piacer loro. A noi non è lecito nè parlare, nè pensare, nè esistere senza il loro consenso e la loro approvazione. Viviamo sotto la minaccia perenne della prigione o della deportazione. E abbiamo fame… si, abbiamo anche fame! Ah! perchè, perchè non ho avuto il coraggio di partire anch'io? Potevo rifugiarmi con Cecilia in Inghilterra....»

«Era forse meglio,» disse Luisa a bassa voce.

«Che vuoi? Non ho osato abbandonare i miei morti.... E poi mi sentivo così vecchia, così vecchia e spaventata… Ed ora eccomi qui rinchiusa nel Belgio come in un carcere – e Cecilia è lontana e sola!»

Invano Luisa tentò confortarla con parole soavi e tenere carezze. La vecchia donna era colpita al cuore e desolata. Il solo fatto che Luisa, quando era in Inghilterra, non aveva veduto Cecilia nè avuto nuove di lei, le empiva l'animo di sgomento. Chissà che ne era di Cecilia in quel lontano paese, tra quella gente straniera!

«Non temete per lei,» la confortò Luisa. «Non le accadrà alcun male. Gli inglesi sono brava gente.» E, mentre lo diceva, un improvviso senso di rimpianto, di struggimento quasi nostalgico le morse il cuore. Ah, invero gli inglesi – che brava gente! L'Inghilterra! che porto sicuro, che rifugio di salvezza! Come placida e calma e forte nella sua cerchia di acque grige!…

«Forse,» pensò Luisa ritornandosene sola traverso il villaggio e cercando di schivare lo sguardo di gente estranea e dei soldati tedeschi che camminavano da padroni in mezzo alla via, «forse era meglio rimanere in quel nostro lontano esilio, e non tornar qui per essere alla mercè delle belve che ci hanno conquistate…»

E ripensando a Jeannette, Luisa impallidì.

—–

Frattanto in casa del dottor Brandès l'energica e attiva Miss Elliot non aveva perduto tempo. Data una rapida rivista alla dimora saccheggiata aveva constatato che, sebbene gli invasori avessero portato via argenteria, quadri e ogni altra cosa di valore, restava tuttavia intatta la biancheria di casa, nè mancavano gli utensili domestici più necessari.

Energica e gaia ella accomodò Chérie in un letto candido, le spazzolò i bei capelli e glieli raccolse in due lunghe treccie lucenti; le diede da mangiare del pane e del latte; poi, chiuse le imposte, con un bacio sulla fronte la lasciò.

Indi si mise risoluta a ripulire la casa; bisognava far sparire il disordine e la confusione prima dell'arrivo di Luisa.

Dal pianterreno alla soffitta la casa era sparsa di piatti sporchi, di bicchieri, di bottiglie, di mozziconi di sigari e di sigarette. Materassi e coperte colle impronte di scarpe fangose ingombravano i pavimenti; cassetti e armadi erano stati vuotati e il loro contenuto rovesciato per terra. Stoviglie, brocche e catinelle d'acqua sporca erano su tutti i mobili – sulle credenze, sulle tavole, sulle sedie.

Miss Elliot pulì, spazzò, vuotò, strofinò, indi aprì tutte le finestre, accese tutti i fuochi nei caminetti – e quando Luisa, ansante e pallida, battè al portone Miss Elliot le aprì con un sorrisetto di soddisfazione. Indi la seguì di stanza in stanza notando commossa il fluttuante raggio di gioia che appariva su quel pallido viso alla vista di tante cose note e care....

Ah, questa era casa sua! Casa sua!… E Luisa guardandosi intorno nell'ambiente famigliare sentì tornarle in cuore – trepida ospite desueta – la speranza.

XXIII

Il bambino aveva già tre settimane, ed ancora Chérie non aveva veduto nè amiche nè conoscenti; nessuno era venuto a trovarle ed ella non osava uscire. Di giorno si vergognava di farsi vedere per le vie, e dopo il tramonto i regolamenti dell'invasore vietavano agli abitanti di Bomal di uscire dalle loro case.

Chérie tremava al pensiero di doversi incontrare con qualcuno di conoscenza. Vero è che ben pochi ne rimanevano nel villaggio; chi aveva potuto partire, era partito. Gli uni si erano rifugiati all'estero, gli altri si erano radunati nelle grandi città, come Liegi o Bruxelles, sperando forse di trovarvi libertà maggiore e di sentirvi meno amaramente il loro stato di sottomissione e di schiavitù.

Venne un giorno un telegramma che richiamava Mary Elliot a Liegi. Era un soleggiato pomeriggio verso la fine di maggio, e l'infermiera, chiusa la sua valigia, ripiegato il suo mantello, si accinse alla partenza.

Chérie piangeva. «Restate ancora, Nurse Elliot, restate ancora con me!…»

«Impossibile, mia cara,» rispondeva Miss Elliot, che non voleva sembrare commossa. «Devo tornare al mio posto a Liegi. Del resto qui non avete più bisogno di me.»

«Oh! tanto bisogno abbiamo di voi!» pianse Chérie. «Io mi sentirò così sola, così abbandonata!»

«Abbandonata? Col vostro bambino? Con vostra cognata? Sciocchezze!» disse l'infermiera in tono energico, scoccando un bacio sulla guancia pallida di Chérie.

«Ma Luisa mi parla appena!» singhiozzò quella, desolata. «Sapete pure ch'essa odia il mio bambino e me!»

«Sciocchezze!» ripetè, Miss Elliot. Ma in cuor suo sentiva che Chérie diceva il vero.

Era infatti impossibile non accorgersi dell'avversione quasi morbosa che Luisa provava per il povero piccolo intruso. Luisa stessa, per quanto tentasse di vincere o di nascondere questo sentimento non ci riusciva. Ogni lineamento di quel minuscolo viso, ogni filo dei fini capelli d'oro chiaro, e la piccolissima bocca imbronciata, e gli strani occhi d'un grigio chiarissimo – tutto, tutto le era odioso, tutto le faceva orrore e ribrezzo e paura.

Quando vedeva Chérie sollevarlo e baciarlo, si sentiva impallidire; quando vedeva al petto di Chérie quella piccola testa impaziente, e le manine cercanti e tastanti sul giovane seno materno, era presa da un senso di nausea e di esecrazione. Per quanto ella dicesse a sè stessa che questo era irragionevole e crudele, pure non riusciva a vincere un sentimento che aveva le sue radici nella più profonda essenza della sua anima belga. Il suo odio era un istinto primitivo, ingenito, come ingenito ed istintivo era l'amore di Chérie per la sua creatura.

«Oh, sì, si, Mary! Luisa ci odia, ci odia entrambi,» ripetè Chérie stringendosi con gesto disperato le mani sul cuore. «Se mai per un istante mi accade di scordare le nostre tristezze, se gioco col piccino e gli sorrido, subito sento gli occhi di Luisa fissi su di noi, ostili, implacabili. Luisa ci odia. E tutti, tutti ci odieranno così. Sì! Sì! Tutti ci guarderanno con quegli occhi d'ira e di disprezzo. Ahimè! Dove, dove andremo a nasconderci, io e quel povero piccolo essere sfortunato?»

E volse una sguardo lacrimoso alla porta della camera che celava la culla.

Mary Elliot sospirò; poi si legò la cuffia sotto al mento e si mise i guanti. Era pronta alla partenza.

«Mia piccola amica,» disse gravemente ponendo le due mani sulle esili spalle di Chérie, «il fato, qualunque esso sia, lo dovrete affrontare. E lo affronterete con coraggio.» La baciò affettuosamente sulle due guancie. «Ed ora se mi volete un po' di bene, se in questi tristi giorni ho potuto confortarvi un poco – ecco venuto il momento di compensarmene!»

«Ah, come – come potrò mai compensarvi?» singhiozzò Chérie.

«Mettendovi il cappello, prendendo il vostro bambino tra le braccia, ed accompagnandomi alla stazione.»

«Alla stazione! Io!… col bambino! – oh, no! Non me lo chiedete!» Una vampata di rossore le era salita al viso.

In quel punto entrò Luisa pronta ad uscire.

«Sì,» ripetè l'infermiera fissando in volto a Chérie i suoi occhi risoluti. «Mi accompagnerete alla stazione – voi, vostra cognata ed il bambino. Verrete tutti e tre a dirmi addio e ad augurarmi buona fortuna.»

«Ve ne supplico, non mi chiedete questo,» mormorò Chérie.

«Lo chiedo,» disse Mary gravemente; «e voi non me lo potete rifiutare. Non vi ho forse dato molti giorni e molte notti di veglia e di cura? E molto affetto e molta tenerezza? Ebbene, questo è l'unico compenso che io vi chiederò.» Si avvicinò ancor più a Chérie e la circondò col braccio. «Ma non capite, cara, che prima o poi, oggi o domani, dovrete pur decidervi a questo passo che tanto vi spaventa? Non vorrete già chiudervi per sempre fra queste quattro mura, voi e il vostro bambino! Su dunque, prendete il vostro coraggio a due mani e venite fuori ad affrontare il mondo! Oggi – immediatamente – mentre ancora io sono con voi.»

 

Chérie esitava, pallida e titubante. D'un tratto si volse a Luisa:

«Tu – tu usciresti con me?»

Vi era tanta umiltà, tanta angoscia in quella domanda che Luisa ne fu tocca.

«Ma certo, cara,» rispose. «Corri, corri a vestirti.»

A quella risposta il cuore di Chérie ebbe un palpito di gioia. Afferrò la mano di Luisa e la baciò; poi corse rapida nella sua camera.

Indossò il modesto vestito nero che aveva portato nel viaggio dall'Inghilterra; ma il bambino lo vestì con tutto ciò che aveva di più bello. Gli mise il mantello bianco ricamato da lei, e la cuffietta di merletti adorna di nastri celesti, e le più eleganti scarpette a maglia di seta azzurra. Poi lo prese in braccio e andò a mettersi con lui davanti allo specchio.

Insomma, dopo tutto, era un gran bel bambino, non è vero? Non si poteva dire che non fosse bello come un cherubino. La gente avrebbe forse potuto odiarlo non conoscendolo.... ma appena l'avessero visto!…

Tremante, arrossente, sorridente, ella apparve al cancello del cortile dove già Mary Elliot e Luisa l'aspettavano. In mezzo a loro due uscì nella via e s'avviò tremante. Assai giovane, assai commovente ell'era, colle guancie vermiglie per l'emozione, volgendo in giro gli occhi lucenti e timorosi.

Chissà se incontrerebbero qualcuno? Qualcuno di loro conoscenza?....

Sì. Incontrarono Mademoiselle Veraender, la maestra di scuola. Questa le guardò, trasalì, poi facendosi di fuoco in viso, passò dall'altra parte della strada. Poi incontrarono Madame Linkaerst con sua figlia Clairette, compagna di scuola di Chérie. La ragazza diede un'esclamazione di gioia nel riconoscerle, ma la madre la prese bruscamente pel braccio e svoltò con lei in una via laterale. Incontrarono quattro soldati tedeschi che fumavano e parlavano ad alta voce tra di loro; questi si fermarono a guardare con curiosità l'infermiera della Croce Rossa americana; poi guardarono Luisa; poi Chérie, col suo bambino in braccio.

Uno di loro fece un'osservazione e gli altri dettero in una grande risata. Si fermarono tutt'e quattro in mezzo alla strada a guardare le tre donne, e quello che pel primo aveva parlato, fece con la mano un gesto di saluto a Chérie.

«Was haben wir da? Ein Vaterlandskindlein, gewiss!»

E gettò un bacio al piccino.

Tre o quattro monelli che correvano dietro ai soldati beffeggiandoli e imitando la loro andatura arrogante, videro quel gesto e l'interpretarono colla malizia che caratterizza il monello d'ogni paese. Anch'essi si misero ironicamente a gettare baci a Chérie e al bambino, gridando: «Petit boche, quoi?… Fi donc le petit Prussien!»

Chérie tremava come una foglia.

Un uomo che passava, zoppo e non più giovane, comprese la situazione e rincorse i ragazzi col suo bastone. Allora altra gente si fermò. Qualcuno tra essi riconobbe Luisa e Chérie; ma nessuno le salutò; nessuno sorrise al bambino nella sua cuffietta coi nastri ceruli e il suo mantello ricamato.... Tre o quattro oziosi seguirono le donne fino alla stazione, ridacchiando e lanciando frizzi grossolani ed insultanti.

Mary Elliot partì. Fu una triste separazione.

Allora Luisa e Chérie tornarono a casa silenziose, facendo un gran giro per evitare le strade più frequentate. Mentre risalivano il viottolo ombroso dietro la casa, Luisa volse uno sguardo alla cognata e si sentì stringere il cuore. Povera piccola Chérie! Quanto era bambina ancora, nonostante i suoi diciannove anni! E come triste, spaurita e vergognosa! Come aiutarla? Quale conforto porgerle? Quale speranza?

Nessuna! Nessuna! A meno che il bambino morisse.

Ma perchè avrebbe dovuto morire quella nefasta creatura? Non era esso forse frutto della giovinezza potente e della brutale vitalità? Non traeva il suo sostentamento dalle più pure sorgenti della vita? Perchè avrebbe dovuto morire? No, il bambino vivrebbe – vivrebbe per essere fonte di danni e di dolori, per portare vergogna e tristezza a tutti. Vivrebbe a ricordo eterno dell'oltraggio nemico, vivrebbe per tenere accesa eternamente la fiamma dell'odio nei loro cuori.

Chérie sentendo su di sè lo sguardo di Luisa si volse a lei con un rapido palpito di speranza.

All'anima sua sensibilissima non era sfuggito quel primo soffio passeggero di compassione e di tenerezza. Che Luisa volesse rivolgerle una parola di conforto e di pietà?… Che la vista del povero piccolo innocente le avesse finalmente toccato il cuore?

Ah, no! no! Ecco ancora negli occhi di lei quel lampo di risentimento, quel fiammeggiare terribile d'ira e di vergogna.

Abbassando ancor più il capo sul suo bambino, Chérie affrettò il passo e rientrò in casa.