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«Vado a chiamarla,» disse Luisa, e si mosse trepidante. Quando fu alla porta si volse e l'interrogò cogli occhi smarriti. «Che cosa devo dire a quelle bimbe?… Devo avvisarle del pericolo che ci sovrasta?»

«Subito – ma subito!» gridò Florian; «e mandatele a casa immediatamente.»

«Mio Dio! Mio Dio! Pietà di noi!» singhiozzò Luisa. «E Mirella – cosa farà? Avrà paura – piangerà…»

«Ma no, ma no. La piccola Mirella è coraggiosa più di noi,» disse Florian. Poi, come Luisa singhiozzava ancora andò da lei e le mise il braccio attorno alle esili spalle. «Su! coraggio, mia piccola madrina,» e si piegò sopra di lei con tenerezza fraterna a baciarle la guancia pallida.

Luisa, singhiozzando, uscì.

Florian rimase solo per pochi istanti. Udì che il canto di sopra si arrestò improvvisamente. Indi dei passi rapidi e leggeri scesero correndo le scale. La porta s'aprì e Chérie apparve sul limitare.

Florian indietreggiò, e gli si fermò il respiro. Ma come! Questa visione d'incanto, questa pura bellezza nei bianchi, ondeggianti drappeggi – era Chérie? la sua piccola amica Chérie? Ma come, come mai si era essa così trasformata dalla bambinetta scontrosa ch'egli aveva sempre conosciuta, in questa eterea beltà floreale?… Chérie ben s'avvide della sua meraviglia, e ristette ferma sulla soglia; timida, si velava le lattee spalle con una sciarpa vaporosa che le fluttuava intorno e le dava come un'aria di volo. I suoi limpidi occhi erano levati a lui larghi di azzurra e divina innocenza.

Un brivido scosse l'uomo che la guardava – un brivido di presciente orrore. Non erano già vicine le orde nemiche, briache di sangue e di ferocia? Non stavano già aprendosi con violenza la via verso questo fiore verginale? Ed egli doveva lasciarla! lasciarla, sola, alla mercè della loro brutalità? Di nuovo il brivido terribile lo scosse; mentre quei limpidi occhi ingenui lo fissavano, sorridenti.

«Chérie!» diss'egli con voce rauca. «Chérie!» La trasse a sè, le alzò il viso delicato e guardò profondamente dentro l'azzurra meraviglia dei suoi occhi.

Essa non parlò; nè ebbero un battito le sue ciglia. Offerse allo sguardo di lui tutta la trasparente profondità della sua anima. Ed egli ripetè ancora quella sola parola: «Chérie!…»

I quaranta minuti erano passati. Vi fu un affrettato congedarsi, un'ultima agitata parola di avvertimento e monito; poi con un tintinnio di speroni Florian era corso giù per le scale e s'era slanciato in sella.

Girò la testa del cavallo, che s'impennava, verso il Nord, e levò lo sguardo alle finestre.

Sì, erano tutte là a fargli cenno d'addio! Tutte vicine, le teste bionde e le brune; gli occhi ceruli e gli occhi neri lo seguivano....

«Ricordatevi,» gridò ancora Florian a Luisa, «ricordatevi – dovete partire domattina all'alba! Domattina all'alba!» E ancora mentre parlava, quell'indicibile brivido lo riprese. Era forse un presagio di ciò che l'indomani avrebbe recato? Era forse una visione di ciò che la tragica e sanguinosa aurora teneva in serbo per coloro ch'egli lasciava, sole nella loro indifesa bellezza e gioventù?…

Spronò il cavallo e partì.

Giunto in fondo alla strada egli si girò in sella un'ultima volta a riguardare la casa; vide che Chérie era corsa fuori sulla terrazza e stava lì, ritta e bianca come un giglio nella luce lunare.

Egli levò in alto la mano in segno di saluto. Poi si volse e partì al galoppo.

Via! – via nella notte, via verso i tonanti cannoni di Liegi e i sanguinanti campi di Visé! Via, portando con sè quella visione di candida e delicata bellezza.

E ripensò che non le aveva detto una parola d'amore, nè le sue labbra avevano osato toccare quelle di lei. No; la sua purità eterea lo aveva intimidito; il nimbo della sua virginale giovinezza era intorno a lei come un'armatura di neve....

—–

Così – così egli la lasciò: pura, fragile e dolce, bianca come un giglio, veduto in un giardino sotto la luce lunare…

Così – così egli la lasciò.

V

Le fanciulle, nelle vesti di mussola e le scarpette di raso, si sparpagliarono verso le loro case come un volo di farfalle spaurite.

L'avevano sognato, o c'era stato proprio, mentr'esse correvano sopra il ponte, un suono profondo e rimbombante come tuono lontano?… Ristettero ad ascoltare.

Sì.... eccolo di nuovo quel profondo fragore, tuonante da lungi nella notte stellata.

«Jésus, Marie, St. Joseph, ayez pitié de nous,» susurrò Jeannette, e le altre ripeterono tremanti la invocazione. Quindi attraversarono correndo il ponte e giunsero alle loro abitazioni.

* * *

Luisa, Chérie e Mirella erano rimaste sole nella casa deserta. Quando salirono a cercare di Frida trovarono la sua stanza vuota. Nulla di suo vi rimaneva, soltanto due libri – il «Deutscher Dichterschatz», e «Der Trompeter von Säkkingen» – giacevano sulla tavola, e il busto in gesso di Mozart stava ancora al suo posto sul caminetto.

«Sarà sgusciata via mentre noi parlavamo con Florian», disse a bassa voce Chérie volgendo una faccia pallida e stravolta a Luisa che girava lo sguardo stupefatto intorno alla stanza vuota.

«Era una vipera,» osservò Mirella tenendosi un po' più stretta al braccio di sua madre. «E anche Fritz era un serpe.»

Al nome di Fritz Luisa fu scossa da un brivido.

«Fritz!… Non sarà tornato?» disse piano, lanciando uno sguardo pauroso verso la finestra. Di là del cortile si scorgeva ancora nella semi-oscurità il fabbricato rustico dove il domestico aveva la sua camera. «Che ci sia?…»

Nel silenzio che seguì tutte guardarono quelle finestre chiuse e buie sopra il garage; e l'idea che Fritz potesse essere là nascosto e in agguato era assai inquietante.

«Bisogna andare a vedere,» disse Chérie, tremante ma risoluta.

Così – tenendosi vicinissime l'una all'altra, e Luisa portando alta sopra la testa una lanterna – attraversarono il cortile silenzioso. Spinsero la porta di legno, socchiusa, e salirono per le scale scricchiolanti alla camera di Fritz.

Vuota! – Era vuota anch'essa.

Luisa tirò un tremulo sospiro di sollievo; ma Chérie le additò il baule accanto al letto, e gli abiti sparsi per la stanza.

«Si vede che ha l'idea di tornare,» susurrò Chérie; e tutt'e tre tremarono a questo pensiero. Allora scesero rapide, attraversarono il cortile e rientrarono in casa. Si trassero dietro la pesante porta d'ingresso che si chiuse con fragore; ma quando vollero spingere il catenaccio e chiudere a chiave trovarono che questa era stata portata via, e la grossa spranga di ferro era staccata dal battente.

Fu in quel momento che il primo rombo lontano giunse alle loro orecchie.

«Che rumore è quello?» chiese Mirella, scotendo il braccio di sua madre. «Rispondi!»

Chérie le prese la manina. «Niente.... era niente,» disse rapida. «Andiamo su a preparare le nostre cose…» E vedendo Luisa che stava ancora davanti alla porta, impietrita come una statua colla lanterna in mano, le gridò: «Lulù! Ti prego.... va in camera tua a radunare ciò che vuoi portar via domattina.»

Luisa si volse e la guardò con occhi di sonnambula; indi lentamente si mosse, ed obbedì.

.... Ardua cosa scegliere fra tutti gli oggetti che ci circondano quelli da portarsi via, così, nelle nostre due mani! Ah, queste cose inanimate come ci crescono profondamente nel cuore, come diventano, col passar degli anni, una parte integrale della nostra esistenza!

Ma come? Si devono prendere solamente i denari e pochi gioielli?… E non questo quadro? Non queste lettere? Non questo dono prezioso di chi non è più?… Non la massiccia argenteria che per generazioni è stata nostra? Non il caro velo delle nostre nozze?.... Non lo sgualcito libriccino da Messa della nostra Prima Comunione?… E non le preziose medaglie che commemorano le campagne di guerra di nostro padre? Nè i documenti che dimostrano chi siamo e ciò ch'è nostro?…

Ma – e la gabbia con dentro i canarini che dormono – lievi pallottole di lanugine dorata? Si devono lasciarli qui a morire?… E il cane – il fedele compagno che alza su di noi i suoi occhi buoni e intelligenti?…

«Ah! Amour, a qualsiasi costo, lo portiamo con noi,» disse Chérie.

«Lo portiamo con noi…» ripetè trasognata Luisa che errava come un'anima smarrita per le stanze raccogliendo degli oggetti e poi rimettendoli giù.

Un orologio lontano suonò le undici.

Mirella, ancora nel suo vestitino di mussola rosa, s'era arrampicata sul letto di Luisa e sonnecchiava.

Ah!… Eccolo di nuovo quel rimbombo cupo, tuonante, perdentesi in un lungo e minaccioso brontolio....

«E' più vicino!» ansò Luisa, torcendosi le mani. «E' più vicino!» E mentre ancora lo diceva, ecco ripetersi il suono terribile – e più vicino, infatti, e più cupo, più profondo, più temibile.... Le vetrate della casa tremarono.

Mirella balzò a sedere sul letto cogli occhi spalancati e lucenti. «Cos'è?» Poi gridò forte: «Mamma! dimmi cos'è?»

Luisa accorse. «Zitta, cara, zitta,» disse chinandosi su di lei e baciandola.

«Ma cos'è?» insistette la bambina. «Voglio sapere! E' un temporale? O sono i nemici?»

«Ma no, piccola cara, no!» la rassicurò Chérie, accorsa anch'essa. «Sono i nostri cannoni, che sparano appunto per tenerli lontani.»

Mirella lasciò ricadere il capo sul guanciale e le chiome di seta bionda si sparsero tutt'intorno al piccolo viso.

Dopo un attimo riaprì gli occhi.

«Ma vorranno venir qui, i tedeschi?»

Vi fu un silenzio. Poi Chérie disse: «Che idea!» e Luisa soggiunse: «Mai più!»

«Ma… hanno voglia di venir qui?» insistette Mirella, cogli occhi che si appesantivano.

«E che cosa verrebbero a fare, scioccherella?» balbettò Luisa colle labbra pallide. «Che cosa potrebbero volere in questo piccolo villaggio?»

 

«Ma già,» assenti Chérie. «Dormi, dormi, Mirella, che l'alba sarà subito qui.»

Mirella chiuse gli occhi, e pensò ai tedeschi. I tedeschi – secondo gli insegnamenti di Frida e di un giornale umoristico settimanale chiamato «Fliegende Blätter» – si distinguevano in due categorie: Professori e Tenenti. I Professori erano vecchi, calvi e comici; i Tenenti erano giovani, aristocratici ed affascinanti. I Professori erano così distratti che non sapevano mai nè dove andassero, nè che cosa facessero; i Tenenti erano così irresistibili che solo a vederli tutte le ragazze di Germania cadevano in deliquio, e morivano per essi di etisia e di amore. Frida talvolta ammetteva che vi era qualche altro tedesco all'infuori di queste due categorie. Vi erano dei poeti, per esempio, ma questi erano già quasi tutti morti; vi erano delle buone madri di famiglia, che facevano una conserva chiamata Konfitür; vi erano dei camerieri d'albergo che andavano all'estero.... Ma certamente, pensò Mirella, i tedeschi che volevano entrare nel Belgio questa sera erano i Tenenti e i Professori....

Mirella si annidò più comodamente nei soffici cuscini e si addormentò. Sognò che erano proprio arrivati, che erano molto amabili e che ammiravano molto il suo vestito rosa.

Un rombo assordante la destò – uno scoppio immane con uno scrosciar di travi rotte e di vetri frantumati.

Mirella balzò dal letto, e subito un lampo l'acciecò, un altro rombo riempì l'aria.

Pareva che crollasse il mondo.

«Mirella!!» Le braccia di sua madre erano intorno a lei, e Chérie si aggrappava ad entrambe.

«Andiamo via – andiamo via subito!» gridò Chérie. «Cercheremo rifugio dal Borgomastro… dal Parroco… Non stiamo qui, non stiamo qui, sole!»

«Sì… sì… andiamo…» balbettò Luisa. «Ma chi ci porterà la roba?…»

«Che roba? Ma cosa dici?» gridò Chérie. «Non possiamo prender nulla – nulla, Lulù! – Per amor di Dio, andiamo!»

«Ma.... i denari?…»

«Fa presto!» gridò Chérie.

«Fa presto!» strillò anche Mirella battendo i denti.

«Ma come possiamo…» balbettò Luisa, toccandosi con mano tremula la gonna di trine, «come possiamo andare per il mondo vestite così?»

«Non importa – non importa – andiamo! Facciamo presto! mio Dio! facciamo presto!…»

Ma Luisa sembrava paralizzata e impietrita dal terrore.

«Adesso verranno… verranno,» mormorava fissando con occhi folli la finestra frantumata. Le pareva che nell'oscurità di fuori pulsassero e tuonassero le tremende parole di Florian: «Oltraggio, violenza e strage.... oltraggio, violenza e strage.»

D'improvviso un gigantesco fascio di fiamme si alzò nel cielo, illuminando la stanza d'un fantastico bagliore. Quindi un'immane esplosione scosse la casa fino alle fondamenta.

Con un grido Luisa afferrò Mirella e si slanciò fuori dalla stanza. Chérie le seguì scendendo a precipizio le scale. Ma un'altra esplosione le arrestò, folli di panico, sul pianerottolo. La casa tremava, i vetri della scala cadevano in mille frantumi intorno a loro.

Pazze di terrore si rifugiarono nella sala d'entrata.

—–

Passarono ore, od istanti?… Non lo seppero mai.

A un tratto sopra l'assordante baccano percepirono altri suoni. Erano voci – voci forti e rauche – giù, nella strada. Un frastuono di grida, di comandi secchi e gutturali, un clicchettìo di sciabole e speroni.

«Lasciami – voglio guardar fuori,» ansò Chérie, svincolandosi dalla stretta convulsa di Luisa. E corse, barcollando alla finestra....

Indi volse a Luisa un volto stralunato.

«Eccoli. Sono qui!»

Mirella cacciò un urlo che si perdette nello strepito crescente, e Luisa levò le mani al cielo.

«E' la morte – la morte» gemette, e strinse tra le braccia la piangente Mirella.

«Taci! Taci!» susurrò Chérie. «Forse non entreranno. Il portone è chiuso…» Ma pur mentre lo diceva sentiva tutta la fallacia di tale speranza. «Ah! mio Dio!» E Chérie, barcollante indietreggiò dalla finestra, aggrappandosi alle tende per non cadere. «Luisa, c'è qualcuno che apre la porta! E' Fritz.... E' Fritz.... E' lui che li fa entrare!»

Ed ecco già per le scale un trepestìo e un vociar alto e rude tra il tinnir di sciabole e speroni.

Allora, quasi se l'imminente incombere del fato l'avesse d'un tratto investita d'una forza e dignità nuove, Luisa si raddrizzò alta e tragica fra le due fanciulle tremanti, e con gesto solenne tracciò sulla fronte ad entrambe il segno della croce. Poi anch'essa si segnò; e con le braccia intrecciate stettero immobili. Erano pronte a morire.

Villanamente sbattuta da un calcio la porta si aprì; dei militari in uniformi grigie apparvero sulla soglia; altri gremivano l'andito spingendosi avanti rumorosamente. Ma alla vista delle tre figure allacciate si arrestarono e vi fu un istante di silenzio; quindi un ufficiale – un uomo alto, magro, dai baffi grigi – mosse un passo davanti agli altri, ed entrò nella stanza. Quelli dietro a lui si schierarono rigidi e impettiti sul limitare, evidentemente aspettando ordini.

«Tiens, tiens, tiens!» fece l'ufficiale squadrando le tre figure femminili da capo a piedi, dalle chiome lucenti alle scarpette eleganti. «Che quadro delizioso!» – e i suoi occhi sorridevano. «Si direbbe che vi siete falle belle per riceverci?» Il suo francese era perfetto; il tono, benchè lievemente sprezzante, non era nè rude nè scortese; i suoi occhi azzurri erano intelligenti e un po' canzonatori. A dir vero non sembrava una «jena infernale,» nè evocava l'idea di violenza, d'oltraggio o di strage.

Nell'anima di Luisa una reazione improvvisa successe alla tensione suprema di terrore. Le parve di fondersi e svanire in un'onda ineffabile di conforto e di speranza; e il sangue agghiacciato le rifluì con un caldo palpito nel cuore.

Frattanto l'ufficiale si era rivolto agli uomini immobili dietro di lui – due di questi parevano ufficiali di grado inferiore, gli altri otto o dieci erano semplici soldati – e diede loro un breve aspro comando in tedesco. Tutti salutarono, rigidi; mentre i due ufficiali facevano un passo avanti e si ponevano a lato del loro superiore. Uno di costoro – un giovane alto, dagli occhi chiarissimi – teneva un foglio di carta in mano.

Dietro l'ordine secco dell'ufficiale anziano egli lesse ad alta voce quanto vi stava scritto. L'ufficiale superiore, ascoltando quella lettura, si guardava intorno; volgeva gli occhi dalla finestra alla porta, poi all'altra porta, poi alla breve scalinata ricoperta di tappeti rossi che conduceva agli appartamenti superiori....

Chérie e Mirella – che capivano il tedesco – ascoltavano stupefatte quella lettura. Era una breve precisa descrizione della casa e dei suoi inquilini.

«Abitazione di Claudio Leopoldo Brandès dottore e ufficiale di riserva; età 34 anni; ammogliato con prole. Sua moglie, sua figlia e una sorella vivono con lui. Al pian terreno cinque vani: cucine, studio del dottore, camera da chirurgia e due sale d'aspetto; al primo piano, quattro vani; ai piani superiori, nove vani. – Garage; scuderia; rimessa (due cavalli, una motocicletta, un'automobile – requisiti); cantine e telefono. – Das ist alles, Herr Kapitän.»

«Uomini adulti in casa?» chiese il Herr Kapitän.

No. Queste donne soltanto.

«Dov'è questo dottor Brandès?»

Partito nella notte del 3 luglio.

«Per la frontiera?»

No; probabilmente per la capitale. «Ma,» soggiunse il giovane ufficiale, lanciando una fuggevole occhiata alle tre donne, «sarà facile accertarsene.»

«Bene. E c'era un nostro incaricato qui?» chiese il capitano.

«Sì. Un certo Fritz Müller di Löhrrach.» Chérie fremette e strinse più forte la mano di Luisa.

«Dov'è questo Müller?» domandò il capitano guardandosi intorno.

«E' giù.... dabbasso: quel domestico,» spiegò il tenente, «che ci aprì la porta».

«Incaricatelo dei biglietti d'alloggio;» ordinò il capitano. «Si provveda per 125 uomini. Quanto a noi —» prese di mano al giovane la carta e la rigirò per guardare il piano della casa disegnato a tergo del foglio – «vediamo un po'… Tre stanze a questo piano… quattro di sopra.... Glotz!» disse, volgendosi all'altro ufficiale, un sottotenente giovanissimo che gli stava dietro, muto e impalato – «Lei venga con me. E porti due uomini.»

Glotz salutò rigido.

Il capitano gettò un'occhiata su Luisa e Chérie. «Von Wedel» – l'ufficiale dagli occhi chiari si mise sull'attenti – «tu starai qui.»

Indi il capitano girò sui tacchi, salì impettito i quattro gradini, e sparve per le scale, seguìto dal sottotenente Glotz e due soldati.

Gli altri otto o dieci uomini rimasero nel vestibolo, schierati in fila, rigidi e immobili come tanti soldati di piombo.

Von Wedel con un colpo di piede chiuse l'uscio in faccia a costoro; quindi si volse a contemplare le tre donne lasciate in sua custodia.

Mosse lentamente, con passo deliberato, verso di loro; ed esse indietreggiarono tenendosi ancora per mano e levando su di lui gli occhi stellanti e spauriti.

Egli era molto alto e molto largo di spalle e torreggiava sopra le tre figurette tremanti.

Rimase, così, fissandole per alcuni istanti; i suoi occhi chiarissimi andavano da Luisa a Chérie, da Chérie a Mirella, poi tornavano a soffermarsi su Chérie.

«Ebbene, colombelle?» disse alfine; e rise. «Ci aspettavate dunque? Vi siete vestite da festa per riceverci?» Nei tre paia d'occhi alzati su di lui fluttuava molta paura.

Egli rise ancora, e mosse d'un altro passo più vicino. Subito tutte e tre indietreggiarono.

«Ebbene? Perchè non rispondete?»

Luisa si avanzò d'un passo mettendosi davanti alle altre due, quasi in atto di difesa; poi parlò con voce bassa e tremante:

«Signore.... spero… che voi e i vostri amici.... avrete la bontà di lasciare questa casa… Come vede.... non siamo che donne, qui.... E siamo sole…»

«Permetterete a noi di tenervi compagnia,» fece in tono tra l'insinuante e l'ironico Von Wedel; e soggiunse in aria d'amabile interrogazione: «Vostro marito non è qui?»

«No,» disse Luisa, e al pensiero di Claudio il suo labbro inferiore tremò, come quello d'un bambino che sta per piangere.

«Ah, non è qui? Ne sono desolato;» disse Von Wedel alzando un piede e poggiandolo, nello stivale infangato, su una sedia di broccato chiaro. «Aspetteremo che ritorni.»

«Ma,» balbettò Luisa «non torna stanotte.»

«Ah, no?… Che marito poco galante!» rise l'ufficiale sporgendosi in avanti col gomito sul ginocchio ripiegato, e i suoi occhi chiari e insolenti che finora, anche parlando con Luisa, erano sempre stati fissi su Chérie, errarono sfrontatamente sopra la graziosa trepidante figura della sua interlocutrice. «E dove sarebbe andato?»

Egli lanciò la domanda con noncuranza, traendosi di tasca un portasigarette d'oro e togliendone l'unica sigaretta che conteneva. «Mi pare che il vostro domestico dicesse che l'avevano mandato a Namur…»

«No, a Mons,» disse Luisa.

«Ah già, già – Mons!… Interessante città, Mons.» Picchiò leggermente un'estremità della sua sigaretta sul palmo della mano. «Già. Bella cattedrale, quella di St. Waudru.... Ed è andato solo?»

Mirella diede un pizzicotto a sua madre. «Taci, mamma! Non dirlo.»

L'ufficiale l'udì e rise. Presala per un braccio l'allontanò dolcemente dal fianco di sua madre.

«Ma guarda, guarda!» disse, sempre ridendo, «come siamo furbe e diplomatiche!» E stringendole forte il piccolo braccio la fece indietreggiare traverso tutta la stanza; indi, dandole una lieve spinta la lasciò, e rivolse di nuovo la sua attenzione alle altre due.

Luisa, che si era lanciata in soccorso di Mirella ristette pallidissima, mentre dal fondo della stanza Mirella, incolume e indoma, la rassicurava cacciando fuori la lingua dietro le spalle del nemico, in segno di sfida e di disprezzo.

Von Wedel fissava di nuovo Chérie, e sotto l'insolente insistenza di quello sguardo essa tremò come una fiammella al vento.

«Perchè tremate?» chiese egli. «Avete paura di me?»

«Sì,» mormorò la fanciulla, chinando il capo.

Egli rise. «Perchè? Non sono una belva feroce. Ho forse l'aria di una belva feroce?» E le andò più vicino.

Luisa con un passo si pose davanti a Chérie. «Mia cognata, signore, è molto giovane, e non è avvezza alle attenzioni degli estranei.»

«Buona donna,» replicò Von Wedel con tranquilla insolenza, «andate un po' a prendermi delle sigarette.».

E siccome Luisa lo fissava, sbigottita e immobile, egli alzò alquanto la voce. «Sigarette, ho detto. Preferibilmente turche. Vostro marito certo ne avrà. Su! movetevi, buona donna. Eins, zwei, drei – marsch!»

Per un attimo Luisa esitò; indi si volse e lasciò la stanza; Mirella correndo la seguì.

 

Anche Chérie si lanciò per seguirle, ma Von Wedel con un balzo le fu accanto e le afferrò il braccio.

«Halt, halt!» fece ridendo. «Voi starete qui, colombella; starete qui a discorrere con me.»

La fanciulla arrossì, impallidì e tremò.

«Che colombella timida,» disse Von Wedel curvandosi sopra di lei. «E come vi chiamate?»

«Chérie,» rispose essa, a voce così bassa che quasi non si udiva.

«Come, come? Chéri? E' a me che lo dici? Altrettanto a te, caruccia mia!»

E Von Wedel sedette sopra un angolo della tavola chinandosi vicinissimo a lei. «Ma di che cosa hai paura? E di chi hai paura?… Del capitano Fischer?… Di me?… Dei soldati?…»

«Di tutti,» mormorò Chérie.

«Di tutti! Ma guarda un po'! E dire che siamo così brava gente,» disse lui, e soffiò una boccata di fumo in lungo getto davanti a sè; poi buttò sul tappeto la sigaretta e la spense col piede. «Ma non sai che non faremmo male ad una mosca, noi? E neppure a un cane,» soggiunse ridendo alla vista di Amour, che comparso in cima agli scalini ne scendeva a piccoli salti zoppicanti, mandando dei guaiti dolorosi. «Tanto meno poi faremmo del male a un'adorabile tortorella come te.»

Il cane, lamentandosi pietosamente, venne ad appiattarsi ai piedi di Chérie.

Essa si chinò e lo prese tra le braccia. Evidentemente la bestiola soffriva.

Von Wedel disse: «Che bravo cagnolino,» e allungò la mano per accarezzarlo, ma Amour ringhiò mostrando i denti e l'ufficiale ritrasse in fretta la mano.

Luisa riapparve portando delle scatole di sigari e sigarette, e le depose sulla tavola. Mirella che la seguiva scorse Amour tra le braccia di Chérie è ne udì il minaccioso brontolìo. Al suo accorrere la bestiola riprese il suo fioco lamento.

Mirella lo guardò, gli toccò la zampa, poi volse due occhi saettanti sull'ufficiale: «Cosa gli avete fatto?» gridò, alzando in gesto quasi di minaccia la piccola mano.

L'ufficiale diede in una risata. «Toh, toh! che piccola Furia! che viperetta!» esclamò. «Del resto puoi portartelo pur via quel cagnaccio! A me le bestie non piacciono.»

A queste parole Chérie subito si mosse verso la scala portando seco Amour, ma l'ufficiale la trattenne.

«No, no, no, cara! Dà il cane alla piccola Furia. – Tu resti qui con me!»

Chérie, mordendosi le labbra per non piangere obbedì; indi si rifugiò accanto a Luisa, mentre Mirella correva di sopra con Amour tra le braccia. Essa lo portò nella camera di Chérie, gli baciò la ruvida testa nera, gli accarezzò la povera zampa che pendeva come spezzata, poi lo adagiò in un cantuccio bene accomodato su di un cuscino.

Indi tornò giù, correndo, a vedere cosa succedeva.

Amour lasciato solo espresse la sua sofferenza ed indignazione in lunghi urli e lamenti. Qualche istante più tardi il capitano Fischer, seguìto dal sottotenente Glotz e dai due soldati, scendendo dal suo giro d'ispezione nei solai, udì gli strazianti gemiti e si fermò sul pianerottolo.

«Cos'è questo rumore? Chi grida così?» chiese rivolto a Glotz.

«Sarà quel cane, signor capitano, a cui avete dato un calcio poco fa.»

«Orribile strepito,» disse il capitano. «Fatelo cessare.»

Allora uno dei soldati entrò nella stanza – e lo fece cessare.

Il capitano Fischer scese al primo piano seguìto da Glotz.

Quando Von Wedel lo vide entrare si allontanò da Chérie e si pose sull'attenti.

Di fuori era cessato già da tempo il rombo del cannone, ma si udivano ogni tanto degli scoppi d'arma da fuoco – improvvise scariche di fucileria che cessavano di colpo com'erano principiate.

I tre ufficiali parevano non badare a questi rumori. Si erano radunati intorno al tavolo e parlavano tra loro a bassa voce; il capitano dava ordini secchi e concisi; Von Wedel ogni tanto interrompeva domandando una cosa o un'altra; mentre Glotz, rigido e diritto come un balocco meccanico, diceva ad intervalli: «Ja, Herr Hauptmann – ja, Herr Leutnant,» senza alcuna espressione sul viso tondo, rosso e solenne.

Egli non aveva mai rivolto gli occhi sulle donne. Pareva che per lui non esistessero.

Luisa, con Chérie e Mirella, si era rifugiata in un angolo della stanza e tutt'e tre tenevano fissi gli occhi pieni d'ansia sul gruppo degli ufficiali.

«Chissà cosa dicono,» susurrò Luisa. «Cercate di capire....»

Chérie tese l'orecchio.

«Stanno parlando… aspetta… dicono dove andranno a dormire.»

Luisa giunse le mani. «Sta attenta, sta attenta…»

«Otto uomini staranno qui,» tradusse Chérie rapida, a bassa voce, «quattro negli abbaini e quattro giù al pian terreno.... Loro stessi —»

«Ebbene? Cosa? Dimmi – dimmi —»

«Andranno altrove.»

Luisa sussultò, premendosi le mani sul cuore.

«Aspetta… parlano del Cheval Blanc – aspetta… aspetta! dicono» le pupille dell'ascoltatrice si dilatarono «dicono che non vi possono andare perchè l'albergo è in fiamme.»

A questo punto Von Wedel ruppe in una rumorosa risata ed anche il capitano sorrise.

Solo il volto tondo di Glotz restò grave ed impassibile come la faccia d'un bambino solenne.

«Cosa dicono?… Cosa dicono?» ansò Luisa.

Fu Mirella che tradusse: «Parlano del Pfarrer – del signor Curato....»

Von Wedel diede un'altra risata. «Der alte Esel!… Seine eigene Schuld....»

«Cosa? Cosa?» domandò Luisa.

«Il vecchio somaro… tutta colpa sua,» tradusse Mirella.

Ed ora il capitano si curvava, guardandosi gli stivali.

«Cosa dice? Dimmi cosa dice —»

Chérie interpretò: «Dice che vuol levarsi dai piedi il fango e il sangue —»

«Il fango – e il sangue!… Ma no – ma tu fraintendi —»

Mirella saltò su: «No, no! Ha proprio detto così. Koth und Blut – fango e sangue.»

Un languore mortale come di deliquio colse Luisa: le parve di sentire sollevarsi il pavimento, poi affondarsi e crollare sotto di lei.

Ora Von Wedel aiutava il capitano a togliersi la tunica, traendogli il braccio sinistro dalla manica con molte precauzioni.

«Dice che è ferito,» susurrò Mirella.

«Ma che è cosa da nulla,» soggiunse Chérie; «una scalfittura al braccio…»

Difatti il capitano Fischer, tolta la tunica, stava rimboccando con molto riguardo la manica della camicia, scoprendo l'avambraccio piagato e sanguinante. Anche Von Wedel si chinò a guardare la ferita scotendo il capo con aria di grave inquietudine.

Il capitano guardò di sott'occhio Luisa e le fece cenno col dito di avvicinarsi.

«Gnädige.... venga qui, per favore.»

Luisa cogli occhi stralunati e la faccia terrea obbedì.

«Vostro marito è medico, non è vero? Avrete dunque in casa qualche antisettico.... del lisoformio? Del sublimato?....»

Luisa fece cenno di sì.

«Allora portatemene, ve ne prego. E un po' d'acqua, bollita, se ce n'è.»

Luisa si volse senza parlare e lasciò la stanza.

«Mi pare molto stupida,» osservò Von Wedel seguendola cogli occhi.

«Mi pare molto bella,» disse il capitano.

Luisa passò davanti ai soldati che affollavano l'andito. Scese le scale, tenendosi una mano alla fronte. Aveva le vertigini e le pareva di camminare in sogno. Sarebbero rimasti qui, in casa sua, tutta la notte questi uomini? Avrebbero mangiato e dormito qui? Avrebbero seguitato a darle degli ordini, ad occhieggiare Chérie, a spaventare Mirella? Quanto tempo rimarrebbero? Chissà? Forse una settimana.... forse un mese?…

Luisa entrò barcollando nello studio di suo marito e accese la luce. Alla vista di quella stanza, della poltrona di lui, del suo libro ancora aperto sullo scrittoio, così come l'aveva lasciato nella precipitosa partenza – Luisa si sentì torcere il cuore in una morsa d'angoscia. «Claudio… Claudio!…» singhiozzò. «Torna! Torna a proteggerci!…»

Ma Claudio era lontano.

Trovò la piccola fiala azzurra delle pastiglie di sublimato; versò dell'acqua distillata in una bacinella; poi prese del cotone e un pacco di garza. Quindi uscì, risalì le scale, passò ancora davanti alla turba grigia dei soldati, ed entrò nel salotto.

Era vuoto. Dove erano andati? dove avevano portato Chérie e Mirella?

Vacillando, inciampando, come acciecata dal terrore, Luisa salì i quattro gradini che conducevano alla sala di ricevimento. Dentro udì delle voci, ed aprì la porta.

Il capitano Fischer, in maniche di camicia e senza scarpe, stava sdraiato sul divano; Von Wedel e Glotz in piedi accanto alla tavola ancora tutta adorna di fiori per la festa, divoravano a grandi bocconi dolci, focacce e sandwich. Avevano gettati i loro elmetti grigi sul pianoforte; i loro cinturoni ingombravano le seggiole.