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VIII

Eva, frattanto, salite le scale, andò a battere leggermente all'uscio dello studio, trasformato ora in un salotto per le rifugiate.

Nessuno rispose; ed ella, stette un momento incerta. Poi udì una voce che diceva tra i singhiozzi: «Mirella! Mirella!»

Era tale la disperazione in quella voce che la fanciulla con subitaneo impulso girò la maniglia e socchiuse l'uscio.

Nel cerchio di luce sotto la lampada, un quadro, quasi biblico nella sua tragica bellezza, apparve ai suoi occhi e la fermò incantata sulla soglia.

La più giovane delle profughe – la pallida bambina – stava ritta e immobile coi lunghi capelli che le cadevano lisci e lucenti come acqua aurata intorno al viso; guardava fissa dinanzi a sè, rigida come una statuetta di marmo. Prostrata a' suoi piedi – e le lunghe vesti nere si spandevano come un cerchio di lutto intorno a lei – era la maggiore delle tre, il volto e le braccia levate in gesto disperato verso la figuretta immota. Era la sua voce singhiozzante quella che Eva aveva udito. E in piedi accanto a loro, tenendo alto tra le mani giunte un piccolo crocifisso d'oro, l'altra – la giovanetta che aveva sorriso – pregava: «Sainte Vierge, aidez-nous! Mère de Dieu, faites le miracle!»

Ma immobile, senza udito, senza sguardo, la bambina per cui le donne pregavano rimaneva ritta e rigida, cogli occhi spalancati fissi nel vuoto.

Eva sentì serrarsi il cuore e indietreggiò, richiudendo piano la porta. Indi, dopo un istante d'esitazione tornò a bussare, un po' più forte.

Quasi subito una voce tremante rispose: «Entrez.»

Ora erano in piedi tutte e tre, ma la più grande aveva ancora il volto rigato di lagrime.

«Non vorrei disturbarvi,» balbettò Eva sulla soglia. «Venivo per restare un pochino con voi.»

La seconda, quella che capiva l'inglese, si fece subito innanzi con un pallido sorriso riconoscente.

«Grazie, signorina, ne saremo felici.» Ed Eva entrò e chiuse la porta.

Vi fu un silenzio; poi Eva, con gesto timido e rigidetto, stese la mano alla maggiore: «Non pianga!» disse.

Ah! Come queste parole aprono il varco alle lacrime! Benchè pronunciate in una lingua a lei straniera, la dolorante donna le comprese e il fiotto di pianto risgorgò.

«Lulù! Lulù! Ne pleure pas,» scongiurò l'altra; e volgendosi ad Eva spiegò:

«E' per la sua bambina che piange – la sua bambina che non vuole più parlarle.»

Eva si sentì stringere il cuore. «E' proprio muta?» chiese a bassa voce, contemplando quel visino, serafico e scolorito come un pallido affresco di Frate Angelico.

«Non sappiamo. Non si riesce a capire.... E' da più di un mese che non ha mai sorriso e non ha mai parlato.» La dolce voce della giovinetta ruppe in un singhiozzo. «Sembra che non ci oda, che non ci riconosca....» S'avvicinò alla bambina, e ne carezzò il sottile volto: «Mireille, petite Mireille! dis bonsoir à la jolie dame!»

Ma Mirella rimase muta, tenendo fissi gli occhi in qualche cosa che nessun altro vedeva.

Allora anche Eva le si avvicinò e prese tra le sue la manina inerte della bimba.

«Mirella,» chiamò piano. Gli occhi azzurri parvero fluttuare, si volsero per un attimo verso Eva, ma subito lo sguardo si smarrì di nuovo, vacuo e vago, nel vuoto.

«Ma che cosa le è accaduto?» chiese Eva colla gola serrata in un singhiozzo. «Che cosa l'ha ridotta così?»

«Lo spavento,» rispose breve la giovanetta, mordendosi le labbra.

E non disse altro.

«Spavento di che?» insistè Eva colla inconscia crudeltà della giovinezza e del desiderio di consolare.

«Sono venuti… i nemici… in casa nostra,» balbettò quella che si chiamava Chérie. «Le hanno fatto paura....» E di nuovo le sue labbra tremanti si serrarono mentre una vampata di rossore le inondava il volto. Poi il colore svanì, lasciandola d'un pallore cereo con un'ombra bistrata intorno agli occhi.

«Furono crudeli con lei? Le fecero del male?» chiese palpitante Eva; e volgendo gli occhi su quella misteriosa figuretta immobile, l'animo suo, colpito, realizzò per la prima volta il significato della parola guerra.

«No, no! non le fecero male. A lei non fecero niente. Ma ebbe tanto spavento —» circondò con un braccio le esili spalle della bambina; e tacque.

«E allora?»

«E allora, perchè gridava, la presero.... e la legarono.... a una ringhiera.»

«La legarono a una ringhiera?! Che infamia!» esclamò Eva. «Che crudeltà!»

«Ah, sì! Erano crudeli,» mormorò la fanciulla e il memore terrore le riapparve negli occhi. Poi si volse, quasi per cercar rifugio, all'altra donna, quell'alta e nera figura silenziosa che fissava con occhi sognanti il fuoco.

«Luisa!» invocò a voce bassa. Ma quella non si mosse.

«Ma voi,» continuò Eva, appassionata di sapere di più, «avevate paura anche voi?»

«Sì. Avevo paura.»

«Allora cosa avete fatto? Siete fuggita?»

«Non so… non ricordo. Non ricordo nulla…» ansò la fanciulla. E tale era il terrore e l'angoscia in quel giovane viso che Eva non osò chiedere altro.

«Perdonatemi,» balbettò. «Forse non avrei dovuto parlare di queste cose… Mi perdonate?… Ditemi che mi perdonate… Chérie!»

IX

Le placide giornate di settembre passarono; la tranquilla atmosfera inglese, il sano vitto inglese, e la saggia ospitalità inglese – che consiste nel non occuparsi dei propri ospiti, ostentando piuttosto un completo oblìo della loro esistenza – tutto concorse a compiere dei blandi miracoli su quelle tre anime sventurate.

Non già che Mirella ritrovasse la parola; ma Luisa, giorno per giorno, potè notare con palpitante cuore il rifiorire del color di rosa su quelle guancie diafane e vide gradatamente sparire da quegli occhi l'espressione straziante di terrore.

Mirella non piangeva mai, e non sorrideva mai. Sembrava vagare nell'ombra della vita, muta, inconscia e serena.

Ma la vita e la gioia ritornarono frementi e pulsanti nel giovane cuore di Chérie, rivelandosi in tremuli sorrisi, in qualche parola alata di gaiezza. Presto furono risate trillanti e un correre per il giardino con passo lesto e leggero....

Sovente accadeva a Luisa, seduta alla finestra dello studio accanto a Mirella, di lasciar cadere il lavoro sulle ginocchia per seguire cogli occhi stupiti la figuretta di sua cognata, che volava qua e là per il campo del tennis con una leggerezza di farfalla. Luisa si trovava ad ascoltarne, sorpresa, la voce dolce e gaia che si era così presto intonata alla favella inglese.

E l'animo suo si riempiva di meraviglia. Come.... come aveva fatto Chérie a scordare così presto? Non aveva dunque più pensiero per il fratello e per il fidanzato, combattenti laggiù nelle sanguinose pianure d'Ypres? Come, come poteva essa correre, distrarsi, ridere, mentre non si avevano notizie nè di Claudio nè di Florian? Mentre forse – ahimè! – giacevano entrambi in qualche lontana vallata del Belgio morti – morti – colle faccie rivolte al cielo. E come, ah! come mai poteva ella aver scordato ciò che avvenne in quella notte d'orrore – non più di qualche settimana fa?

Sovente allora – quasi che un tenero istinto le parlasse al cuore – Chérie si volgeva improvvisa e guardava su. Guardava quei due pallidi volti incorniciati dalla finestra, tra le foglie rosso-dorate d'un rampicante autunnale. Allora gettava via la racchetta e senza una parola ai compagni di gioco, correva in casa, e su nella stanza da studio, a gettarsi ai piedi di Luisa con singhiozzi e un diluvio di lagrime.

«Mirella!… Florian!… Claudio!…» i tre nomi diletti le sgorgavano dalle labbra in accenti disperati, e a stento Luisa poteva consolarla, baciandola, ravviandole i riccioli scomposti, carezzandole la fronte accaldata e le guancie lagrimose, e riaccompagnandola alfine ella stessa in giardino.

Mirella le seguiva, lieve e silenziosa, come un serafino che camminasse in sogno....

Infine non fu soltanto per consolare Chérie che Luisa ritrovò in quei primi giorni d'esilio il suo sorriso. Anche in cuore a lei entrava, timida ospite, la speranza.

V'erano notizie migliori dal Continente; tutta Europa era sorta in armi e combatteva con loro e per loro. Già erano giunte le prime gloriose nuove della battaglia della Marne. Poi, un giorno, arrivò un messaggio da Florian!

Apparve nella colonna degli annunci sulla prima pagina del «Times»; e il signor Whitaker stesso – seguìto solennemente dalla signora Whitaker, da Eva e da Giorgio – volle portarlo disopra alle loro ospiti.

Nelle brevi righe di quell'annuncio Florian diceva di essere sano e salvo, di aver veduto Claudio, che stava anch'egli bene. Dava un indirizzo al quale li pregava di voler scrivere se fortuna volesse che questo messaggio cadesse sotto i loro occhi.

Luisa e Chérie si abbracciarono, piangendo di gioia. Claudio e Florian erano salvi! Salvi! E un giorno sarebbero venuti in Inghilterra a prenderle. Forse, chissà! tra un mese o due la guerra sarebbe finita…

Da allora in poi tutte le notti Luisa sognò ad occhi aperti il ritorno di Claudio. Si figurava il suo arrivo, il suono dei suoi passi sulla ghiaia del giardino, la sua voce nell'atrio.... e poi – poi le sue forti braccia intorno a lei – Ah! mio Dio! con un sussulto essa ricordava Mirella!

Mirella!…

No – no! Con un grido Luisa si drizzava a sedere sul letto. No! No! Mirella doveva guarire, guarire prima che Claudio la vedesse. Egli non dovrebbe sapere mai ciò che era accaduto. Non bisognava dirgli nulla. Nulla. – Mai.

Oppure?… Si doveva dire?…

Questo dubbio divenne un'ossessione, una tortura. Doveva essa dirgli tutto – o tacere?

Perchè, perchè, l'avrebbe dovuto dire? Per spezzargli il cuore?…

E allora tornava all'angoscia di prima. No, bisognava tacere. Bisognava far guarire Mirella, far guarire Mirella, prima che suo padre la rivedesse! Sì, sì! Il Dio di misericordia la farebbe guarire!

 

Mirella ritroverebbe quella sua voce striduletta e cara, quel suo riso acuto e gaio con cui sempre accoglieva il ritorno del babbo....

Il sorriso e la voce di Mirella! Dov'erano? Chi li teneva in serbo? Se li erano presi i Santi del Paradiso? Ma che se ne facevano loro della voce e del riso d'una povera bambinetta umana? E Luisa cadeva in ginocchio cento volte al giorno, pregava Dio, la Vergine e i Santi che rendessero a Mirella la sua voce e il suo sorriso.

Ah, Sant'Agnese certo l'avrebbe aiutata! o la piccola Santa Filomena – martirizzate entrambe a tredici anni....

E Luisa pregò. Pregò piena di fede e di speranza, per molti giorni; e poi pregò, piena d'angoscia e di disperazione, per molte settimane.... Poi, d'improvviso, non pregò più.

Da un giorno all'altro il suo viso si trasformò. Le morbide linee parvero improvvisamente scolpite nella pietra.

Ora quando sedeva, sola faccia a faccia con Mirella, i loro occhi s'incontravano ed avevano la stessa fissità tragica, lo stesso vacuo stupore; però, mentre dallo sguardo della bambina era svanita l'espressione di spavento, ecco il terrore era entrato negli occhi della madre.

Una paura nuova, una ossessione nuova, teneva l'anima smarrita di Luisa. E coll'alba d'ogni novella giornata ingigantiva quel dubbio, cresceva quella certezza di sventura e d'orrore.

—–

«Luisa! cara! Che cos'hai? Sei malata?» le chiese un giorno Chérie notandone lo stanco atteggiamento ed il pallore mortale.

«No, cara, no,» disse Luisa. «Non ho nulla. E – tu

Ella fece questa domanda all'improvviso, volgendosi e figgendo le pupille ardenti in viso alla fanciulla.

«Io?… Che strana idea! Perchè me lo domandi?»

«Ma rispondi! Ti senti bene?» insisteva Luisa. «Giorgio Whitaker.... mi disse…» Luisa riusciva appena a parlare «… che l'altro giorno ti eri sentita male.... che avevi avuto – non so – come uno svenimento…»

«Oh!» fece Chérie ridendo e scrollando le spalle. «Che stolto quel ragazzo a venirtelo a dire! Ma se non è stato nulla!» E come Luisa la fissava, stranamente, intensamente, ella spiegò: «Giorgio ed Eva m'insegnavano a giocare al hockey… e tutt'a un tratto mi venne come un abbaglio agli occhi.... uno stordimento – e caddi. Ma era niente, ti assicuro, proprio niente. Mi avviene spesso di provare un po' di vertigine e di nausea.... Ma perchè diventi pallida? Se ti dico che non è nulla! Sono un poco anemica, e nient'altro. Davvero, davvero!» ripeteva ridendo, e abbracciando Luisa. «La prova migliore è che ho sempre una fame da lupo!»

E ribaciò Luisa, e se ne corse via a passo di danza, a cercare quel «Mister George» per sgridarlo d'aver raccontato delle storie.

Lo sguardo di Luisa la seguì – angosciato, profondo, scrutatore.

X

Il Reverendo Smyth aveva organizzato un concerto di beneficenza in favore dei profughi ospitati dalle varie famiglie di Pinner. Il concerto avrebbe luogo nel salone della scuola, l'ultima domenica di settembre. Il ricavato sarebbe andato diviso tra i rifugiati belgi del vicinato, ai quali furono pure mandati dei biglietti d'invito.

Le due prime file di posti erano riservate esclusivamente per loro.

Già da qualche settimana ferveva intensa l'agitazione tra i dilettanti che avevano offerto il loro concorso. Miss Sophy Slepper, la vicina dei Whitaker, doveva cantare «Goodbye» di Tosti e «Il Bacio» di Arditi; essa passava le sue giornate in alterni gargarismi e gorgheggi; e sovente l'ascoltatore non riusciva a distinguere quale delle due cose ella stesse facendo.

Infine la gola le si irritò a tal segno che dovette rinunciare al concerto; e il Comitato si recò a pregare Madame Mellon di cantare in sua vece.

Madame Mellon, bruna, grassa ed amabile signora, dichiarò che era pronta a qualunque cosa: e così sul programma al «Goodbye» e al «Bacio» venne sostituita «la Habanera» della Carmen – ben noto pezzo di resistenza di Madame Mellon.

Questa sguernì per l'occasione il suo più bel capello – modello parigino – per averne la rosa di velluto rosso da mettere nei capelli.

«Ma come!» esclamò la povera Miss Slepper in un bisbiglio roco – ell'era andata generosamente a trovare la sua rivale per sentire un po' come stava di gola – «Ma come! Avete forse idea di cantare la Carmen in costume?!»

Madame Mellon, ampia ed equanime davanti allo specchio, inarcò le folte sopracciglia «Ma… non precisamente,» disse provandosi la rosa prima sulla tempia sinistra, e poi accanto all'orecchio destro, «non precisamente in costume. Ma bisognerà pur dare, anche nell'abbigliamento, quel tocco spagnolo… quel non so che di folle e di felino che la romanza esige… Non vi pare, cara?»

Miss Slepper strinse le sottili labbra in un sorriso acidulo e beffardo.

«Ho fatto accorciare la mia veste di merletto nero,» continuò Madame Mellon: «e vi ho aggiunto una nota di colore audace qua e là....»

E accennava all'esuberante petto e ai poderosi fianchi.

«Metterò una cintura scarlatta, con un nodo qui. Quanto a questa rosa forse, come la Carmen di Merimée, la terrò fra i denti entrando. Sarà di molto effetto. Avevo anche pensato,» soggiunse, «di avere in mano una sigaretta accesa. Ma mio marito e il Reverendo Smyth me l'hanno sconsigliato.»

 
«L'amor, sel sappia il mio bel damo»
 

gorgheggiò giocosa nella ricca e pastosa voce di contralto. E la povera Miss Slepper si sentì contrarre in gola per l'invidia le sue note asprette di soprano, che le raschiavano l'ugola come tanti pezzetti di vetro rotto....

Giorgio Whitaker doveva eseguire qualche gioco di prestigio che aveva imparato in un libro intitolato: «La Magia in Famiglia.» Li aveva eseguiti varie volte in casa con grande destrezza e successo; ma il giorno del concerto sentì a un tratto mancargli la bella e balda sicurezza di sè. Girava per la casa dicendo a tutti: «Ho idea che stasera farò una figura barbina.» E nessuno aveva il tempo o la voglia di contraddirlo.

Circa mezz'ora prima che si dovesse partire egli si trovò con Chérie nell'atrio, aspettando gli altri che stavano ancora vestendosi.

Chérie indossava una veste prestatale da Eva, una veste di mussola bianca con nastri celesti che Giorgio conosceva bene, e gli faceva provare verso di lei un vago senso di fraterna tenerezza. Sua sorella e sua madre erano ancora disopra a fare toletta, ed anche Luisa non era ancora scesa, avendo dovuto mettere a letto Mirella e raccomandarla – in un inglese più febbrile che corretto – alle cure di Mary, la cameriera.

«Farò una figura da perfetto imbecille,» ripetè Giorgio per la millesima volta fissando con cupo sguardo Chérie. «Lo sento nelle ossa.»

«Ma no,» lo incoraggiò essa.

«Ma sì,» asserì Giorgio rabbiosamente. «Ho le mani umide e diaccie. Non potrò far niente.»

«Peccato!» sospirò Chérie scotendo la vezzosa testa.

«Sentite… sentite un po' che mani,» disse Giorgio stendendogliele perchè essa le toccasse.

«Poveretto!» disse Chérie.

«Ma sentitele!» insistè Giorgio. «Sono gelide.»

E Chérie colla punta d'un dito gli toccò la mano.

«Gelide, davvero,» affermò con profonda commiserazione. E allora Giorgio rise, e rise anche lei.

«Vi assicuro,» confessò il prestigiatore, «che sono nervoso; straordinariamente nervoso. Ho anche il batticuore.»

«Possibile!» fece Chérie.

«Sì, sì, un terribile batticuore,» disse Giorgio; e sospirò profondamente. «Ricordatevi che ve l'ho detto. Farò una figura barbina.»

—–

La fece.

Il primo numero del programma era il suo; e quando egli apparve fu salutato da applausi prolungati ed entusiastici. Ma appena la sala si fu accomodata in un silenzio pieno d'aspettativa, il panico lo colse.

Svariate cose gli scapparono subito dalle maniche; oggetti inattesi che non avrebbero dovuto ancora presentarsi gli facevano capolino dalle tasche; quando voltava le spalle gli si vedeva la schiena gonfia di oggetti nascosti; e per colmo di sventura delle bandierine apparvero e si spiegarono di moto proprio molto prima del tempo, e in certe parti della persona dove non è solito esporre bandiere.

Sua madre guardandolo, era tutta in un bagno di sudor freddo. Eva aveva chiuso gli occhi e pregava il cielo che la finisse presto.

Ma non finiva. Quelle bandiere che avrebbero dovuto essere la chiusa patriottica e trionfale della sua rappresentazione essendo apparse al bel principio, pareva ora all'angosciato Giorgio che non vi fosse più modo di finire. Tirò avanti, smarrito, colla gola arida, frugando qui, abbrancando là, trovandosi nelle mani un cappello a cilindro, un fazzoletto e un uovo, senza la più lontana idea di che cosa ne avrebbe fatto.

Chérie da principio lo aveva seguìto con serietà ed attenzione, ma quando egli, incontrando improvvisamente il suo sguardo, lasciò cadere l'uovo – le parve di dover ridere o morire.

Quando poi una palla da tennis gli cadde dalla manica ed egli andò carponi a cercarla sotto il pianoforte a coda, mentre la bandiera britannica gli scendeva lentamente da sotto alla marsina e si svolgeva solenne dietro a lui – Chérie si sentì mancare. E rise, rise nascondendo la faccia tra le mani, rossa la fronte, rosso il collo, colle sottili spalle sussultanti, mentre Luisa le dava bruscamente di gomito susurrando: «Sta ferma!… Non ridere!… Non ridere, che ti guarda!»

Difatti Giorgio uscendo di sotto il pianoforte vide subito quella figuretta scossa dalle risa in prima fila; e le mani gli divennero più umide e la gola più secca.

Finalmente il Reverendo Smyth nelle quinte, per porre fine alla prolungata angoscia di Giorgio e del pubblico, si diede ad applaudire rumorosamente; e l'umiliato prestigiatore se ne andò rapidamente, mentre dalla tasca posteriore della sua marsina sporgeva il capo, con occhio curioso e perturbato, un coniglio.

Dietro le quinte il Reverendo tentò di confortarlo:

«Ma via! Non disperarti così. Non c'è poi stato tanto male!» disse giovialmente battendogli sulle spalle. «Ti ha fatto confondere quella scioccherella che rideva in prima fila!»

«Ma no; ma niente affatto!» dichiarò Giorgio asciugandosi il sudore. «E' stato quel maledetto uovo.»

«Ah, già! l'uovo,» disse il Reverendo coprendosi la bocca col programma.

«E quando mai m'è venuta l'idea del coniglio! Si dimenava come un ossesso, mi faceva un solletico insopportabile.... E' stato lui che ha fatto venir giù la bandiera —»

«Già. La bandiera,» mormorò il Reverendo.

«Basta,» disse l'infelice Giorgio; «bisognerà spiegare che ho fatto così apposta. Che questo doveva essere un numero buffo....»

«Non occorre spiegarlo,» disse il crudele Reverendo.

Ma già cominciava il secondo numero. Madame Mellon era uscita sul palcoscenico colla rosa in bocca e la mano sull'anca. Il suo gomito rosso e possente appariva ignudo tra le brevi maniche e i guanti troppo corti.

Madame Mellon ricordandosi di dover essere folle e felina volgeva in giro gli occhi sfolgoranti d'appassionata vivacità spagnuola.

Al pianoforte il timido e miope signor Mellon, dopo molte aggiustature dello sgabello scricchiolante, prese il suo posto e cominciò. Ma aveva appena attaccato nervosamente le prime note delle battute d'introduzione, che la «Habanera» irruppe turbolenta dal petto di Madame Mellon. Con uno scoppio di voce ella informò l'uditorio che l'amore era un misterioso augello....

Il signor Mellon, che aveva ancora da suonare tre battute d'introduzione, si confuse, perse il segno, andò avanti un poco brancolando mollemente tra gli accordi sbagliati – poi si fermò e volse alla moglie un viso sbalordito.

Seguì una breve discussione a bassa voce, ciascuno rimproverando l'altro d'aver sbagliato – ella chiedendogli perchè non andava avanti, e lui spiegando che lei avrebbe dovuto aspettare ancora quattro battute.

Ricominciarono. E per la seconda volta Madame Mellon informò il suo uditorio che l'amore è un misterioso augello.

Con impeto latino, con molto ansar del seno e fiammeggiar delle pupille, ella dichiarò con selvaggia noncuranza:

 
«Se tu non m'ami – ebben io t'amo!»
 

e le parole: «E se mai t'amo dêi tremar per te!» sembrarono acquistare sulle sue labbra un significato di minaccia nuova e temibile.

E ancora una volta Chérie che aveva ascoltato seria e composta le prime battute, fu presa da un accesso d'irrefrenabile ilarità, e dovette nascondere il viso fra le mani, scossa da uno spasmodico accesso di riso.

Luisa guardò Chérie; poi guardò Madame Mellon; ed ecco che lei pure fu colta da una voglia di ridere quasi isterica. Le labbra serrate fra i denti, le narici frementi, ella si tenne rigida e dritta, cogli occhi fissi sul palcoscenico, ma le sue spalle susultavano, e le lagrime le scorrevano pel viso.

 

Certo Madame Mellon vide quelle due colpevoli in prima fila; ma ne distolse con disprezzo lo sguardo. Il suo canto si fece più forte, più impetuoso e più stonato. Le sue note si libravano crescenti di un semitono, in strida selvaggie sommergendo il timido accompagnamento del povero signor Mellon che arpeggiava querulo tre battute dietro di lei.

Gli altri profughi accorgendosi che Chérie e Luisa ridevano si volsero a guardarle; i ragazzi Pitou cominciarono a ridacchiare, ma furono rapidamente ricondotti alla serietà da qualche ben assestato pizzicotto materno.

Il numero che seguiva era una danza; una specie di danza di Salomé – modificata e moderata per uso inglese – ed eseguita da Miss Tilly Prim.

Quando Miss Prim mise fuori dalle quinte pudicamente i piedi e le gambe nude, e s'avanzò angolosa e arridente negli scarsi drappeggi, anche la signora Pitou fu presa da un irrefrenabile parossismo di risa, e dovette lasciare che i piccoli Pitou si torcessero dall'allegria, mentre ella nascondeva il viso paonazzo nel fazzoletto. In breve tutti i profughi furono presi dal contagio di un'insensata ilarità. Ogni gesto di Miss Prim, ogni suo passo di danza, ogni suo sorriso svenevole e promettitore evocava nuovi convulsivi accessi di risa. Ella danzava ignara e passionale; mentre ogni sua piroetta, ogni salto che scoteva con sordo tonfo il palcoscenico faceva ondeggiare dalle risa tutti gli occupanti delle due prime file.

Quelli immediatamente dietro a loro se ne avvidero. Poi altri. Si cominciò a sussurrare per la sala che i profughi ridevano.

In breve tutto l'uditorio allungò il collo per vedere questi indegni e ingrati stranieri, a beneficio dei quali il concerto veniva dato, e che stavano scioccamente ridendo come tanti mentecatti.

La inconsapevole Miss Prim stava appunto rialzandosi da un atteggiamento di genuflessione, con un sorriso estatico e due macchie nere sulle ginocchia, allorchè scorse il ragazzo Pitou che si torceva in silenziosa allegria all'estremità della prima fila. Gli occhi di lei vagarono allora lungo tutta la prima e la seconda fila, ed ella vide tutte quelle faccie sconvolte dalle risa, tutti quegli atteggiamenti spasmodici e quelle spalle in sussulto.

Lanciando su di loro una sguardo di sdegno ineffabile, ella rientrò altezzosa, colle sue gambe nude, nelle quinte.

Il signor Mellon seguitò ad arpeggiare un pochino, trepido, sul pianoforte, e poi egli pure si alzò e si affrettò a sparire dalla più vicina uscita.

Dietro le scene gli artisti erano riuniti in un congresso d'indignazione. Vi erano sul programma altri undici numeri, ma nessuno voleva più prodursi.

Qualcuno propose che il Reverendo Smyth si presentasse e facesse un discorso breve, ma tagliente; ed egli si avanzò infatti fino a metà del proscenio, ma tornò indietro non avendo nulla di pronto da dire; ed anche perchè la vista di quei profughi che si dimenavano nelle risa lo sconvolse.

Quanto a loro, il vederlo apparire e sparire non servì certo ad alleviare la loro condizione che ora rasentava l'isterismo collettivo.

Finalmente, dopo un rapido consulto dietro le quinte, la buona Miss Johnson si lasciò persuadere a uscir fuori a cantare i «Pifferi di Pan.»

Ripassò in fretta mentalmente le parole:

 
«Torna il Dio Pan
su questa terra in fiore…
 

E poi il ritornello:

 
«Quale mai suon di giubilo
Echeggia da lontan?
 
 
«Ah! Sono i folli pifferi,
I lieti, folli pifferi,
 
 
«I folli allegri pifferi,
I pifferi di Pan.»
 

Intanto il signor Mellon, colla gola arida per il nervosismo e la paura di quanto Madame Mellon potesse avere a dirgli a concerto terminato, era andato a trangugiare un bicchiere di birra al buffet, nella sala di ginnastica.

Quando Miss Johnson si presentò alla ribalta vide che il signor Mellon non era al pianoforte per accompagnarla; lo attese qualche momento con dignitosa calma; indi rientrò nelle quinte da una parte, al momento stesso in cui il signor Mellon – asciugandosi la bocca – usciva frettoloso dall'altra.

Allora ci volle del bello e del buono per placare Miss Johnson, e persuaderla e spingerla fuori una seconda volta. E tutto ciò la confuse tanto che dimenticò tutte le parole e dovette contentarsi di fare dei suoni inarticolati finchè non arrivò al ritornello.

Qui si sentì salva.

 
«Ah! sono i polli fifferi…»
 

cominciò. C'era o non c'era qualche cosa di sbagliato in quelle parole?

 
«I pieti polli fifferi —»
 

Miss Johnson girò intorno gli occhi stralunati, che cosa stava cantando?

 
«I polli —»
 

gridò disperata sul là diesis acuto.

E la voce le mancò per il resto.

«Misericordia!» mormorò la afona Miss Slepper alla signora Whitaker che le sedeva vicino. «Che voce stridula!»

«Già,» assentì la signora Whitaker. «E che strana canzone! I polli fifferi – che cosa saranno mai?»

—–

Inutile negarlo. Il concerto era un fiasco.

L'esecrabile contegno dei profughi e il contagio del loro ridere insensato aveva dato luogo ad una specie d'isterismo che si era propagato per tutta la sala. L'intero uditorio aveva finito col cedere ad una ilarità pazzesca e irrefrenabile.

Ogni numero del programma veniva accolto da risa soffocate, talvolta addirittura da strilli di risa frenetiche dalla parte più giovane del pubblico.

Il Reverendo – che anche lui a dire del signor Mellon era stato trovato convulso ed esausto su di una panca in un'aula vuota della scuola – fece, alla fine dello spettacolo un discorsetto breve ma caustico.

«Sarà colpa nostra e dei nostri troppo modesti talenti,» disse, «se non abbiamo saputo che destare le facoltà risive dei nostri ospiti forestieri… Ad ogni modo,» concluse, «ho il piacere di annunciare che la somma raccolta è di lire sterline 16, sette scellini, e sei pence.»

I profughi se la svignarono umiliati e vergognosi; e per molto tempo furono trattati come paria da tutta la contea di Surrey.

—–

Quanto agli artisti, da quel funesto giorno in poi nessuno ha mai più osato pronunciare la parola «concerto» in presenza di Madame Mellon, di Miss Johnson o di Miss Prim.