Il Castello Della Bestia

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Lui allungò la mano per restituirle il telefono, premendo il pulsante per tornare alla schermata iniziale, ma si fermò quando guardò l’immagine dello screensaver, che era apparsa. Il respiro si bloccò nella gola di Veronica. Era una sua foto sulla spiaggia, affiancata da due giovani uomini alti e belli. C’era stata una brezza quel giorno, quindi i loro capelli erano tutti scompigliati dal vento, e il sorriso sui loro volti era sereno e del tutto spensierato. Era stato quello che lei considerava "L’Ultimo Splendido Giorno".

Sperò che lui non le chiedesse nulla, e qualcosa doveva averle brillato negli occhi, visto che lui le restituì il telefono senza fare commenti.

«Ci vediamo a cena?» le chiese.

«Senz’altro. A più tardi. In realtà, è meglio che vada a prepararmi» rispose, voltandosi verso la casa.

«Naturalmente.» Aveva parlato con un tono annoiato, e lei lo riconobbe per il congedo che voleva essere. A quanto pareva, Monsieur Reynard era una somma di contraddizioni, ma ormai aveva scorto l’uomo, nascosto dietro il personaggio affascinante e remoto. In precedenza lo aveva trovato attraente, misterioso, ma in quel momento... in quel momento si rese conto che poteva essere pericoloso. Oh, non pensava che avrebbe fatto del male a qualcuno, anche se non le sarebbe certo piaciuto trovarsi dalla parte del destinatario della sua ira. No, era una minaccia per la sua stessa pace mentale. Era sconcertante, ma per quanto si sforzasse, non riusciva a smettere di pensare a lui e alla sua risata involontaria, al calore del suo corpo vicino al suo. E sarebbe andata a vivere a casa sua.

Avrebbe dovuto stare attenta.

Capitolo Quattro

Alain stava aspettando nel salottino suo figlio e Mademoiselle... no, Veronica, lui l’avrebbe chiamata Veronica. L’informalità le si addiceva. Nell’attesa, si versò un bicchierino di Pastis dal vassoio che si trovava sopra l’armadietto dei liquori. Hormet, che lo conosceva bene, aveva lasciato anche una piccola brocca di acqua ghiacciata da aggiungere al Pastis fino a renderlo della perfetta tonalità giallo chiaro opaco. L’odore di liquirizia del liquore, gli ricordava sempre la famiglia di suo padre che proveniva dal sud della Francia. La Provenza. Affettuosi, genuini e gentili, avevano amato i loro figli e nipoti. E suo nonno aveva sempre offerto loro quella delizia al gusto di anice.

Era rimasto spiazzato per aver commesso un tale errore con Veronica, quel giorno, a proposito delle foto sul suo telefono. Non era da lui sbagliarsi così tanto sulle intenzioni di qualcuno, ma poi, si ricordò, si era sbagliato anche un altro paio di volte, nel recente passato. Clamorosamente sbagliato. In effetti, per qualcuno che aveva costruito la sua intera attività, la sua intera fortuna, sull’essere un così accorto giudice del carattere altrui, ultimamente sembrava non esserne più capace.

La sua risata fu priva di senso dell’umorismo. Anche nei suoi stessi pensieri, stava minimizzando l’enormità di ciò che era andato storto. Suppose di non volerlo affrontare, nemmeno nella sua mente. Perché in quel caso avrebbe dovuto essere onesto con se stesso, e non era sicuro di sentirsi pronto per quello. Non ancora, comunque.

Fu salvato dalla cupa svolta che stavano prendendo i suoi pensieri dalle allegre chiacchiere di suo figlio, mentre il bambino irrompeva nella stanza.

«Papa! Veronica mi ha portato delle creature marine. Moltissime. Ci sono una pastinaca e una manta e un calamaro gigante e un’orca! Guarda!» Tese una specie di giocattolo di plastica il più in alto possibile arrivando quasi al petto di suo padre, visto quanto era alto Alain, ma Jean-Philippe si mantenne coraggiosamente dritto sulla punta dei piedi.

«Sorprendente!» rispose Alain, studiando la figura di plastica come se fosse un’opera d’arte in un museo. «Sembra proprio l’orca che abbiamo visto durante il whale-watch l’estate scorsa in Alaska, non credi?»

Jean-Philippe annuì eccitato mentre Veronica lo seguiva nella stanza, con la gonna del suo semplice vestito nuovo che scivolava frusciando contro lo stipite della porta.

«Adoro le orche. Sono predatori. Orche assassine. Lupi di mare. A volte mangiano gli squali. Questo è figo! Papà e io abbiamo visto un intero branco l’estate scorsa, vero? Penso che questa assomigli alla mamma orca... o forse al bambino. Le orche sono davvero grandi. Ma le balene blu sono più grandi.»

Alain tentò di trattenersi, ma non poté fare a meno di osservare la reazione di lei al monologo eccitato di suo figlio. Lui ci era abituato, ma a un estraneo poteva risultare scioccante. O, come era stato per la madre di Jean-Philippe, noioso.

I loro occhi si incontrarono al di sopra della testa bionda di Jean-Philippe, e i loro sguardi si incrociarono. Gli occhi di lei erano grigi, chissà perché non aveva notato prima quel colore insolito, e profondamente divertiti, non in modo condiscendente, però. Lo capì immediatamente. No, a Veronica piaceva suo figlio. Ascoltava il bambino, lo ascoltava davvero, nonostante il rapido flusso di parole con cui Jean-Philippe si esprimeva spesso. Lo sguardo che lei rivolse ad Alain lo riscaldò e lo fece anche sentire colpevole. Quel calore era dovuto alla connessione che condividevano in quel momento, al divertimento e all’apprezzamento che provavano per l’entusiasmo genuino di Jean-Philippe.

Il senso di colpa colpì Alain con altrettanta forza, poiché sua moglie Joëlle non aveva mai sentito quel tipo di legame. In effetti non le era mai importato, anche quando ne aveva avuto l’occasione. Per lei, avere Jean-Philippe era stato profondamente fastidioso, e anche se si era divertita ad agghindarlo, non lo aveva mai considerato come una persona a pieno titolo. Se fosse stata lì, al posto della nuova ragazza alla pari, non sarebbe riuscita a scappare abbastanza in fretta dalla stanza. Ma lui si sentiva comunque colpevole.

Si schiarì la gola per nascondere il suo disagio. «Vuole qualcosa da bere, Madm... ehm, Veronica?»

Lei esitò, e lui poté quasi scorgere i pensieri nella sua testa dato che il suo viso era così aperto. Non era sicura di quale fosse la risposta giusta. Stava chiaramente valutando se dovesse rifiutare perché era nuova... o se fosse più educato accettare qualcosa.

«Forse un piccolo sherry o un porto? Io sto bevendo un Pastis, se le piace.» Non sapeva perché glielo avesse suggerito, se non perché non gli piaceva vederla a disagio. Il suo vestito, inoltre, non era così scialbo come lui aveva immaginato, ma sembrava invece abbracciare amorevolmente le sue curve in un modo che lo distraeva molto.

La voce di Jean-Philippe ruppe l’incantesimo, distraendolo dalla contemplazione del vestito di lei. «Vorrei seltz con lime, per favore, papà» disse suo figlio, spostando il suo giocattolo e facendo versi da orca. Quelli molto acuti. In realtà erano piuttosto ben riusciti, notò Alain con orgoglio, anche se i suoi timpani avrebbero potuto non essere d’accordo.

«Ovviamente, mon grand» rispose Alain, sorridendo al suo bambino mentre lo chiamava scherzosamente con l’equivalente francese di “grand’uomo”.

«Mi piacerebbe un Pastis, allora. Grazie.» Il tono di Veronica era cauto e leggermente formale, e per qualche motivo gli venne voglia di sorridere ancora una volta. Alzò entrambe le sopracciglia quando lei gli comunicò la sua scelta. Avrebbe potuto arrivare ad amare quel tono di voce impertinente e il modo lussurioso in cui lei socchiudeva le labbra.

«Un Pastis? Lo ha già bevuto in precedenza, quindi?»

Un’espressione curiosa, un misto di amore assoluto e profondo dolore, le attraversò il viso. Era rimasta lì solo per un secondo, ma era inconfondibile. Alain la riconobbe, e si rese conto che era la stessa espressione che lei aveva avuto quando aveva guardato la foto, il piccolo screensaver sul suo telefono.

«Sì, solo qualche volta, ma mi è piaciuto. Ho studiato a Parigi per un semestre, quando ero al college, ma ho fatto un viaggio una volta nel sud, vicino ad Aix-en-Provence.»

Reprimendo la sua curiosità, Alain preparò abilmente sia il drink di Veronica che quello di Jean-Philippe. Le loro dita si sfiorarono solo per un istante, quando lui le porse il bicchiere. Nonostante il vetro ghiacciato, lui sentì un brivido caldo provenire dal punto in cui si erano toccati, che presto si diramò lungo tutto il corpo. Ritirò la mano come se si fosse bruciato, e lei fece qualcosa di simile, spruzzandosi del liquido sul vestito. Non incrociò il suo sguardo, mentre cercava disperatamente di riportare la serata su un piano più consono. Cortese. Distante.

«Aix è bellissima... È vicina al luogo da dove proviene la famiglia di mio padre.» Aveva provato a fare alcune delle piacevoli conversazioni in cui eccellevano i suoi coetanei, ma invece, aveva rivelato più di se stesso. Perché aveva scelto quelle parole? Non parlava quasi più della famiglia di suo padre. Si sentì profondamente a disagio nel constatare quanto lei gli stesse già piacendo, e fece un passo indietro a livello mentale.

Inconsapevole del suo imbarazzo, Veronica rispose con cortesia «Oh, sì. Un’architettura meravigliosa. Non sapevo che i romani avessero vissuto così tanto lì, costruito così tanti edifici. Ma non mi sono piaciute le arene.» I suoi occhi si addolcirono di compassione. «Mi sembrava quasi di percepire tutti i combattimenti che dovevano essersi svolti tra quelle mura.» Si fermò prima di dire la parola, probabilmente per riguardo verso Jean-Philippe, ma Alain capì perfettamente cosa intendeva. Tutta la morte... L’aveva sentita anche lui. Qualcuno non sempre sopravviveva dopo un combattimento, e spesso nessuna delle due parti si salvava. Era stato un commento istintivo, ma gli dimostrava quanto lei fosse sensibile. E l’ultima cosa che qualcuno, intorno a lui, avrebbe dovuto essere, era essere sensibile.

 

Si schiarì la gola per rispondere, ma Jean-Philippe parlò di nuovo per primo.

«La mia maman ha avuto un incidente. Con Sébastien. Lui mi piaceva. Mi portava dei dolci. Ma le creature marine mi piacciono più dei dolci.»

Alain sapeva che quello era stato un commento innocente. Mon Dieu, Jean-Philippe era del tutto incolpevole, ma aveva risvegliato un fuoco che lui teneva ben custodito, un fuoco che, nonostante tutti i suoi sforzi, aspettava solo di divampare da un momento all’altro: la rabbia, cruda e primitiva. Sébastien era stato il suo più caro amico, il suo più stretto socio in affari e un assiduo frequentatore della loro casa. Poi aveva improvvisamente tradito Alain in ogni modo, e Joëlle...

In un attimo, non c’era abbastanza aria nella stanza e Alain aveva bisogno di respirare. Inoltre, aveva bisogno di allontanarsi da Jean-Philippe per mantenere la sua innocenza, lasciandolo ignaro della verità il più a lungo possibile. Stranamente, voleva proteggere anche la nuova ragazza alla pari. Veronica, con la sua aria così paziente e buona, anche se lui aveva intuito che nel suo passato avesse conosciuto la sua dose di tristezza.

Posò il bicchiere e guardò di proposito l’orologio. «Mi dispiace. Ho dimenticato una chiamata che devo fare prima che i mercati aprano a Hong Kong» disse. Il suo tono era piatto, e le sue parole suonavano vuote anche alle sue stesse orecchie: doveva uscire di casa, nell’aria fresca della sera. «Perdonatemi. Sarà per un’altra volta. Buona cena.»

Senza nemmeno guardarla, si accorse che Veronica era stata presa alla sprovvista. Anche Jean-Philippe sembrava deluso, ma se la cavò meglio perché, con vergogna di Alain, suo figlio aveva fatto molta pratica.

Sentiva ancora sulla lingua il retrogusto amaro della sua menzogna accuratamente formulata, quindi si voltò senza dire una parola e uscì con deliberata attenzione dalla stanza, proseguendo dritto fuori dalla porta principale nella foschia scura della sera.

Dopo la brusca partenza di Monsieur Reynard, Veronica abbassò lo sguardo su Jean-Philippe. Il viso del bimbo era abbattuto ma stoico. Le fece male il cuore. Chiaramente, quella scena si era già ripetuta in passato, il che era strano, visto che da subito le era parso evidente che Monsieur Reynard adorasse il suo bambino. Ma immaginò anche che lui dovesse essere un maniaco del lavoro. Nessuno diventava un mega milionario mantenendo un buon equilibrio tra lavoro e vita privata. Lei stava ancora imparando la disposizione della casa, dopo il breve tour della mattina, e non le sembrava che Monsieur Reynard si stesse dirigendo verso l’ala con il suo ufficio, ma suppose che potessero esserci più postazioni di lavoro.

Scrollandosi di dosso le sue riflessioni, fece un bel sorriso a beneficio di Jean-Philippe. «Dato che siamo solo noi, avremo un dessert extra?» gli chiese, e lui si illuminò immediatamente.

«Davvero?» le rispose.

Lei scrollò le spalle, bevendo un ultimo sorso del suo drink. «Non ne sono sicura, ma mangerò sicuramente tutta la mia carne e le mie verdure, così potrò scoprirlo.»

Jean-Philippe annuì. «Anch’io» rispose lui, facendo eco al suo tono entusiasta, e si diressero in sala da pranzo.

Sembrava un po’ ridicolo avere una tavola così elegante per due persone, soprattutto perché quelle due persone erano una ragazza alla pari e un bambino di quattro anni, ma la faccia di Monsieur Hormet mentre li serviva era assolutamente impassibile. Veronica era gelosa, in realtà. Aveva sempre voluto possedere l’abilità di non mostrare ogni suo pensiero sul viso, ma non aveva mai imparato a farlo. Prese mentalmente nota, mentre stavano mangiando l’insalata, di chiedergli più tardi come facesse.

La cena era deliziosa e molto, molto francese. Cassoulet, con insalata a seguire, poi un piatto di formaggi, a terminare con una crème brûlée. Il suo dessert preferito. Non fu difficile accettare di condividere una seconda porzione di dessert con Jean-Philippe, anche se avrebbe dovuto stare attenta, se davvero mangiavano così tutte le sere. Le maniere di Jean-Philippe erano eccellenti, molto meglio di qualsiasi altro bambino di quattro anni che lei avesse incontrato prima, ma rifletté sul fatto che quello era probabilmente un aspetto molto più normale della sua vita di quanto lo sarebbe stato per lei o per i suoi fratelli alla stessa età. Si meravigliò di quanto spesso dicesse “per favore” e “grazie”, della sua postura formale e di come non battesse ciglio davanti al formaggio di pecora o all’insalata mista. In effetti, pensò che probabilmente lei avrebbe avuto bisogno di migliorare le sue stesse maniere.

Quando ebbero finito di leccare fino all’ultima deliziosa goccia di crema pasticcera dai loro cucchiai d’argento e nessuno era venuto a dire nulla riguardo a Jean-Philippe o ai suoi impegni, capì che avrebbe dovuto improvvisare per il resto della serata. Alzò il mento, segretamente compiaciuta della possibilità di mostrare quanto bene si stesse ambientando.

«Ho sentito che hai già fatto il bagno, giusto?» chiese.

Jean-Philippe annuì, facendo sobbalzare i suoi riccioli biondi. «Sì, adesso è l’ora della storia! Nel mio letto, ma non devo andare a dormire. A volte chiudo gli occhi, ma non devo.» Intuì dal sottofondo ostinato che “dormire” era probabilmente considerata alla stregua di una parolaccia, ma era incoraggiante che almeno il resto della routine notturna gli piacesse.

«E allora, che ora della storia sia! E scommetto che hai anche una bella camera da letto.» Sorrise passando davanti a Monsieur Hormet, e le parve di vedere l’approvazione sul suo volto.

Jean-Philippe le raccontò tutto della sua fantastica stanza mentre saliva al piano di sopra, e lei si rese conto che era proprio dall’altra parte del corridoio rispetto alla sua. Pratico. Il suo cuore fece una piccola capriola quando lui mise la sua manina paffuta nella sua con assoluta fiducia, e lei riconobbe ciò che avrebbe potuto non essere ovvio durante il giorno, quando il piccolo correva in giro come un pazzo: era pur sempre solo un bambino.

Le decorazioni nella cameretta erano una combinazione selvaggia di animali, creature marine, pianeti e dinosauri, ma tutto sembrava pulito e confortevole. Dovette nascondere un sorriso quando pensò allo sguardo che doveva avere avuto quel povero decoratore d’interni quando aveva scoperto il progetto per quella stanza, specialmente considerando quanto gusto ed eleganza sembrava avere la maggior parte del resto del castello. Ogni angolo era pieno di tesori e giocattoli per bambini, e anche di scaffali di libri. C’era un tavolo da gioco, un tavolo da pranzo, un cavalletto, una lavagna e persino una finta cucina che sembrava abbastanza grande per preparare pasti veri, santo cielo! Jean-Philippe aveva la camera da letto dei sogni di ogni bambino, ma le sue preferenze individuali erano anche impresse in modo inconfondibile.

Il suo letto, che era un tradizionale e grande letto a baldacchino in legno scuro, con una comoda sedia posta accanto – forse da Yvette? – era coperto da uno spesso piumone nero, che era praticamente l’unica cosa semplice nella stanza. Ripiegato sopra le coperte c’era un pigiama fatto di una stoffa decorata con navi spaziali, e sul pavimento c’erano anche delle piccole pantofole a forma di dinosauro. Jean-Philippe andò subito a mettersi il pigiama, poi le mostrò il bagno attiguo, dove aveva lo spazzolino e il dentifricio. Entrambi erano a tema dinosauro.

La guardò sospettoso prima di iniziare a lavarsi i denti. «La tata Marie mi leggeva sempre una storia, ma da quando se n’è andata, Yvette di solito dice che non ha tempo.»

Veronica dovette sorridere di nuovo. Lavorare in un ambiente professionale negli ultimi due anni le aveva fatto dimenticare quanto potessero essere divertenti i bambini dell’età di Jean-Philippe.

«Prometto che avremo tempo per leggerne una» lo rassicurò, e lui si lavò i denti con vigore, mentre lei osservava con occhio critico per essere sicura che arrivasse bene dappertutto.

«Allora, che tipo di storia vuoi?» gli chiese Veronica quando ebbe finito. «Penso di poter inventarne praticamente di qualsiasi genere, anche se ti avverto: la mia pronuncia dei nomi dei dinosauri non è perfetta, quindi potresti dovermi correggere.»

Gli occhi di Jean-Philippe si spalancarono e sembrò impressionato. «Racconti storie inventate da te? Tata Marie mi faceva scegliere i libri.»

«Puoi scegliere due libri, se vuoi.»

Lui scosse la testa con enfasi. «Oh no, voglio una storia inventata. Solo per me!» I suoi occhi blu scintillavano e praticamente ballava sulle punte dei piedi per l’eccitazione.

Veronica non aveva intenzione di fare qualcosa di così diverso o di farlo eccitare a tal punto proprio prima di andare a letto, ma fece un’alzata di spalle mentale. Averla lì era comunque fuori dall’ordinario, e lui era inevitabilmente un po’ più eccitato, quella sera.

«Va bene, allora vai sotto le coperte e dimmi quali storie ti piacciono di più. Astronauti, dinosauri, creature marine, favole...»

Mentre si sistemava nel letto gigante, Jean-Philippe la interruppe. «Favole! Sì, io amo le favole.»

Veronica si sedette sulla comoda poltrona. «Perfetto. Piacciono anche a me.» Le sfuggì una risatina, mentre il suo protetto la guardava in attesa. Sembrava decisamente un nanetto, un bambino così piccolo in un letto enorme.

«C’era una volta...» iniziò.

«Che cosa significa?» La interruppe Jean-Philippe. Il suo inglese era così buono che era facile dimenticare che lo stava ancora imparando.

«Oh, è così che iniziano la maggior parte delle fiabe. Significa Il était une fois…»

Lui annuì sagacemente. «Ah, allora va bene.»

Nascondendo un sorriso per il tono magnanimo del bimbo – avrebbe dovuto tenere in considerazione la sua opinione – cominciò di nuovo.

«C’era una volta una bestia che viveva da sola in un castello.»

«Questa la conosco già!» si lamentò Jean-Philippe, ma Veronica scosse il dito e poi si toccò delicatamente l’orecchio.

«Ascolta. Magari conosci una storia su una bestia, ma questa è diversa.»

Sembrò che lui volesse discutere, ma rimase in silenzio.

«La bestia aveva un aspetto spaventoso e sembrava feroce. I suoi ringhi erano così forti che echeggiavano sulle montagne e sulle colline. Tutti gli abitanti del villaggio avevano paura di lui.»

Gli occhi di Jean-Philippe si spalancarono. «Aveva i denti grandi?»

Lei annuì enfaticamente. «I più grandi! Come coltelli da bistecca, lunghi e perfidamente affilati. A volte ferivano persino le labbra della bestia, il che lo faceva sembrare ancora più terribile. Vedi, quello che gli abitanti del villaggio non sapevano era che la bestia non era pericolosa, ma era solo triste. Nessuno degli abitanti del villaggio lo sapeva, tranne un bambino, che si chiamava Ludo. Un pomeriggio, mentre stava raccogliendo delle bacche, Ludo cadde e si fece male a una caviglia. Si era allontanato da casa più di quanto avrebbe dovuto.» Quando Veronica si fermò, Jean-Philippe sembrava ascoltare avidamente. «Il suo piede era rimasto bloccato sotto la radice di un albero in un canalone...»

«Cos’è un canalone?» chiese Jean-Philippe.

«È un’altra parola per dire un fossato, come una piccola valle.»

Lui annuì e Veronica continuò, ma notò che gli occhi del bimbo cominciavano a sembrare stanchi e le sue palpebre avevano iniziato ad abbassarsi, anche se stava chiaramente combattendo contro il sonno.

«Ebbene, la famiglia e gli amici di Ludo uscirono a cercarlo, lo chiamarono e guardarono in ogni caverna e buco che poterono trovare, ma non si spinsero più lontano, nel bosco, vicino al castello della bestia e così, quando iniziò a fare buio, lui era ancora bloccato nel canalone. Aveva freddo e fame, e la caviglia gli faceva davvero male, quindi iniziò a piangere. E fu così che la bestia lo udì e lo trovò.»

Quando smise di parlare, gli occhi di Jean-Philippe, che si erano appena chiusi, si spalancarono immediatamente.

«Non fermarti! Voglio sapere cos’è successo a Ludo!» protestò.

«Sono felice che ti piaccia, mon petit, ma adesso si sta facendo tardi. Che ne dici se ti racconto il resto domani?»

«Promettez?» chiese, usando la parola francese per chiederle se lo prometteva, mentre parlava assonnato.

«Lo prometto» acconsentì lei, e si sedette accanto a lui ancora per un momento, finché non fu sicura che stesse dormendo, con le guance rosee e il petto che si muoveva uniformemente su e giù sotto il copriletto nero. Con sua sorpresa, Veronica si sentiva in pace, più di quanto non lo fosse stata da molto tempo.

 
Olete lõpetanud tasuta lõigu lugemise. Kas soovite edasi lugeda?