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Arrigo il savio

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XVI

Cesare Gonzaga si era ritirato a casa molto inquieto per la fuga del nipote, fuga che non sapeva a qual cagione attribuire. Giunto lassù, in via Nazionale, rimase a chiacchiera col servitore enciclopedico, sempre aspettando la venuta di Arrigo. Finalmente, verso la mezzanotte, un fattorino dello Sport venne e lasciò per il marchese Gonzaga una lettera. Arrigo Valenti si scusava in essa con lo zio, per essere escito così in fretta da casa Manfredi, senza dargliene avviso, poichè si era ricordato di avere fissato un ritrovo allo Sport con un banchiere parigino, suo corrispondente ed amico. “Si farà tardi, cenando (soggiungeva Arrigo), ed è molto probabile, anzi certo, che passerò la notte fuori di casa, da vero ed autentico figlio di famiglia. A rivederci dunque domani, e non esser più tanto severo, te ne prego, col tuo povero nipote.„ Seguiva la firma.

Il pretesto era buono, e Pico della Mirandola ricordò all'illustrissimo signor marchese che altre volte il signor cavaliere aveva disertato, come quella notte, dal domicilio legale. Ma l'ultima frase del biglietto, che Cesare Gonzaga aveva letto e riletto una dozzina di volte, non era tale da lasciar molto tranquillo un animo naturalmente sospettoso, e per allora singolarmente eccitato. “Non esser più tanto severo„ scriveva Arrigo allo zio. Perchè quel “più„ che aveva l'aria di stabilire una data, un'êra nuova, come la nascita di Gesù Cristo, o come la fuga di Maometto? “Povero nipote„ scriveva ancora il Valenti. Perchè povero, mentre andava a cena e si disponeva a passare allegramente a notte?

Cesare Gonzaga meditò lungamente su quegli enimmi, e andò a letto senza averli sciolti; ma dormì poco, e quel poco, poi, facendo certi sognacci che il ciel ne scampi e liberi ogni anima ben nata. La mattina si svegliò per tempo, secondo il suo solito, e appena il servitore entrò in camera per portargli il caffè, gli chiese notizie di Arrigo. Il signor cavaliere non era ritornato. Per altro, non bisognava maravigliarsene, soggiungeva Pico della Mirandola; quando il padrone saltava una notte, la saltava intiera.

– Sono un gran matto, io, a pesar le parole di un biglietto vergato in fretta al circolo, come se si trattasse d'una terzina di Dante! – disse il Gonzaga tra sè. – Arrigo ha affogato nello sciampagna il dolore del rifiuto di Gabriella, e a quest'ora dorme saporitamente in qualche letto d'albergo. —

La mattina è stata data al giorno, come la primavera all'anno, per destare i più lieti pensieri nella mente dell'uomo. Cesare Gonzaga si rasserenò alla vista del bel cielo di Roma, e andò a farsi radere, secondo l'uso quotidiano, poscia a fare una passeggiata al Macào; nè ritornò a casa che verso le dieci del mattino.

– È rientrato? – chiese egli al servitore, anche prima di metter piede sulla soglia di casa.

– Sì, illustrissimo; – rispose Happy con un accento dimesso e con una cera da funerale.

– Che c'è? – gridò il Gonzaga, profondamente scosso.

– Ferito; – replicò il servitore.

– Che hai detto?

– Il signor cavaliere ha avuto un duello.

– Ah, il mio sogno! – esclamò Cesare Gonzaga. – E con chi?

– Col conte Guidi, che è in fin di vita, con una palla nel petto, e perciò penetrante in cavità. —

Il Gonzaga non istette a sentir altro, e corse nella camera del nipote.

Arrigo Valenti era coricato sul letto, ancora mezzo vestito, e voltato sul fianco. La camicia si vedeva aperta sulla spalla destra a colpi di forbice. Il dottore stava a capo chino presso di lui, in atto di medicar la ferita; e vicino al seguace d'Esculapio era un signore, sconosciuto anch'egli al Gonzaga, ma certamente uno dei padrini di Arrigo.

Il ferito riconobbe lo zio al passo frettoloso, e gli diede il buon giorno, senza voltarsi.

– Non è niente, sai! – aggiunse tosto, per calmare la sua inquietudine. – Ti presento il dottor Mori e il barone di Santàgata. Signori, mio zio, il marchese Gonzaga. —

Il dottore e il barone fecero un inchino. Cesare Gonzaga corse dall'altra sponda del letto, per vedere in volto il nipote.

– Zio, mi perdoni? – disse Arrigo.

– Che perdonare? Ti adoro; – rispose il Gonzaga, baciandolo sulla fronte. – Ma non ti affaticare coi discorsi, te ne prego.

– Che! Non soffro punto; – replicò il ferito. – Dottore, ditelo voi a mio zio, che posso parlare senza pericolo.

– Sì, può parlare, per ora, ma moderatamente; – rispose il dottore. – Non c'è febbre ancora, e forse non verrà prima di sera. Bisognerà dargli piuttosto qualche cosa che lo rinvigorisca; un po' di cognac, un bicchierino di Marsala…

– C'è del vino di Porto, che piace tanto al signor cavaliere; – disse Happy.

– Anche il Porto è buono; – sentenziò il dottore. – Lo assaggerò anch'io, quantunque non abbia fatto colazione. —

Il dottore apparteneva alla scuola moderna dei corroboranti; una scuola che ha i suoi pregi, come li hanno i corroboranti medesimi, e in particolar modo i noetici. Non so se mi spiego.

– Veda, signor marchese; – disse il savio chirurgo; – non c'è nulla di grave. La palla ha colpito l'omero, tra il deltoide e il bracciale anteriore. È entrata di qua, è escita di là, forse rasentando la scapula. Il braccio era alzato; i muscoli tesi hanno fatto resistenza; la palla, seguendo l'indole di tutti i corpi sferici, ha dovuto deviare, davanti all'ostacolo. Il ferito è sano, di buona complessione; vasi sanguigni importanti offesi non ce ne sono; sarà un affare di poco. Non è vero, cavaliere? Tra dieci giorni andiamo a fare una scarrozzata insieme.

– Magari fra cinque; – rispose Arrigo, sorridendo.

– Son troppo pochi; si contenti di dieci. —

Il dottore e il barone di Santàgata si erano allontanati dal letto, per rivoltare le bende e distendere un po' d'unguento sulla pezza. Arrigo approfittò della loro lontananza, per accennare sottovoce allo zio quel che gli era avvenuto in casa Manfredi, e quindi a voce più alta per raccontargli brevemente il duello. Si erano battuti alle otto, nei pressi del ponte Nomentano; avevano sparato a quindici passi di distanza, e simultaneamente, al comando; il primo colpo era andato a vuoto; al secondo, Arrigo si era sentito tocco alla spalla, ma in pari tempo aveva veduto cader l'avversario; egli giurava, per altro, di aver lasciato andare il colpo senza toglier la mira.

– Ti credo, ti credo; – disse il Gonzaga. – È sempre così, con quell'arme sciocca. Se toglievate la mira, c'era da scommetter dieci contro uno che colpivate i padrini.

– Vedi, intanto, – riprese Arrigo, – che il conte Guidi non mi vogherà sul remo. —

Cesare Gonzaga si chinò un'altra volta a baciare il nipote.

– Auguriamogli del bene; – diss'egli poscia – noi non vogliamo la morte del peccatore, ma che si converta e viva. —

Happy, che era andato per il vino di Porto, rientrò nella camera per dire al signor Cesare:

– Illustrissimo, c'è di là il senatore Manfredi.

– Ah! – esclamò il Gonzaga.

– Ed è con lui la signorina sua figlia.

– Diavolo! Cioè, diciamo invece angioli santi! – riprese il Gonzaga, volgendo un'occhiata ad Arrigo. – E gli hai detto che c'è un ferito?

– Non gli ho detto nulla. Han chiesto di lei; ho risposto che venivo a chiamarla.

– Tu sei saggio, Happy, e un giorno o l'altro, se il tuo padrone permette, verrai a stare con me.

– Verrò a buona scuola, illustrissimo. —

Cesare Gonzaga fece un cenno affettuoso con la mano al nipote, e uscì dalla camera, per andare nel salotto. Il senatore Manfredi, che stava là, sempre in sull'ali, si gettò nelle braccia dell'amico. Gabriella era lì lì per imitare il babbo; ma Cesare Gonzaga, da buon cavaliere, prese la mano della fanciulla e la recò divotamente alle labbra.

Dopo un istante di pausa, il Manfredi incominciò:

– Ma che è stato, Dio buono? Abbiamo passata una notte terribile. Iersera il conte di Castelbianco è venuto a darci la notizia che tu avevi un duello stamane. Sono escito per tempo, sperando d'imbattermi in qualcheduno che potesse darmi notizie, e non ho trovato che il duchino di Roccastillosa, il quale usciva dal circolo dello Sport… per andarsene a letto. Egli non sapeva nulla di preciso; soltanto aveva veduto nella notte il conte Guidi, che pareva inquieto e si era chiuso a colloquio con due amici. Allora ho creduto che davvero fosse avvenuta una quistione fra voi due. Ma ti vedo sano e sorridente; sia ringraziato il cielo! Non c'è stato dunque nulla?

– Nulla per me, come vedi; – rispose il Gonzaga. – Il duchino ti avrà anche detto che una quistione occorsa tra me e il conte Guidi era stata composta onorevolmente fin dalle prime ore pomeridiane di ieri. Egli era per l'appunto uno dei padrini del Guidi.

– Sì, mi ha raccontato anche questo. Ma le notizie del Castelbianco…

– Notizie in ritardo, caro mio!

– E l'affaccendarsi del conte Guidi, questa notte, al circolo… – riprese il Manfredi.

– S'è affaccendato per altro, sicuramente: – replicò Cesare Gonzaga. – Ma non parliamo di cose tristi; la nostra Gabriella è molto abbattuta.

– Per timore di lei, signor Cesare; – disse la fanciulla. – Ma ora incomincio a respirare, e se ella mi assicura che non ha più duelli, starò meglio senz'altro.

– Cara! Ne avrò uno, se babbo permette, e con lei. La sollecitudine loro per me, ha condotta qua la figliuola insieme col padre. Il padre mi consentirà di cogliere l'occasione per fare alla figliuola un certo discorso, che doveva venire senza fallo qualche ora più tardi, in casa sua. Meglio adesso, e qui, dove il destino ha voluto. Credete a me; se c'era momento buono per farlo, quel tale discorso, questo a dirittura è l'ottimo.

– Sai che ti ho dato ampia facoltà; – disse il Manfredi. – E se tu riesci a persuaderla…

– Oh, la persuaderò senza dubbio. Ma siccome annoierei te, che conosci già gli argomenti…

 

– Ho capito; me ne vado, – disse Andrea.

– Di là, – soggiunse Cesare, – dove c'è qualcheduno che vedrai volentieri. —

E premeva frattanto il bottone del campanello.

Happy non tardò a presentarsi all'uscio.

– Accompagna il signor senatore dal cavaliere Valenti; – gli disse il Gonzaga.

– Andiamo dal nostro cavaliere, – conchiuse il Manfredi. – Egli sarà molto maravigliato di vedermi in sua casa, a quest'ora. —

E andò, l'onorevole uomo, assai lontano dall'immaginarsi lo spettacolo che lo attendeva nella camera di Arrigo.

XVII

Gabriella aspettava e sorrideva. Era sicura di vincer lei, la bella e forte fanciulla. Non amava Arrigo il savio; amava Cesare, il generoso, Cesare il buono, Cesare il grande. Non gliel avrebbe detto, no, glielo avrebbe lasciato indovinare; ma se egli non si fosse apposto al vero, se egli non avesse inteso l'animo della sua candida interlocutrice, tanto peggio per lui! sarebbe stato Cesare… il semplice.

– Signorina… – incominciò egli, venendo a sedersi daccanto a lei.

– Mi chiami Gabriella, e mi dia del tu, come ha proposto mio padre, e come desidero io; – diss'ella, con accento dimesso.

– Non oserò mai; – rispose il Gonzaga. – Facciamo un passaggio. Dirò Gabriella ma darò del voi. Mi riserbo di dare del tu ad una bella fanciulla che accetterà di essere mia nipote. Siamo intesi?

– Che idea! – esclamò Gabriella,

– È un'idea fissa, bambina. L'ho già detta a vostro padre, che non l'ha disapprovata. Il mio Arrigo ne va pazzo; ed è giusto, poichè l'ha trovata lui, perchè è lui che m'ha chiamato a Roma, dove senza di lui non avrei rimesso piede.

– Perchè, signor Cesare? Che cosa vi ha fatto, questa povera Roma? —

Cesare Gonzaga trasse un lungo sospiro dal petto…

– Bambina, – rispose egli poscia, – sono storie dolorose ed antiche, in nome delle quali io vi prego di appagare il mio voto. Permettetemi di dire che voi non conoscete Arrigo. Gli uomini, prima di tutto, non si giudicano bene dalle apparenze. Ci sono quelli che custodiscono gelosamente i loro sentimenti delicati, e nascondono il meglio del loro cuore alle turbe. Infine, se egli vi ama!.. Perchè io lo so, io l'ho veduto, io l'ho scrutato nei più intimi penetrali dell'anima, egli vi ama. Mi credete voi capace d'ingannarvi?

– No, – disse Gabriella. – Credo che siate ingannato voi stesso. Io stimo e rispetto vostro nipote. Vi dirò di più; lo vedevo assai volentieri, anche ignorando ch'egli appartenesse alla vostra famiglia. Ma io l'ho udito più volte, ed ho potuto giudicarlo. Non amo gli scettici. Arrigo Valenti è un savio; lo dicono tutti. Sapete voi che cos'è un savio a venticinque anni? È un uomo senza gioventù, senza entusiasmo, senza idealità, senza cuore, la rovina anticipata di una coscienza. Mio padre e mia madre, signor Cesare, mi hanno educata al culto delle grandi anime, dei cuori aperti e leali, delle nobili idee, dei generosi sentimenti. Non conoscevo ancora un uomo, fuori che mio padre, e già ne ammiravo, ne amavo uno, che somigliava a voi. —

Il discorso era stato lungo, e Cesare Gonzaga lo aveva ascoltato con molta calma, perchè, sebbene qualche volta gli fosse venuta la voglia d'interrompere, si trattava di cose che egli aveva prevedute, di uno stato d'animo e di un modo di sentire che egli già conosceva. Ma la chiusa gli giunse nuova; la chiusa lo fece addirittura balzar dalla scranna.

– Davvero? – diss'egli, fissando Gabriella negli occhi, come se temesse di aver male udito e cercasse in quegli occhi la conferma delle parole. – E quest'uomo, lo avevate già immaginato… coi capegli bianchi?

– Bianchi, no, ma un po' grigi, lo confesso; – rispose Gabriella. – Son grigi i capegli dell'uomo che ha pensato molto, e molto operato. Vedevo quei capegli grigi; vedevo la fronte alta, il labbro dolce e lo sguardo sereno; vedevo l'uomo pronto ad infiammarsi per ogni idea generosa, e gli esempi tutti della sua vita conformi a quella nobiltà di pensiero. Le aspirazioni son belle, – soggiunse la giovine filosofessa, – ma senza gli esempi, senza le prove, non valgono. Li conosciamo anche noi, povere osservatrici, i bei parlatori, gli apostoli del sentimento, i paladini dell'eroismo in parole, e non ci piacciono punto punto. Io amo soltanto chi ha sentito, combattuto e sofferto, chi nelle prove dolorose della vita non ha logorato il cuore, chi negli occhi limpidi mostra l'anima sua, giovane sempre, perchè eternamente buona. —

Cesare Gonzaga ascoltava, meditando ogni parola, vedendo la sua triste vita riflessa in quelle frasi, che la compendiavano, indovinandola quasi con tanto intelletto d'amore. E guardava, ascoltando, e sorrideva, e sentiva dentro di sè qualche cosa d'insolito, come un antico e pur mo' rinnovato desiderio di piangere.

– Ero bambina inesperta, – riprese Gabriella, – e già si diceva davanti a me che voi eravate un uomo singolare, valoroso in campo, mite e modesto negli usi della vita quotidiana, amico sincero, infine, e, per farvi il ritratto in due parole, un'anima eletta. Si aggiungeva che voi avevate compiuto un atto eroico, partendo dall'Italia, sacrificando il presente e il futuro, rinunziando alle più care speranze, alle più giuste ambizioni. La vostra medesima lontananza, anche quando tante voci possenti vi richiamavano in patria, dimostrava la grandezza del vostro sacrifizio. E s'intenerivano, signor Cesare, parlando di voi. Se li aveste uditi! Io ero una bambina, capivo poco, ma sentivo molto; ascoltavo e pensavo.

– Vi prego… – disse Cesare Gonzaga, con voce soffocata da una violenta emozione. – Non parlate dei morti.

– Perchè? Parliamone, se il loro ricordo fa bene allo spirito. Le mie parole, io spero, non vi torneranno neanche spiacevoli, se è vero che mi amate un pochino. Inoltre, noi donne, – soggiunse ella, accompagnando la frase con un arguto sorriso, – siamo state sempre adulate, e finiamo con credere a ciò che si è detto di noi, ed anche stampato. Siamo le consolatrici; la nostra amicizia è premio al valore e conforto alla sventura. Hanno aggiunto che un uomo buono non è completo, senza una donna buona. Signor Cesare, io non volevo dirvelo, incominciando. Ma voi, vedendomi ricusare ciò che mi offrite, potevate credere che io fossi un'ingrata, una cattiva, e che pensassi ad altri. Ieri avete anche avuto quistione con qualcheduno, e forse, anzi certamente, per me. Non dite di no, perchè sarebbe una bugia, indegna di voi. Orbene, io ora vi parlo a cuore aperto, come meritate, e senza arrossire. Mi faccio coraggio, vedete? Vi guardo in viso, e vi dico: io vorrei essere quella donna buona. Ho quasi vent'anni, già; non ho amato che mio padre, mia madre e voi. Volete? Nessuna donna… – e qui la fanciulla abbassò la fronte, sentendo le fiamme del rossore che aveva sperato di reprimere; – nessuna donna avrà mai detto ad un uomo ciò che io dico a voi in questo momento… che è solenne per me.

– Impossibile! – mormorò Cesare Gonzaga.

– Impossibile! E perchè?

– Perchè… vedete Gabriella… vostra madre… io… —

E così dicendo a parole interrotte, Cesare Gonzaga diede in uno scoppio di pianto.

Gabriella si levò in piedi vedendo ch'egli si abbandonava col capo arrovesciato sulla spalliera della seggiola, e fece uno sforzo supremo per rialzarlo.

– Voglio saper tutto! – gli disse. – Ho acquistato il diritto di pretendere da voi una confessione sincera.

– È una storia breve: – rispose il Gonzaga. – Ho amato vostra madre, come si doveva amarla, con tutte le forze dell'anima. E l'ho fuggita, vedete, l'ho fuggita, mentre stava in me di ottener la sua mano, a preferenza d'ogni altro. Vostro padre era già ricco, ed io no, o ben poco a paragone di lui. Ma il padre di quella donna mi era debitore di molto… della vita e dell'onore di uno de' suoi. Siate mio figlio, mi aveva detto; non ho che un tesoro ed è vostro. Io avevo veduto la figlia di quell'uomo; e mi ero acceso d'amore, e, sperando di essere amato, mi ero fatto stimare. Un giorno, Andrea Manfredi, l'amico mio, il mio fratello d'armi, mi bisbigliò il suo dolce segreto: Cesare, amo una donna. Anch'io, gli risposi. E parlavamo spesso dei nostri amori, delle nostre speranze, delle nostre gioie future, in mezzo alle fatiche del campo, nei brevi riposi della notte, nelle marce forzate, a Velletri, tra i fumi della vittoria, a Villa Corsini, dove cadde Goffredo Mameli, l'unico bardo della patria, e con lui Luciano Manara, Enrico Dandolo, Pietra Mellara, Daverio, Morosini, fiore di cavalieri e d'eroi. Tra le mura crollanti del Vascello, dove per tanti giorni fu pioggia di fuoco, noi trovammo ancora il momento di mandare un pensiero ai nostri giovani amori. Nè io avevo chiesto a lui il nome del suo, nè egli a me il nome del mio. Ma la morte era librata su noi, e l'immagine della morte diede coraggio ad Andrea. “Senti, mi disse, se io muoio, taglia una ciocca dei miei capegli, e portali a lei.„ – “Il suo nome?„ – “Lorenza.„ Tremai e un sudor freddo mi corse giù per le tempia. – “Lancillotti?„ gli chiesi. – “Sì, la conosci?„ Chiusi il mio cuore a forza, balbettai qualche parola, e promisi. Povero amico, egli si era profferto di ricambiarmi il favore, se io avessi dovuto soccombere. “No, grazie, – risposi, – è inutile; io amo senza speranza; nessuno piangerà la mia morte.„ Il destino ci volle salvi; rientrammo in Roma, nella nostra Roma inutilmente difesa. Il padre di Lorenza, potente presso il Governo papale, sentiva l'obbligo suo e voleva salvarmi. Gli chiesi di proteggere anche Andrea, che non avrebbe potuto nè voluto escire da Roma. L'amico mio indovinò tutto, ponendo piede in quella casa, e udendo certe parole del vecchio. Quel giorno mi diventò freddo, il mio fratello d'armi! Non ebbe fede, sospettò allora di me, ed io, che potevo esser salvo, io, che potevo ottenere quella donna, nè solo per l'assenso del padre, poichè ella sapeva il debito della famiglia verso di me e l'avrebbe nobilmente pagato col sacrifizio della sua vita, io me ne andai esule da Roma, inseguito come una fiera per tutti i dorsi dell'Apennino, dopo aver chiesto perdono della fuga a quell'uomo, dopo avergli resa la sua parola e raccomandata la felicità del povero Andrea. Un mese dopo, abbandonavo la patria; per trent'anni non l'ho più riveduta, e considerate voi il dolor mio!.. non ho più potuto darle il braccio, valido ancora, nel giorno della riscossa.

– V'intendo! – mormorò la fanciulla, piangente.

– Voi somigliate a quella donna, Gabriella; – riprese il Gonzaga. – Un senso della bontà sua, della compassione che ella sentì per il mio sacrifizio, si è trasfuso nel vostro cuore, e vi parla oggi per me. So che sareste un angiolo consolatore; so che meriterei d'essere amato da voi, ma dite; posso io amare la figlia di Lorenza, e del medesimo amore che fu la delizia e il tormento di tutta la mia vita raminga? No, bambina; voglio coprir la tua fronte di baci, come la copre tuo padre, quando gli comparisci davanti, ricordandogli tua madre. Ed ho bisogno… non mi dire di no! ho bisogno di confondere in uno i due amori della mia vita, Lorenza e Cecilia, tua madre e mia sorella, la custode solitaria della mia casa distrutta, la mia povera sorella che si è spenta così lontana da me, invocando il mio nome e lasciandomi il suo unico figlio, il suo giovane Arrigo. Anch'egli, povero Arrigo!.. Non ve l'ho ancor detto, Gabriella; egli è là, sopra un letto di dolore, e poteva morirmi, stamane, se il piombo maledetto…

– Che dite? – gridò Gabriella.

– Sì, bambina! Vostro padre, che sento singhiozzare qui, presso a noi, vostro padre che ha tutto udito e che mi legge nel cuore, vi dirà che Arrigo ha cancellato con un moto generoso dell'anima, con un impeto di gioventù, e se volete di gelosia, i difetti che voi vedevate in lui. Non è freddo, Arrigo, non è calcolatore, nè scettico, poichè non ha dubitato per l'amor suo di cimentare la vita, questa gran vita, che tanto si pregia e che val così poco! Gabriella, egli aspetta la vostra sentenza, e anch'io l'aspetto e la invoco. Amo in voi vostra madre; amate me in Arrigo. Egli è sangue del mio sangue, e porterà d'ora innanzi il mio nome. —

Gabriella piangeva, nascondendo il bel viso tra le palme.

– Povero amico! – mormorò ella finalmente.

– Ah, così va detto, bambina! – ripigliò Cesare Gonzaga. – Sono un povero amico. E presto, se il vostro bel cuore si piegherà al nostro desiderio, sarò il solitario, l'orso delle Carpinete. Noi, feriti nelle battaglie della vita, noi naufraghi di una memoranda tempesta in cui abbiamo perduto tante cose caramente dilette, vedete, dobbiamo esser soli. Siamo rovine di uomini, e non vivono intorno a noi che memorie. Un raggio tardo c'illumina qualche volta; ed è riflesso di soli già spenti. —