Tasuta

Il ponte del paradiso: racconto

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

XII.
A caso disperato

La signora Zuliani giunse al palazzo Orseolo prima che capitasse Raimondo per far colazione. In verità, quell'Aldini era un grande spericolone; ma non faceva poi niente di nuovo, quel giorno; era stato sempre così, se non peggio. Gli si era bene imposta lei, in un momento di follia; lo aveva involto davvero, e stravolto, non vedendo, non considerando più nulla, attratta da un fascino arcano verso quell'uomo, che tutti decantavano, che tutti alzavano in palma di mano, come un perfetto cavaliere, per cui tante belle sospiravano, per cui più d'una aveva perduta la pace del cuore e quella dell'anima. E quel don Giovanni, inconsapevole della sua forza, si era dimostrato così discreto con lei, timido come un ragazzo, tutto scrupoli, tutto riguardi, volenteroso dispensatore di quei savi e prudenti consigli, che non sogliono essere il fatto degli uomini, specie dei fortunati in amore. Livia ci pensava spesso, a quei cominciamenti strani della loro conoscenza, non potendo dissimularsi di essere stata lei la grande colpevole. Che cosa doveva egli fare, per trattenerla sull'orlo dell'abisso, più di quello che aveva fatto, fino a parerne ridicolo? Amandola, per altro, che non sapeva negarlo; ed anzi c'insisteva tanto più volentieri, quanto più si mostrava disposto a resistere. Questo, almeno, a lei pareva evidente, chiaro come la luce del sole; e mettiamo pure che le piacesse esagerare la forza di un sentimento, in cui potevano aver parte la delicatezza dell'animo e la cortesia dei modi signorili.

Quanto agli scrupoli cavallereschi, onde i timori e i rimorsi continui, ella bene intendeva come fossero effetto necessario della grande amicizia tra lui e Raimondo. Ah, quel Raimondo, così infatuato del conte Aldini, non era stato egli la prima cagione del male? Dove l'uomo s'infatua, la donna s'innamora; ecco il guaio. Così innamorata, e forse più nella fantasia che non fosse nel cuore, quanto aveva ella sofferto di quegli scrupoli, di quei timori, di quei rimorsi, che ella non conosceva, pur dovendo fingere di sentirli con lui! Ed egli voleva ricondurla ad ogni costo sulla via della ragione, e non riusciva ad altro che ad irritarne lo spirito. Troncare, finire, ascoltare la voce del dovere; come si fa, quando l'anima è piena del suo bel sogno, e la passione trabocca? Pure, in gran parte, aveva dovuto cedere. Si vedevano di rado, e quasi alla sfuggita; Raimondo, frattanto, parlava sempre di voler ammogliare Filippo. Anche quello ci voleva! Finchè erano discorsi in aria, pazienza; si poteva sorriderne, quantunque a denti stretti. Filippo, dal canto suo, si era sempre valorosamente difeso. Ma allora non si vedeva il nemico alle porte: ora il pericolo appariva vicino, imminente, ed ella lo aveva sentito senz'altro, al primo comparire della graziosa puppattola. Così la chiamava, anche tralasciando l'epiteto; così chiamava tutte le fanciulle di bella presenza, dalle ricche capigliature, dalle guance vermiglie, dai grandi occhi incantati, ancora un po' dure negli atti, senza languori, senza tenerezze, ma forti della loro fiorente e promettente giovinezza. Ah, quella puppattola, graziosa sì e no, ma innegabilmente troppo ricca, faceva ben soffrire la signora Zuliani nel profondo dell'anima, dove s'annida quella triste miscela d'orgoglio e di vanità, che è il nostro amor proprio. Ed era giunta a questo: rinunziar lei a Filippo, purchè egli rinunziasse a Margherita. Su questo patto si era ostinata; egli avrebbe resistito con nuovi argomenti alla idea malaugurata di Raimondo; ella si sarebbe rassegnata a non veder più Filippo, ridiventato in istile di cerimonia il signor conte Aldini, a non vederlo più, se non qualche volta, a punti di luna, nel suo salotto, o nel suo palco a teatro. Fino a quando così? Fino a quando si potesse durare. Tante cose si promettono, colla speranza di non doverle poi mantenere!

Raimondo Zuliani giungeva a casa, secondo l'uso, di buonissimo umore. Si era a tutta prima turbato, vedendo la sua Livia un po' pallida e abbattuta nell'aspetto; ma pensò che erano i soliti vapori, frequenti a dir vero, ma brevi, passati i quali la strana creatura ritornava più fresca e fiorente che mai. Strano uomo anche lui, con tutte le virtù, con tutti i doni dello spirito, meno la perspicacia nelle cose più vicine e più intime. Ma questa qualità non va mai senza un certo spirito diffidente; e può questo allignare dov'è rigogliosa la fede? Raimondo aveva una fede robusta in ogni cosa, fede in lei, fede nell'amico, fede in sè stesso. Questa, poi, era principio e cagione di tutte le altre. Per l'amor suo e per la passione del lavoro, non aveva egli fatto miracoli, raggiungendo una condizione invidiata? Ben lavorava per quella donna, che era tutta la sua famiglia; e ancora non aveva egli varcato nel cammino della vita quel mezzo, oltre il quale s'incomincia a perdere qualche illusione e qualche speranza. Egli e Livia potevano dirsi soli nel mondo; ma se non gli arrideva forse più l'idea di lavorare per una nidiata d'innocenti, bene egli vagheggiava il disegno ambizioso, ma non temerario, di rallegrare gli anni maturi della sua donna con due o tre milioncini, da aggiungere a quello che non aveva più da aspettare. Egli lo aveva pure indovinato, che i troppi milioni delle Cantelli entravano per una gran parte in certe antipatie di sua moglie, le quali senza ciò si sarebbero potute stimare irragionevoli. Ebbene, a questo piccolo guaio c'era rimedio, e in sua mano: giovine ancora e pieno di salute, animoso ed accorto, col vento in fil di ruota da un pezzo, avrebbe raddoppiate, triplicate le sue sostanze in pochi anni. Non gli mancava il genio “degli affari„; la fortuna lo aiutava; due buone ragioni per veder la vita sotto l'aspetto più roseo.

Per allora, il sud sogno era quello di ammogliare l'Aldini, il suo Pilade, che considerava come una sua creatura. E ciò senza nuocere alle sue faccende, che non entravano punto nel giuoco. Quello, infatti, era quasi un lavoro delle ore avanzate; lavoro fine, lavoro delicato, in cui si esaltava la sua mente, e si compiaceva il suo cuore. Far dei felici intorno a sè, bella cosa, e gaudio divino: peccato che sia cura di pochi.

Or dunque, egli era di buonissimo umore a colazione; ma fu di umor pessimo a pranzo. I giorni si seguono, e non si rassomigliano; così disgraziatamente vanno, e anche dissimili, le ore d'un medesimo giorno. La signora Livia, che aveva le sue particolari ragioni in quel giorno, per ispiare attentamente il volto di suo marito, non ebbe da fare nessuna fatica per riconoscere che il vento era cambiato. La faccia di Raimondo non nascondeva mai nulla dei sentimenti interiori: gli occhi erano in lui veramente lo specchio dell'anima.

– Che cos'hai? – gli domandò, vedendolo accigliato.

– Nulla; – rispose Raimondo.

– È troppo poco, il tuo nulla; – replicò la signora. – Tu hai un dispiacere; ti si legge sulla fronte.

– Eh, cara mia! gli affari non vanno tutti bene ad un modo. Corro il rischio, oggi, di perdere ventimila lire.

– E per questo hai le gronde? Avrai perduto altre volte, e senza far quella cera.

– Non so; – disse Raimondo, svogliato. – Il perdere è sempre spiacevole. Venti lire son venti lire per tutte le borse, anche per quella di un Rotschild, come dice il proverbio della gente d'affari; figùrati poi… ventimila. —

Voleva ridere, ma rideva stentato. Ed anche stentato gli era venuto l'accenno di quella gran perdita, che finalmente non era ancora una perdita, ma un rischio di perdere.

– Filippo ha parlato; Filippo ha resistito; – disse la signora Livia tra sè, reprimendo un sussulto di allegrezza, la cui manifestazione per verità sarebbe stata fuori di luogo.

Sì, Filippo aveva parlato, e in ciò che Filippo aveva detto era da trovar la cagione della tristezza di Raimondo. Ma questi non voleva confessare a sua moglie che una nuova difficoltà fosse nata, e che questa difficoltà gli venisse appunto dagli scrupoli, dalle fisime cavalleresche, dalle ubbie pazzesche del suo caro Filippo. Temeva troppo di sentirsi dire da sua moglie: “Ti sei bene infatuato di quello sciocco? Ti sei bene affondato negli impicci per lui? Vedi ora che bei giuochi ti fa, rendendoti ridicolo, con la tua smania di far l'agente matrimoniale! Aggiungi al ridicolo il doverti guastare coi Cantelli. Per le donne, poco m'importerebbe; molto deve importare a me, perchè importerà a te, e non andrà senza le più gravi conseguenze, l'esserti guastato col vecchio, padre canzonato e banchiere offeso nella sua dignità.„

Questo, od altro di simile, ed anche di peggio, gli avrebbe detto sicuramente sua moglie. Ora, egli non voleva più aver guerra di parole con quella donna, tanto amabile, cara, idolatrata a quel dio, ma un po' per cagione de' suoi nervi, un po' troppo facile ad aspreggiare, a schernire. Donna adorabile, se non avesse avuto quel piccolo difetto, che a volte lo avrebbe fatto dare nei lumi! Ma esseri perfetti non ne nascono al mondo.

Filippo adunque, era stato quel giorno al banco Zuliani, secondo il costume invernale, sulle quattro del pomeriggio; l'ora canonica, come la chiamava Raimondo, per fare la passeggiata igienica, aspettando ambedue l'ora del pranzo, che doveva separarli, avviando l'uno al palazzo Orseolo e l'altro al caffè Quadri.

– Oh, bravo, sei tu? – disse Raimondo, veduto entrare l'amico. – Siedi; finisco di minutare una lettera, e son da te. Sei stato al Danieli? – soggiunse, rimettendosi a scrivere.

– No; – rispose Filippo.

– Come va questa faccenda? Ier l'altro, no; ieri nemmeno; oggi meno che mai. Che giuoco è questo? Se credi di toccare il cuore alle belle, con questo modo di farei…

– Sai, – disse Filippo, impacciato, – colla signorina indisposta…

– Appunto per ciò; – interruppe Raimondo, – buona ragione per andare ogni giorno a chieder notizie. Agli occhi della signora Eleonora tu sei già un fidanzato, mio caro. Ma che cos'hai, ora? —

 

Filippo s'era lasciato cadere allora allora su d'una poltrona, accanto alla scrivania di Raimondo, e abbassata la fronte rimaneva lì immobile, quasi istupidito, collo sguardo fisso al tappeto.

– Più ci penso, – mormorò egli, senza levar gli occhi da terra, – e più vedo questo matrimonio impossibile. —

Raimondo per quella volta depose la penna, e inarcò il sopracciglio.

– Impossibile? perchè?

– Lo sai, lo intendi, dovresti immaginarlo anche tu. Quella donna è troppo ricca per me. Temo le ciarle del mondo. Ma sì; – soggiunse Filippo animandosi, poichè tanto aveva preso l'aire; – questo pensiero è più forte di me. Ho cercato di vincerlo; non ci sono riuscito; sento che non resisterò a questa vergogna.

– Vergogna, anche! La parola è grave.

– Nella mia condizione è la vera.

– La tua condizione è onorata; quante volte avrò io da ripeterlo? Non sei uno spiantato, perbacco, e molti galantuomini si sentirebbero in diritto di pretendere ad un partito come quello, con molto meno di terra che tu non n'abbia al sole. Inoltre, te l'ho anche detto; da amici, e segretamente, e senza aver neanche da rimetterci un soldo, son sempre qua io per pareggiar le partite. —

Filippo fece il solito gesto di diniego all'offerta.

– Sì, quel che vorrai; – diceva egli frattanto. – Ma non si tratta solamente della dote, per me; si tratta del resto, di tutto il resto, capisci?.. Con tanti milioni!..

– Tanti milioni!.. Chi te l'ha detto, che sian tanti? E mettici un numero, almeno. —

Filippo sentì che su quella strada non era prudente andare più innanzi. Lo sapeva bene, il numero di quei milioni; ma non poteva lasciar trapelare da chi lo avesse saputo.

– Ma, – balbettò egli impacciato, – è da supporre, almeno…

– Non ne supporre troppi, ti prego; – disse Raimondo, vedendo che l'altro non accennava a voler compiere la frase. – Anselmo è ricco, o potrà diventare ricchissimo. Ha ancora molti anni davanti a sè; tu ne avrai altrettanti da aspettare, prima di darti pensiero di ciò che egli potrà lasciare, non a te, ma a sua figlia.

– Ebbene? – rispose Filippo. – Cessa forse per questo ogni dubbio, ogni sospetto di calcolo da parte mia? Pensa, ti ripeto, pensa alla mia condizione, che è delicata, che è grave.

– Pensa, pensa! – ripetè Raimondo, con accento sarcastico. – E non pensi tu, frattanto, che altri possa trovarsi in una condizione più grave, più delicata della tua.

– Altri?

– Io, per tua norma; io che ho imaginato, proposto e condotto così avanti il disegno che oggi ti spiace.

– Hai ragione, hai ragione; – rispose Filippo, umiliato. – Ma non è poi così avanti, come tu dici. Il signor Anselmo, finalmente, ha ancor da vedere e da conoscere tante cose, prima di accettare la tua proposta. Se egli non è ancora impegnato a nulla, devi crederti tu impegnato a tutto?

– A tutto, sì, proprio a tutto. Vedi qua, una lettera che ho in tasca da tre giorni. Non meriteresti di leggerla; ma oramai è necessario che tu sappia a che punto siamo arrivati. Ecco, e giudica tu. —

Così dicendo, aveva cavato dalla tasca del soprabito il suo portafogli, e ne estraeva una lettera, porgendola tosto a Filippo. L'aperse questi, e incominciò a leggerla sottovoce, fremendo, tremando, balbettando dalla commozione. La lettera diceva così:

Caro Zuliani,

“Vi ho sempre stimato per un uomo di cuore, d'onore, e di buon consiglio. Quello che a voi parve un eccellente partito, era già accettato da me, sempre sotto la condizione che fosse accettato dalla mia cara Margherita. Nondimeno (perdonatelo alla giusta sollecitudine d'un padre, ed anche un pochino alle vecchie abitudini dell'uomo d'affari), nondimeno, avendo necessità di rimanere ancora pochi giorni a Milano per le faccende della Rete Mediterranea, ho voluto prender lingua laggiù. Conoscevo la gente di fama, gente onoratissima, e che a Parma ha lasciato buon ricordo di virtù pubbliche e private. Sapevo da voi che la sostanza, senza essere larghissima, era tuttavia non spregevole, e capace di maggiore incremento. So ora di laggiù che l'erede rimasto orfano in età giovanissima, e avendo dalla carriera militare incentivo a spendere, non ha intaccato d'un soldo il suo patrimonio. Questa è una ragione di gran sicurezza per un babbo, e vale già il doppio, il triplo di ciò ch'egli possiede. Mi resta solo un timore; quello di essermi imbattuto in una perla d'uomo; cosa tanto difficile ai giorni nostri, che mi pare un prodigio, una stranezza. Perchè non mi sembri più tale, debbo ricordare che mi sono pure imbattuto in voi, caro e stimato Zuliani.

“Io partirò giovedì da Milano, ma per far sosta a Padova, dove m'aspetta una seduta della Veneta. Ci ho piccolo interesse, come sapete, ma bastante a farmi fare il viaggio. Sabato mattina, poi, muoverò per Venezia, dove giungerò, come mi promette l'orario, alle 9,50. Venitemi incontro alla stazione, se potete; e non dite nulla alle mie donne, poichè mi spiacerebbe obbligarle ad alzarsi troppo per tempo. Avremo così più agio di ragionare tra noi due, e se Dio vuole avremo presto varata questa nave, ad onor vostro e mio. State sano, ottimo tra gli amici, e credetemi sempre il vostro

“Anselmo Cantelli.„

Filippo Aldini era fortemente commosso; leggeva e rileggeva, guardava e riguardava il foglio per tutti i versi, come se non sapesse staccarsene.

– Scrive da uomo di cuore; – diss'egli finalmente: – e ciò ch'egli dice dei miei vecchi mi tocca l'anima. —

Una lagrimetta, frattanto, gli era spuntata in pelle in pelle.

– Vedi, eh, che fior di galantuomini ci abbiamo noi per le mani? – gridò Raimondo con aria di trionfo. – Come si fa a non amarli, a non andar magari nel fuoco per essi?

– Vero, vero; ma io…

– Ma tu non sei convinto, ora, non sei persuaso della impossibilità di dare indietro?

– Vorrei contentarti; lo sa Iddio, se vorrei; ma non posso.

– Non puoi? Di' che non vuoi. Le tue ragioni le ho già combattute una volta, e vinte. Perchè ritorni alla carica? Ti avverto, caro, che io non posso seguirti. Non fo il burattino, io. Voglio la tua felicità, finalmente. Non ami tu Margherita?

– Sì, – gridò Filippo, infiammandosi, – l'amo, lo sai, l'amo con tutte le forze dell'anima.

– E allora che ti trattiene? Avresti tu qualche vincolo… d'onore, che io non conosco? —

Filippo fece ripetutamente un gesto di assenso.

– Ti torna in mente un po' tardi, se mai. Ed è una persona libera, a cui tu debba dare il tuo nome? —

Filippo rispose con un gesto di diniego.

– D'altri? – ripigliò Raimondo, facendo una vigorosa spallata. – Oh, allora, mio caro, essa non ha male che non si meriti. E tu, se mai, la guarisci. Puoi confidarmi il suo nome? Le parlo io, da onest'uomo. Non puoi? O per caso, non sarebbe questa un'invenzione dell'ultim'ora? Anzi, poichè al vincolo ho accennato io scioccamente, non sarebbe un'invenzione dell'ultimo momento? Io ti conosco da un pezzo; non ho mai veduto nelle tue abitudini nulla di misterioso, o di strano. Non c'è neppur l'ombra di un vincolo, e tu vuoi darmela a bere; non c'è altro che un capriccio pazzo, per tormentare te stesso e chi vuole il tuo bene. Quanto a costui, dico male, non lo tormenti; vuoi farlo bugiardo, vuoi levargli l'onore.

– Questo no! – disse Filippo, fremendo.

– Questo per l'appunto; – ribattè prontamente Raimondo; – è la conseguenza logica del tuo capriccio. Se tu non te la senti di resistere alla vergogna… l'hai detta tu questo mala parola!.. io non resisterò alla figuraccia che m'avrai fatto fare con una famiglia tanto rispettabile; te l'assicuro io.

– Ma che cosa… – balbettò Filippo, – che cosa vorresti tu fare?

– Quello che un uomo d'onore sa fare, quando per colpa sua, o d'altri, ha perduta la stima della gente dabbene. Non sarà poi un grande sacrificio; – disse Raimondo, con voce improvvisamente mutata, e quasi parlando a sè stesso. – Che famiglia ho io? Non figli a cui provvedere, col desiderio di farli sempre più ricchi; anche la mia vita diviene una cosa inutile e sciocca. Non ti ho mai detto queste cose; ma da un pezzo lo sento. Allegro una volta per indole, ho del mio carattere antico mantenuta la maschera: ma sono nel fondo un disgraziato. Vorrei amare l'universo mondo; e a modo mio non ama nessuno. Mia moglie… tu la conosci, e sai se l'amo… mia moglie è malata più che non sembri. Con te, in confidenza, posso dire ciò che ho sempre taciuto: è figlia d'una donna che è morta pazza; mi capisci? pazza. Ed anche lei, nervosa all'eccesso, mi tiene da qualche tempo in continua ansietà. Oggi ride, domani piange. Non so che cosa farei, per quella donna; ma so bene quello che ho fatto… —

Qui il povero Raimondo faceva la faccia scura; tristi ricordi si erano aggravati sull'anima sua, come un velo denso di nuvoli sulla vetta di un monte.

– Per isposar lei, – continuò, – mi sono persino disgustato con mia madre. Tu vedi bene che la santa donna non viene quasi mai a Venezia, nella città dove è nata! Ella non ha mai potuto perdonarmi questo matrimonio. E neanche la mia Livia, – soggiunse egli, sospirando, – ha mai fatto nulla per disarmarla, per rabbonirla; è così, e non si muta. La mia povera madre, che adoro, la cara donna, l'unica persona al mondo per cui sono ancora un bambino, mi tiene il broncio, mi punisce così della mia disubbidienza. Ho meritato il suo rigore, lo so: ma ero tanto innamorato! E vivevo per l'amor mio, in questi anni; vivevo anche per l'amicizia, che ho sempre creduta una grazia del cielo. Ma tu, l'amico del cuore, ricusi i miei doni. La vergogna… il capriccio… il puntiglio!.. Io avrò fatto male a correr le poste, già te l'ho detto; ma posso aggiungerti che non le ho corse davvero, se non quando mi hai dato il tuo sì, che oggi ti vorresti riprendere. Pensaci! Come è vero Dio, ti accerto che domattina non andrò alla stazione per incontrare il signor Cantelli, se non potrò portare con me il tuo consenso. Ciò che in quella vece avrò fatto, saprai. Tu mi disonori in faccia a quell'uomo; non sopravviverò a questo colpo. —

Filippo Aldini era allo stremo delle sue forze: il suo cuore si contorceva nello spasimo di un'aspra tortura morale. Fremeva al pensiero del rischio in cui la sua ostinazione precipitava l'amico; e la imagine di Medusa gli si affacciava lumeggiata di sinistri bagliori, nell'ombra.

– Perdonami. Raimondo; – annaspò; – non ti esageri ora il pericolo?

– No; – rispose netto quell'altro. – La lettera di Anselmo ti mostra che cosa pensi egli di me. Quando un uomo è collocato tant'alto nella stima altrui, egli è come la statua rizzata sul suo piedistallo; se casca non c'è rimedio, va in pezzi. Aggiungi che quando io fossi perduto nella stima di Anselmo, ogni relazione d'amicizia e d'affari sarebbe rotta tra noi. Tutto ciò farebbe scandalo tanto più grave, in quanto che, non essendo conosciute le cagioni della rottura, il mondo ne imaginerebbe a sua posta. Vedi a che punti mi condurrai col tuo no. Ma io prego ancora? – gridò Raimondo, inalberandosi tutto ad un tratto. – Dopo ciò ch'io t'ho detto delle mie risoluzioni, sarebbe una viltà continuare. Pensaci! Tu non hai avuto ragioni da oppormi, ed hai sentite le mie. Pensaci! Aspetterò la tua risposta prima di notte. Per darmela meditata e seria, come ho il diritto di esigerla, poichè il cuore non te l'ha subito dettata, devi restar solo colla tua coscienza. Va!

– Raimondo! – gridò Filippo non voce lagrimosa. – Raimondo! Se tu mi leggessi nell'anima!..

– Te l'ho detto, aspetto la tua risposta. Leggerò quella; non più parole inutili; va! —

Si era alzato, così dicendo. Anche l'Aldini si levò in piedi e si mosse per uscire, con un gesto d'addio disperato; veramente disperato, come il caso in cui lo aveva messo il suo triste destino.

Rimasto solo nelle stanze, Raimondo si studiò anzitutto di ricomporre il viso ad un'apparenza di tranquillità. Con uno sforzo violento venne a capo di padroneggiarsi, tanto da poter finire di minutare la lettera rimasta interrotta; poi chiamò il signor Brizzi, per dargli le opportune istruzioni. Finalmente uscito dal banco, andò attorno passeggiando senza saper dove e perchè, ma rinfrancandosi a grado a grado nell'aria pungente della sera, e portò a casa il resto del suo turbamento, quel resto che non poteva sfuggire all'occhio indagatore di Livia. Lì per lì, come s'è visto, Raimondo aveva dovuto scodellare quella bugia delle ventimila lire in pericolo; la prima che gli era venuta alla mente, e la più facile ad un uomo d'affari, ma non lavorata abbastanza, non aggraziata nè condotta a pulimento, per la fretta che aveva di trovar qualche cosa. Forte di quella bugia, era rimasto aggrondato, per tutto il tempo del pranzo, ed anche più tardi in salotto, mentre la signora fingeva d'esser tutta intenta nel suo ricamo turco (un ricamo che voleva durare quanto la tela di Penelope), ed egli di essere sprofondato nella lettura dei suoi giornali. Ed ella di tanto in tanto, col pretesto d'infilar l'ago, mandava una rapida occhiata al marito; ed egli, a più lunghi intervalli, come se si destasse ad un tratto da una specie di letargo, attaccava qualche discorso vano, che tosto lasciava cadere. Serata uggiosa per tutt'e due! Frattanto egli non dava indizio di volersi spiccare da casa, per andare a far quattro passi.

 

Erano già suonate le nove all'orologio dell'anticamera, quando si udì una scampanellata. Visite? Per quella sera non ne aspettavano. Poco dopo entrava in salotto il fido Giovanni, portando un vassoio d'argento, e sul vassoio una lettera.

– Per lei, signor padrone; – diss'egli, accostandosi al signor Raimondo.

Prese questi la lettera con un gesto convulso, che alla signora Livia potè sembrare impaziente.

Ella intanto sbirciava il messaggio, che Raimondo aveva dovuto recare più presso alla tavola, sotto il vivo lume della lampada elettrica ond'era rischiarato il salotto; e tosto riconosceva il tipo delle buste del banco maritale, insieme colla mano di scritto del signor Brizzi, gran maestro in calligrafia commerciale. Anche questi particolari aveva notati Raimondo, e alla sollecitudine con cui aveva afferrata la lettera era succeduto un senso di delusione e di noia. Nondimeno, aperse la busta, ne estrasse il foglio, e lo spiegò. C'erano pochi versi di scritto, e lo sguardo di Raimondo li abbracciò tutti in un colpo; egli ripiegò quindi il foglio, lo rimise nella busta, e cacciò tosto il messaggio nella tasca interna del suo soprabito.

Ma un gran mutamento si era fatto in lui: sparite le gronde, la fronte rasserenata, l'occhio tornava a brillare della solita luce, e le labbra, non più strette come dianzi, s'ammorbidivano ad una espressione di gran contentezza.

Tutto ciò non era sfuggito allo sguardo di Livia. La bella signora aveva molte ragioni, quel giorno, per essere in singolar modo curiosa. Passati appena pochi secondi, quanti ne bastavano a capire che Raimondo non avrebbe aperto bocca egli stesso per darle ragguagli, placidamente, senza levar gli occhi dal suo ricamo, gli disse:

– Buone notizie?

– Eccellenti; – rispose Raimondo.

– Il rischio che correvi di perdere?..

– Sfumato. Lo dicevo ben io a me stesso! Come ti si può cangiare così, di punto in bianco, diventare tutt'altro, l'uomo che hai sempre stimato, vedendo in lui la perla degli uomini? Ecco intanto come vanno le cose di questo mondaccio; – soggiunse Raimondo, chetando un pochino quella sua foga soverchia; – è bastata la voce di un maligno, per far credere che un galantuomo chiamato a Padova da un negozio urgente, rimasto colà un giorno più del previsto, fosse dato per un fuggiasco, che volesse sottrarsi ai suoi impegni d'onore. È tornato, il brav'uomo; è capitato al banco, dopo che io n'ero uscito, ed ha soddisfatto il suo debito. —

Le spiegazioni verbali erano belle e buone; ma la signora Livia avrebbe preferito leggere senz'altro la lettera. Disgraziatamente Raimondo teneva gli affari e le lettere d'affari per sè; ed era un gran fatto che per una volta tanto si fosse lasciato cavar di bocca quel poco.

Uscito di pena, Raimondo lesse meglio i giornali, anzi diciamo che incominciò a leggerli soltanto allora; ed anche, secondo l'uso, lesse e commentò la cronaca cittadina a sua moglie. La quale, frattanto, pensava che suo marito, anche avendo perduto o corso rischio di perder somme più forti, non era mai stato tanto accorato come quel giorno, tra le sei e le nove di sera.

– Va, caro; tu non me la dici giusta; – pensava ella in cuor suo.

Quella sera egli si ritirò nelle sue stanze un po' prima del solito. E al servitore che lo accompagnava col lume, parlò facetamente così:

– Paron Nane, domattina vorrei il caffè alle sette. E svegliatemi, s'intende; che non vorrei beverlo freddo. —

Era strano, quell'ordine di svegliarlo alle sette. Nell'inverno, di solito, si faceva portare il caffè alle otto, e magari alle otto e mezzo. Inoltre non diceva “paron Nane„ al suo vecchio servitore, se non quando era allegrissimo. Che proprio tutto quel buon umore venisse da una lettera d'affari? e niente, il cattivo delle ore innanzi, da un discorso che aveva dovuto fargli Filippo Aldini, quel medesimo giorno?