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Il ponte del paradiso: racconto

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Ma non si può aver tutto, in questo povero mondo. E non potè aver tutto il cavaliere Lunardi, che dopo l'Ideale del Tosti, chiedeva già per grazia l'Amore, Amor del Tirindelli. Un uscio si era aperto, una portiera di broccato si era sollevata, ed appariva nel vano il colossale Giovanni in vistosa livrea, coi guanti bianchi come la neve; piacevole apparizione di granatiere rubizzo, che proferì poche parole, ma buone: “La signora è servita„.

La signora, la padrona di casa, doveva far l'obbligo suo. Fatto un cenno al marito, che offriva subito il braccio alla signora Cantelli, prendeva il braccio del signor Telemaco; un pezzo grosso della finanza, che siamo dolenti di non aver meglio specificato, ed ora, per far le cose a dovere, sarebbe un po' tardi. Poi volgendosi verso Filippo Aldini, gli disse a mezza voce:

– Signor Aldini, offra il braccio alla contessa Galier. —

L'Aldini s'inchinò col suo fare misurato, ed obbedì prontamente.

– Ah, che bel cavaliere! Ringiovanisco; – gridò quella graziosa matta della contessa, che non voleva esprimere a mezza voce il suo gradimento.

La signora Livia sorrise; poi si rivolse al Lunardi.

– Cavaliere, – gli disse, – offra il braccio alla signorina Cantelli. – E con un leggero ammiccar degli occhi ebbe l'aria di soggiungere: – È contento di me?

– A questo modo, – esclamò il cavaliere Lunardi, per fare il paio colla vecchia contessa, – ringiovanisco ancor io. —

La signora Livia fece un bel gesto d'invito a tutti gli altri, perchè volessero seguire la marcia come credessero meglio. Si era tutti amici vecchi di casa, perciò in gran confidenza; ed alcuni fecero l'atto, non ammesso dai manuali dell'etichetta, di offrirsi il braccio tra uomini. Il signor Brizzi, ad esempio, ci passò per signora, un po' stagionata a dir vero, accettando il braccio che gli offriva il Gregoretti, bel tipo di mattacchione, e alle sue ore anche poeta.

Si traversò un secondo salotto che già conosciamo, e si mosse di là verso la sala da pranzo, il cui uscio spalancato lasciava vedere tutto uno sfolgorìo di lampade di bronzo dorato e di candelabri antichi, tra i cui viticci venivano ad innestarsi, come frutti luminosi, le pere cristalline della luce elettrica. Al soffitto di legno, partito a cassettoni e rosoni, anch'essi dorati, si armonizzavano le credenze e le cristalliere di legno nero, intagliato a fogliami, a fiorami, a rabeschi, a mascheroni, a putti, a draghi, ad uccelli fantastici. Falso Cinquecento, sicuramente; ma anche falso sta bene, dà un nobile carattere alle case, parendo invecchiare con esse le famiglietroppo moderne, che si sono felicemente arrampicate a metterci il nido.

La tavola era uno splendore di cristallame, d'argenteria, di porcellana e di fiori. In vece del solito chemin de table, che è graziosissimo e può essere sommamente caro come lavoro di mani gentili, ma che è pure economico la parte sua, potendo andare in bucato, attraversava la tovaglia in linea diagonale un nastro enorme, artisticamente pieghettato e rigirato a onde, a staffe, a nodi, allacciando qua e là mazzi di rose fresche, di orchidee, di miosotidi, ed altre fioriture contro stagione. Quella era la novità ultimissima del buon gusto; così andava fatto, fosse pur condannato ad essere disfatto la mattina seguente. Buon lusso costoso delle cose destinate a perire! Ma la nave degli Zuliani aveva il vento in poppa, e dispiegava liberamente tutta la sua velatura.

Contegnosi da principio e parchi di parole, i nostri commensali si animarono gradatamente, al saltar dei turaccioli, all'acciottolìo dei piatti, al cozzar dei bicchieri. Il chiacchiericcio si diffuse da un capo all'altro della tavola: si stava bene, si andava anzi di bene in meglio; si aprivano i cuori, si snodavano le lingue. Il cavaliere Lunardi fu garbatissimo colla signorina Margherita, che con un interlocutore sessagenario poteva essere più loquace, mostrando tesori di senno, di cultura e di grazia. Amenissima poi la contessa Galier, tra l'Aldini, che non si mostrava più tanto impacciato, e il signor Brizzi, collocato suo cavalier di sinistra. Così aveva disposto la padrona di casa, per compensarlo di quel sacrifizio, di quel tradimento dovuto fare al suo Cappello Nero.

Intanto questo appariva in casa Zuliani, questo era evidente, tra tanti fumi del vin del Reno, di Borgogna, di Xères, di Caluso e d'altri siti; che i vecchi erano più animati, più allegri, perfino più arguti dei giovani. Nessuna maraviglia; forse è perchè i vecchi hanno meno tempo davanti a sè, in paragone dei giovani, e fanno profitto di quel poco che avanza. Quanto a dedurne che sia per maggiore esperienza della vita, non ne credete niente; e vecchi e giovani son tutti ragazzi ad un modo.

In mezzo al chiacchiericcio generale, che già pareva un principio della confusione delle lingue, che è che non è, salta un turacciolo con formidabile scoppio; ne salta un altro, ne saltan parecchi; il vino di Sciampagna gorgoglia, ribolle, sfavilla, spumeggia nei calici di mussolina fusa in cristallo, o di cristallo fuso in mussolina, come vi piacerà. Era quello il momento solenne dei brindisi. E si capì allora perchè il Gregoretti, quel grazioso mattacchione, non avesse dato alla conversazione tutto ciò che avrebbe potuto e dovuto. Il disgraziato aveva un brindisi in corpo, e in versi, per giunta, in versi veneziani, scoppiettanti, sfavillanti come il vin di Sciampagna, che gli stava dinanzi, e di cui aveva sorseggiata la prima spuma quasi per prenderne ispirazione.

Si era fatto silenzio, vedendo nell'atteggiamento e nel gesto del personaggio la promessa del brindisi. E il Gregoretti incominciò, celebrando in graziose strofe i meriti straordinarii dell'anno allora allora finito. Il che era contro l'usanza, per verità; ma si sapeva bene che il Gregoretti non faceva mai niente a modo degli altri. A suo giudizio, l'anno andato meritava ogni lode, non avendo recato nessun dispiacere a lui, nè agli amici suoi; e questo era molto, anzi poco mancava che non fosse tutto. Sì, buon Dio, si poteva anche ammettere che non fosse stato nè carne nè pesce. Ma il suo successore, il neonato, non si sapeva ancora che diavolo sarebbe riuscito.

E il vecchio, poi, era anche finito bene: ci pensassero un pochino, i signori commensali; era finito stupendamente per tutta una gentile brigata, sotto l'incanto della bellezza accompagnata alla grazia. Occhi soavi, amabil sorriso… E più avrebbe detto il poeta, perchè c'erano da enumerare i pregi a centinaia. Ma siccome il ritratto sarebbe stato poi sempre inferiore all'originale, egli prendeva consiglio da quei pittori da dozzina, che dopo aver disegnata e colorita con tutta l'arte che possiedono la figura del committente, gli pongono in mano una lettera, colla soprascritta bene in vista, per istruzione del pubblico. Il nome, di quella bellezza, di quella grazia incantevole, doveva egli proferirlo? Non era già pronto a scoccare, sulle labbra di tutti? Animo, via, lo dicessero pur tutti con lui, senza timore di guastargli la chiusa, lo dicessero tutti a gara, quel nome grazioso, “quel nome caro ai Veneziani„ della signora… E qui una sospensione, che permetteva a tutti di prorompere in coro: “Livia Zuliani„.

La signora Livia Zuliani, udendo quella enumerazione di pregi femminili, e indovinando che col suo nome sarebbe andata a finire, si era fatta via via d'un bel colore vermiglio; a suo vantaggio, senza dubbio, perchè prima d'allora, diciamolo pure, con tutta la sua risoluzione di fare a mala sorte buon viso, era stata un po' verde.

Tra gli applausi e gli evviva dei suoi convitati, la bella nervosa, atteggiate le labbra al sorriso, levò il suo calice, accostandolo cortesemente a quello del suo poeta. Ed anche, sorridendo sempre e ringraziando, dovette ripetere la cerimonia con tutti.

Raimondo era in estasi: vedeva tutto vermiglio, come il volto della sua Livia. Ma non poteva star sempre lì, in contemplazione della propria felicità; da buon padrone di casa, doveva darsi moto, tener desto il fuoco della allegrezza ne' suoi convitati.

– L'anno vecchio ha ottenuto il suo elogio; – disse egli; – chi farà l'elogio del nuovo?

– Tu; – gli rispose il Gregoretti.

– Io? Non son poeta; e dovrei tesserlo in prosa.

– In prosa, da bravo; purchè sia prosa robusta.

– Se non sarà, non vorrete mica accopparmi; – conchiuse Raimondo, che già sentiva venir l'estro ad una seconda versata che i servi facevano in giro.

Levò allora il suo calice, e così prese a parlare, con intenzione d'esser solenne:

– Signore e signori, onde questa casa è onorata, auguro a tutti voi che il nuovo anno sia lieto, come furono a me i sette che lo hanno preceduto. Esaudisca egli il voto che gli esprimo… – soggiunse l'oratore, ispirandosi d'un subitaneo pensiero, e versando sulla tovaglia un mezzo dito del suo vino, – … il voto che gli esprimo libando a lui, come un sacerdote antico, con questo roseo dorato liquore.

– Bene osservato; il roseo dorato è una particolarità della vedova Clicquot; – disse il Gregoretti, guardando contro la luce il suo calice.

– La vedova, – rispose Raimondo Zuliani, cogliendo quella volta l'ispirazione dalle parole dell'amico, – la vedova è stata moglie; parliamo dunque del matrimonio. Non senza ragione vi accennavo i miei sette anni felici. A voi, scapoli impenitenti! aiutate con buone risoluzioni l'adempimento del voto che io ho formato poc'anzi, e il nuovo anno vi colmerà delle sue benedizioni. Chi vorrà dare l'esempio? Voi, amico Brizzi, non è vero?

– Me ne guardi il cielo! – gridò il signor Brizzi, facendo un gesto d'orrore.

– E perchè? – domandò Raimondo. – Vi conosco e vi stimo da gran tempo, mio caro, e so che non fate e non dite mai cosa su cui non abbiate pensato due volte. —

Il signor Brizzi si avvide di non aver pensato neanche una a ciò che gli era uscito allora di bocca. Era stato un grido dell'anima; e bisognava attenuarlo con qualche spiegazione.

 

– Perchè? – rispose. – È presto detto, il perchè. Renderei infelice la donna che avesse la cattiva ispirazione di accettar la mia mano. Son vecchio, sapete? son vecchio.

– Ma che? – entrò a dire la contessa Galier, che non voleva sentir parlare di malinconie. – Vecchio è chi muore.

– Signora contessa, la prego di credere che ho passati i cinquanta. Il matrimonio non è più fatto per me, salvo il caso di voler saldare insieme due cocci scompagnati. Con che gusto, poi? con che utile per la società? Pensiamo alla società, miei signori; è anche di moda. E concludiamo; il matrimonio è fatto pei giovani. —

Raimondo avrebbe volentieri abbracciato il suo segretario. Senza volerlo, senza pensarci neanche, quell'ottimo signor Brizzi gli dava la mano, tirandolo dov'egli intendeva per l'appunto avviarsi.

– E allora rivolgiamoci ai giovani; – ripigliò. – Auguriamo per esempio al conte Aldini la felicità ch'egli merita. Sei al momento buono, mio caro Filippo. È perchè i voti del capo d'anno sono privilegiati su tutti, io ti auguro con maggior fede una sposa degna di amore e di stima… perchè non lo direi? come la mia.

– Raimondo! – esclamò la signora Livia. – Mi farete arrossire. —

E più avrebbe detto, tanto era seccata. Ma le bisognava rattenersi, star lei in riga, se non sapeva starci il suo signore e padrone. Ah, quella benedetta varietà di vini dei pranzi e delle cene solenni! Manda i fumi alla testa, snoda le lingue, fa dir sciocchezze agli uomini serii, troppe sciocchezze; e con una insistenza, poi, con una insistenza degna di miglior causa.

A farlo a posta, il suo signore e padrone insisteva.

– Ebbene, sì, che c'è egli di male? Viva la sincerità. Son tutti amici, qui, d'antica data, e strettissimi; gradiranno ch'io parli come penso. Sarebbe ipocrisia in me il tacer loro che sono felice. Credi a me, dolce amico; – soggiunse, volgendosi all'Aldini; – segui l'esempio di chi ti vuol bene. Io bevo intanto alla tua fidanzata. —

Filippo era sulle spine; e doveva mostrarsi tranquillo, accogliendo lietamente gli augurii dell'amico Raimondo.

– Senza conoscerla! – esclamò egli, tanto per dire qualche cosa.

– Eh, pensiamo se tu, almeno tu, non te ne sarai formato un'idea! – incalzò Raimondo. – Nella mente d'un giovinotto, o nel cuore, la futura compagna della vita c'è sempre, immagine vaga, da principio, ma che a poco a poco va prendendo i precisi contorni di una giovine e conosciuta bellezza. Dico bene?

– Ottimamente! – gridò il Gregoretti. – Dopo la prosa robusta, ci dai la prosa elegante, la prosa poetica.

– L'argomento ne franca la spesa; – rispose Raimondo, i cui occhi andavano come per incanto verso la signorina Margherita.

La fanciulla teneva i suoi molto bassi, avendo l'aria di voler aggiustare una piega della sua sopravveste. Ma intanto si era fatta un po' rossa, dal sommo della fronte fino alla radice del collo. E stava bene così, era più bella che mai, mettendo in mostra il volume dei capelli neri, ondati e lucenti, che sull'incarnato del viso luccicavano due volte tanto, con mobili riflessi turchini. Bella e divina creatura! Un poema, l'aveva dichiarata il Gregoretti, quella medesima sera, vedendola per la prima volta nel salotto della signora Zuliani. Perchè poi un poema? Ci sono tanti poemi brutti! e tanti altri mediocri!

Ma il paragone, antico oramai, doveva essere stato fabbricato nel tempo che di poemi, in Italia, si conoscevano soltanto i divini, quei tre che tutti sappiamo; dopo i quali, chiudi e sigilla, che il conto è fatto.

– Dunque, – ripigliò il Gregoretti, tenendo bordone a Raimondo, – vogliamo bere alla futura sposa del nostro Aldini? Egli è qui l'unico scapolo in età da pentirsi. Péntiti, don Giovanni! —

Eh, don Giovanni nel profondo del suo cuore non avrebbe chiesto niente di meglio. Ma lì per lì sentiva corrersi un brivido per l'ossa.

– Anche tu? – diss'egli volgendosi al Gregoretti, con aria tra confusa e seccata.

– Anch'io, sicuro, e tutti quanti siam qui, a volerti bene. Péntiti, don Giovanni! —

Filippo Aldini guardò intorno a sè, con occhi smarriti, come d'uomo in punto d'affogare. Tutti, col calice in mano, gli ripetevano la medesima frase. “Péntiti!„ diceva il Ruggeri; “péntiti!„ il signor Telemaco, che in verità non diceva nulla, ma consentiva col gesto, e nel gaio concerto delle voci pareva aggiungere la sua. Ma era dunque una congiura? un colpo premeditato?

– Lo senti? Te lo dicono tutti in coro; – gridò Raimondo Zuliani, ridendo a più non posso. – Péntiti, don Giovanni! —

E si rivolgeva, ciò detto, alla sua Livia, come per invocarne l'aiuto.

– Ma sì, – aggiunse allora la signora Zuliani, con la sua vocina sottile, e accompagnandone il suono con un moto grazioso della sua testina bionda, – perchè non si pentirebbe, don Giovanni? —

Filippo Aldini era fuori di sè dalla stizza. Ma egli sentì che a durarla ancora un tratto, sarebbe diventato ridicolo, con quella cera da funerale, in mezzo a tanta allegria che pareva volersi rovesciar tutta su lui. A farlo a posta, anche la padrona di casa si metteva dalla parte dei canzonatori.

Accettò dunque l'invito, come se fosse stato un comando; levò il suo calice, lo vuotò fino all'ultimo sorso, e rispose con accento risoluto:

– Sia, poichè tutti lo vogliono; mi pentirò. —

Ebbe naturalmente un applauso da tutti; e dopo l'applauso un premio speciale dal Gregoretti.

– Così va bene; – disse il poeta mattacchione. – Fin da domani metto la Musa in molle, e ti preparo l'epitaffio. —

Voleva dire l'epitalamio. Ma già la lingua incominciava a tradirlo.

III.
Per l'amico del cuore

Quella notte, anzi meglio, quella mattina, la signora Cantelli avrebbe voluto ritirarsi intorno alle due. Veramente, le rincresceva di dare il mal esempio; ma il suo Federigo doveva essere di buon mattino al suo posto, e bisognava concedergli almeno quattr'ore di sonno. Il signor Zuliani aggiustò le cose per bene, proponendo che Federigo andasse via solo, mentre per le signore, con tanti cavalieri presenti, non sarebbe mancato chi le accompagnasse al Danieli. In questo modo si guadagnò un'altr'ora allegra, illuminata dalla grazia, dal sorriso incantevole della signorina Margherita. Raimondo Zuliani era tutto raggiante di contentezza, ameno, festevole, attento ad ogni cosa che potesse occorrere per la felicità dei suoi ospiti; e ciò senza bisogno di scomodare sua moglie, che doveva lasciarlo fare, standosene regalmente seduta in trono, ossia, per chiamar le cose col loro nome, nell'angolo sinistro di un soffice canapè foderato di raso, accanto alla signora Eleonora.

Ma c'è un fine anche alle veglie notturne; e quando le signore Cantelli accennarono a prender commiato, Raimondo fu pronto a dar loro per cavaliere il conte Aldini. Mentre tutti incominciavano a mettersi in moto, la signora Livia ebbe agio di tirare il marito in disparte.

– Che idea è la tua? – gli bisbigliò. – Non doveva il signor Aldini accompagnare la Galier? tanto più che sono così vicini di casa?

– Capisco; – rispose Raimondo. – Ma la contessa ci ha il nipote, e quello può bastare. Credi tu che possa venire in mente a qualcheduno di rapirtela? Quanto alle signore Cantelli, potrebbe servire il cavaliere Lunardi? O il signor Telemaco? Mi paiono tutti e due morti dal sonno. Il Ruggeri è un po' sventato; e poi, ha veduto le signore per la prima volta stanotte. Il Gregoretti è un po' più allegro del solito. Ci ho pensato bene, mia cara; non c'è altri che Filippo. —

Del resto, era detta, e non si poteva tornare più indietro. “Voce dal sen fuggita. – Più rattener non vale„. Lo aveva sentenziato il Metastasio, in una di quelle sue ammirabili strofette per musica. Voleva la sua Livia sentir gli altri due versi? No, non ce n'era bisogno: li sapeva a mente, come l'avemmaria.

Per quella volta ancora comandava Raimondo, e l'Aldini accompagnò le signore Cantelli. Ci andò come la biscia all'incanto; ma ci andò, muovendosi in compagnia di Raimondo, che da qualche minuto non lasciava il suo braccio, quasi temendo che dovesse sfuggirgli. In questa guisa Oreste accompagnò il suo Pilade, fino al piè della gradinata, davanti alla gondola, dove ossequiò le signore Cantelli, ringraziandole del grande onore che gli avevano fatto.

La signora Eleonora mostrò di gradir molto la compagnia del conte Aldini. Margherita non mostrò nulla de' suoi sentimenti; ma certo era contenta. Come la gondola approdò alla Riva degli Schiavoni; la bellissima fanciulla accettò la mano che le tendeva Filippo per aiutarla a scendere; e Filippo sentì quella mano tremare un pochino nella sua. Una bella mano che trema, quante cose non dice?

Da quando si conoscevano? Da un mese, cioè dai primi giorni che le signore Cantelli erano capitate a Venezia. Viaggio e fermata lunga, tutto era stato per Federigo, che non poteva sperare una licenza per quella fin d'anno, dopo averne già ottenuto parecchie a brevi intervalli. Le mamme, per verità, ne vorrebbero una al mese, e si dolgono delle irragionevoli durezze della disciplina militare, che a sentirle loro non perderebbe nulla a essere più compiacente; ma è colpa loro, se han voluto i figliuoli ufficiali di terra o di mare. Ed anche a Venezia, così presso a Federigo, non potevano mica averlo sempre in compagnia: quel benedetto servizio aveva le sue esigenze quotidiane. Perciò altri doveva supplire alle assenze di Federigo, mettendosi a servizio delle signore Cantelli.

Naturalmente, c'era in prima riga Raimondo Zuliani, l'amico del banchiere Anselmo, e in continua relazione d'affari con lui. Ma anche Raimondo aveva le sue ore impegnate: poteva fare una visitina, ed anche a brevi intervalli, non già mettersi a loro disposizione per visitar chiese, palazzi e musei. Si sa, quando per una ragione o per l'altra si capita in una città ragguardevole, in una città storica, ricca di memorie, di capolavori, di meraviglie d'ogni genere, è obbligo di veder tutto, per mostrar poi alla gente di non aver viaggiato come bauli. L'arsenale lo avevano visto con Federigo, che era là come in casa sua, e ne faceva gli onori. San Marco, i Frari, la Salute e le altre chiese maggiori si potevano vedere via via nei giorni festivi, in occasione della messa. Ma il Palazzo dei Dogi, ma l'Accademia, il Museo Correr, i palazzi del Canal Grande, almeno i più singolari, i più celebrati, non si potevano visitare senza la compagnia di qualche amabile cicerone, che per l'appunto non fosse un cicerone di piazza.

Per questo ufficio il signor Brizzi, messo anche lui a disposizione delle signore, non parve a breve andare l'uomo più adatto; molto amabile, sicuramente, quantunque a modo suo, ma niente cicerone; ed egli, dopo tutto, era più utile al banco. O allora? Allora, quale occasione più favorevole dell'amico Aldini? Quello era proprio l'uomo, amabile che nulla più, cicerone perfetto, e padrone di tutto il suo tempo, non avendo niente da fare; condizione invidiabile, checchè si voglia argomentare in contrario.

E qui diciamo di lui tutto quello che occorre, per non averci a ritornare con cenni e notizie a spizzico, che paian venire di contrattempo, e intralcino ad ogni modo il racconto. Filippo Aldini era stato ufficiale di cavalleria, e in quella divisa era capitato quattro anni addietro alla guarnigione di Padova. Da Padova si è in un salto a Venezia, e di quei salti il tenente Aldini ne aveva già fatti parecchi. A Venezia, un bel giorno, che è che non è, prese la risoluzione di lasciare il servizio. Lo avevano forse attratto i cavalli di San Marco? Sia lecito immaginarlo, in mancanza di notizie più esatte. Quanto al servizio, lo poteva piantar lì senza scrupolo, non avendo egli presa la via delle armi coll'intenzione di percorrerla intiera. Era ricco, direte. No, non era ricco. Ricchissima era stata la sua famiglia, d'antico ceppo parmense; ricchissima sotto i cessati governi; ma in due o tre generazioni di oziosi aveva trovato il modo di andarsene a rotoli. Il mutuo e l'ipoteca, due invenzioni pestifere! Al conte Filippo Aldini, morto il padre e pagati i debiti della successione, restava appena una tenuta dell'alto Parmigiano, senza ipoteche, grazie al cielo, e che poteva rendere ancora un anno per l'altro le sue ottomila lire. Mettiamo tra restauri e miglioramenti un migliaio di lire: un altro migliaio all'agente, incaricato di riscuotere e di trasmettere; ne avanzavano ancora seimila. Solo com'era, modesto nelle abitudini, temperato nei desiderii, con seimila lire d'entrata poteva campare. Il vivere non era caro a Venezia; ed egli, poi, rinunziava necessariamente al cavallo. La sua esistenza trascorreva placida in apparenza, uniforme e cheta nei suoi andamenti, come una gondola sull'acque morte della Laguna. Giovine di bell'aspetto, intelligente, garbato, serio e discreto, piaceva alle donne, e non dava sui nervi agli uomini come tanti farfalloni vanagloriosi. Aveva le sue rimesse da Parma, pagabili presso il banco Zuliani, e da questa circostanza era nata la sua relazione con Raimondo, che aveva preso a volergli bene assai presto. L'amicizia è come l'amore; nasce come e quando le pare. Del resto, così serio e garbato com'era, l'Aldini non poteva non piacere a Raimondo, che se ne fece tosto un amico, e a breve andare un compagno inseparabile. Raimondo Zuliani aveva l'animo aperto e schietto; quando si dava, si dava intiero. Per contro, aveva l'amicizia invaditrice; l'amico era la cosa sua; se avesse potuto, ne avrebbe fatto il suo schiavo; per intanto lo considerava come il suo alunno, il suo pupillo, il suo fratello minore, a cui egli dovesse dar consiglio, indirizzo, protezione efficace.

 

Con questo suo modo d'intendere l'amicizia, non poteva certamente piacergli molto che l'amico suo, così ricco di belle doti, e così intelligente, non facesse nulla, non si occupasse utilmente di nulla. Filippo Aldini passava, sì, alle volte, qualche ora a dipingere, cieli e marine, casupole e barche di pescatori, su tavolette alte una spanna e larghe in proporzione; un grazioso talento, quello, per farsi merito con qualche famiglia di amici e di conoscenti, che gradisse il presente del bozzettino; ma ci voleva ben altro che quattro fregacci, tirati giù a punti di luna, per diventare un pittore, e metter l'arte a profitto. Leggeva, più spesso, leggeva anzi ogni giorno, riviste, trattati scientifici, romanzi e viaggi; ma a che gli serviva tutto ciò? Leggere le pubblicazioni più recenti, tenersi al fatto delle novità intellettuali, è una bellissima cosa, ma non può dirsi un lavoro; ci si nutre lo spirito, non ci si guadagna un soldo, e troppi se ne buttano via dal libraio. Raimondo Zuliani, che sapeva spendere, aveva anche imparato a guadagnare, e non ne perdeva mai l'uso.

Ma infine, egli faceva il banchiere, e i suoi cominciamenti erano stati modestissimi. Poteva forse applicare la sua regola al caso di Filippo Aldini? Anch'egli, finalmente, senza avvedersene, o senza scandalizzarsene troppo, cedeva all'autorità della massima volgare, che un nobile, barone o conte, marchese o duca che sia, non è tagliato pel lavoro fruttifero. Va bene che il lavoro nobilita; ma ciò significa che il lavoro è fatto per chi non è nobile ancora, potendo per contro levare la nobiltà, o per lo meno offuscarla, a chi già la possiede; ragionamento che va, o par che vada, a filo di logica, e non fa neanche una grinza.

Un'altra considerazione più seria aveva persuaso Raimondo, chetati i suoi dubbi, i suoi timori di fratello maggiore. Solo al mondo, e modesto nelle sue abitudini, con quelle seimila lire nette all'anno, l'amico suo poteva vivere e fare in società una discreta figura. Non giocasse; era il punto essenziale. Ma l'amico suo aveva in orrore le carte. Così il fratello maggiore uscì d'apprensione, e non pensò più alla utilità d'un proficuo lavoro; egli intanto mulinava altri disegni. Con quella gioventù, con quella bella presenza, con quel titolo, poi, con quel titolo, destinato ad avere il suo valore, specie se titolo autentico, non derivato dal motu proprio di chi ne fa pompa, non c'era caso che Filippo Aldini facesse un bel matrimonio, un matrimonio brillante? Il matrimonio brillante è quello in cui da una delle due parti entrano molti quattrini, a fortificare l'alleanza dei cuori. Raimondo Zuliani, che per sè non aveva preso un soldo di dote, ragionava così per una volta tanto, seguendo l'opinione dei più. Finalmente, si trattava della felicità di Filippo, del suo inseparabile amico, del suo fratello minore; senza contare poi questo, che, felice egli stesso nel matrimonio, avrebbe ammogliato l'universo mondo.

Ma dov'era la ricca erede da gittar nelle braccia del suo carissimo Aldini? Non la trovava lì per lì da nessuna parte, e molto meno a Venezia. Qualche grosso patrimonio esisteva ancora sulle Lagune, specie nel ceto patrizio, e le ragazze con una dote vistosa, o con vistose speranze, non ci mancavano davvero. Ma c'era un guaio, che alla perspicacia di Raimondo non doveva sfuggire. Si poteva egli credere che le famiglie patrizie, dai nomi illustri, risalenti alla “Serrata del Gran Consiglio„, sentissero il gusto di rinunziare alle alleanze tra loro, e il bisogno di accettare un “conte di terraferma„ con seimila lire d'entrata? Non di là, dunque, non di là, bisognava orientarsi, e molto saviamente Raimondo ne aveva smessa l'idea.

La sposa, per quel conte, doveva venir di lontano alla sua immaginazione sempre sveglia; e doveva venire dopo due anni d'attesa, due anni che infine gli erano serviti per conoscer meglio l'Aldini e per stimarlo di più; tanto in quei due anni l'amico suo aveva guadagnato ancora in serietà, rompendola asciuttamente con certe galanterie da vagheggino, e a grado a grado liberandosi da tanti perditempi del suo primo anno di vita veneziana. Ah, quella figliuola del suo collega di Milano; altro che dote patrizia! E dote e spillatico, e grandi speranze in vista; ci aveva da esser tutto senza risparmio. Il banchiere Anselmo era uomo da milioni; poteva guadagnarne ancora, sebbene avesse ristretta di molto la sua cerchia d'affari; ma appunto perchè l'aveva ristretta, non c'era da temere che ne perdesse. E infine, soltanto tra due figliuoli, Federigo e Margherita, andava spartito il suo patrimonio.

Ed era bella, Margherita, il che non doveva guastare; e dotata di un carattere d'oro, senza ombra di vanità, nè d'orgoglio per la bellezza sua, o per le ricchezze della sua casa. Se si fosse potuto combinare! E perchè no? Il banchiere Anselmo era venuto su quasi dal nulla; sua moglie del pari; e formavano una coppia virtuosa, a cui la ricchezza era stata una giusta ricompensa, ma non aveva offuscato il sentimento delle sue modeste origini. Se nutrivano ambizioni, queste potevano risguardare soltanto i loro figliuoli; e già se ne scorgeva un indizio nella carriera scelta da essi per Federigo. E per Margherita? Un titolo, senza dubbio, sarebbe andato benissimo, accompagnato a quel fiore di bellezza e di grazia. E il giovane che portava quel titolo, apparteneva ad una nobiltà di vecchia data; non era neanche un pezzente; non era un vizioso, ma un gentiluomo e un galantuomo a tutta prova. Come avrebbe detto di no il signor Anselmo, trovando un partito sotto ogni aspetto così conveniente? e soprattutto quando la signorina Margherita vedesse di buon occhio il conte Aldini? Ora, di questo il signor Raimondo non dubitava neanche. Gli dava noia piuttosto di non aver pensato prima a quella stupenda occasione, col rischio di lasciarsela sfuggire di mano. Ma a farlo a posta, non che sfuggirgli, l'occasione era venuta incontro al suo desiderio. Bisognava agguantarla pel ciuffo; e Raimondo era stato pronto ad allungare la mano.

Così, senza dir nulla ad alcuno, lasciando che ogni cosa andasse da sè, come l'acqua per la sua china, Raimondo aveva condotto all'albergo Danieli il conte Filippo Aldini, presentandolo come il suo migliore, anzi l'unico amico, quasi un altro sè stesso, alle signore Cantelli. Il giovinotto era stato ricevuto benissimo, con un fare alquanto impacciato, ma con evidente bontà, dalla signora Eleonora; con grazia semplice e schietta dalla signorina Margherita. Il discorso, naturalmente, era caduto sul gran numero di belle cose che c'erano da vedere a Venezia. E perchè la signora Eleonora aveva accennato ad una fermata piuttosto lunga, più che giustificata dal desiderio di trattenersi quanto più potesse col suo Federigo, il quale tra non molto doveva imbarcarsi per un viaggio assai lungo, il conte Aldini si prese amabilmente la briga di stendere a voce una specie di elenco, distribuito per settimane, delle gite che la signorina Margherita avrebbe potuto fare, osservando, senza troppo stancare la mamma, tutto ciò che offriva Venezia allo studio di una viaggiatrice tanto intelligente, e capace di gustare ogni cosa notevole nella storia, nell'arte, ed altresì nell'industria paesana. Questa, infatti, non andava trascurata, poichè l'industria era in Venezia una cosa tutta particolare, ed artistica al sommo.