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Il ponte del paradiso: racconto

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Märgi loetuks
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VII.
Alzata d'ingegno

Esistessero o no i due amici di Verona, erano stati annunziati come ospiti di pochi giorni, non potendo essi restare a Venezia oltre il termine di una breve licenza. Dovettero dunque ripartire, e il conte Aldini si ritrovò quello di prima, libero del suo tempo, e padronissimo di ritornare alle sue consuetudini. Ma non senza aver fatto ancora quella passeggiata artistica, ch'egli stesso doveva immaginare e proporre. Ed era stata proprio una passeggiata all'aperto, per vedere qua e là tante di quelle piccole cose, che i viaggiatori non trovano indicate nelle guide, e che sfuggono perciò alla loro ammirazione forzata: per esempio quelle scale scoperte nei cortili di parecchie abitazioni private, come nel palazzo Soranzo in campo San Polo, nel palazzo Sanudo a Santa Maria dei Miracoli, nella casa abitata da Carlo Goldoni a San Tomà, e originale su tutte la scala dei Bembo alla Celestia in calle Magno. E non dimentichiamo, poichè piacque singolarmente a Margherita, il bel motivo architettonico foggiato ad arco trionfale su d'un calle angusto, in capo al ponte del Paradiso, presso Santa Maria Formosa.

Il ponte, per verità, era piuttosto un voltino di gora, accavalciato sopra un rio non più largo di cinque passi; l'arco trionfale si riduceva ad uno stipite, poggiato su due pietre sporgenti dagli angoli di due case, onde l'entrata del calle si restringeva alle forme di un uscio. Ma su quello stipite si girava un lunetto ad arco acuto, con entro una Madonna rozzamente scolpita, mantellata e coronata, in atto di far grazia a due divoti personaggi, forse due santi, inginocchiati intorno a lei; ma su quel lunetto si alzava, andando su su, una cuspide di marmo, elegantissima, incorniciata di fregi di leggiadra fattura, chiudente nel suo mezzo un disco egualmente fregiato, e nel disco un'apertura quadrilobata, che a Margherita parve il trifoglio di quattro foglie, tanto ricercato dalle fanciulle nei prati autunnali, come certo promettitore di desiderate fortune. Suprema eleganza di linee, grazia veramente divina di forme! E accanto alla costruzione fantastica, sul lembo d'una casa contigua, una finestrina lunga lunga, fiancheggiata da svelte colonne, reggenti un cappello di pietra ad arco acuto, ma acuto a modo suo, tondeggiante sui fianchi, assottigliato nel vertice, come un asso di picche, alla maniera degli Arabi. Che eleganza, che grazia, anche lì! E come era bello, in luoghi così umili, così poco osservati, quasi schivi di attirare la curiosità del viandante, imbattersi in quelle piccole maraviglie, vera fioritura dell'arte d'un popolo che apre gli occhi alla vita dello spirito, e pensa, indaga e crea, nella giovinezza esuberante della sua immaginazione!

Cose piccole, cose piccole, spesso da anteporsi alle grandi! Ed anche nelle grandi, dopo averle contemplate nella loro maestà, sono da osservare più attentamente le piccole. Quante ce n'erano, di queste, che Margherita non aveva nemmeno guardate, nei capitelli svariati delle colonne sorreggenti la facciata del palazzo Ducale, nelle finestre di San Marco, nelle absidi esterne dei Servi e dei Frari, nei balconi della Ca d'Oro o del palazzo Cavalli, tutte eleganze fiorite in cui per l'appunto è dato di cogliere la prima impronta di un nuovo stile nell'arte! In quella serie d'osservazioni, minute e non faticose, Margherita vide nascere il sesto acuto in Venezia e svolgersi con ispontaneità tutta italiana un modo di architettura che gli Arabi avevano elaborato, mescolando elementi bisantini e persiani. Quell'arte era venuta dall'emporio prediletto dei Veneziani intorno al Mille; venuta dall'Egitto, come le istesse reliquie del benedetto san Marco. E la signorina Cantelli fu piacevolmente maravigliata di saper tante cose nuove ad un tratto, guardando, paragonando, ascoltando; maravigliata ancora di conoscere, contro l'asserzione di tutte le guide, che le due fronti del palazzo dei Dogi, verso la piazzetta e verso la Laguna, non erano opera di Filippo Calendario, il famoso architetto e scultore, involto nella congiura del doge Marin Faliero, e perciò giustiziato nel 1354, settant'anni prima che il Senato deliberasse di atterrare le due fronti della fabbrica antica, edificata da Pietro Orseolo nel principio del dodicesimo secolo.

Infine, la cara Margherita imparava in breve ora tante belle cose, che accrescevano maravigliosamente la sua stima per Filippo Aldini; e beveva frattanto a stilla a stilla, assaporandolo, il più dolce tra tutti i veleni. Aveva ella dunque trovato l'uomo ideale, il primo e l'unico, per cui non avrebbe detto di no? Un po' triste di umore, veramente; spesso pensieroso, e qualche volta, richiamato da qualche domanda, aveva l'aria di cascar dalle nuvole. Ma queste erano inezie, e non guastavano affatto.

Egli era poi così intento a lei, così pieno di riguardi per la mamma! E certo, per esser tanto malinconico, il signor Filippo aveva le sue buone ragioni; lei ricca, e fors'anco creduta più ricca del vero; egli non tanto, da poter aspirare a lei. Margherita aveva ben capito, da certi discorsi, che il conte Aldini aveva appena del suo tanto per vivere signorilmente da scapolo. E ciò bastava, se era invaghito di lei, per giustificare tutte le malinconie, tutte le tristezze ch'ella veniva osservando. Oh, ma ci avrebbe pensato lei; ne aveva il diritto, ne aveva l'obbligo, oramai. Non gli si leggeva il suo pensiero da più giorni negli occhi? E infine, ad un digne da lei proferito a fior di labbro, non aveva egli con un filo di voce, ma con accento di vera passione, risposto in æternum?

Finita la sosta degli amici di Verona, il conte Aldini aveva dunque ripigliate le sue consuetudini, e per conseguenza la serie delle sue visite ai vecchi amici di Venezia. Ai signori Zuliani, per esempio; ma a questi per la prima volta in palco, al teatro della Fenice. Naturalmente c'era da godersi la sfilata del cavalier Lunardi, del signor Telemaco, del signor Ruggeri, del signor Gregoretti, del maestro di musica; obbligato in chiave, quest'ultimo, poichè si trattava di musica, per l'appunto. E più obbligata ancora la contessa Galier di San Polo, che la signora Livia voleva aver sempre ai fianchi, dando ai maligni buon argomento a rinfrescare il paragone della luce e dell'ombra, con la debita chiosa dell'ombra che serve stupendamente per dare maggior risalto alla luce. Ma dopo tutto, quell'ombra sempre attaccata ai panni della luminosa Zuliani, era una signora vera ed autentica, non ricca, ma d'una nobiltà anteriore alla “Serrata del Gran Consiglio„, e faceva buon effetto nel quadro, intonandolo: allegra, poi, salda alla celia, chiacchierina a quel dio, era fatta a posta per tener viva la conversazione, colmandone le lacune, smorzandone le asprezze.

Filippo Aldini, entrato nel palco per riverire la signora Livia, pensò che la Galier non avrebbe tralasciato di parlargli dell'incontro di tre giorni prima in capo alla contrada di Merceria. Ma c'erano altri discorsi avviati, e la contessa non ebbe occasione di venire sul tema; fors'anche le era passato di mente. Le cose andavano; erano tutti di buon umore, quella sera, nel palco Zuliani, perfino la signora del luogo; e quando l'Aldini prese congedo, un altro giorno era felicemente sbarcato.

Ma bisognava anche fare una visita in casa; ed egli ci andò la sera appresso, dopo l'ora del pranzo, come soleva, quando non c'era teatro. Raimondo lo accolse a braccia aperte; la signora Livia, per contro, non era di buon umore; parole poche, e muso lungo un palmo. Raimondo fortunatamente parlava per due e rideva per quattro. Aveva ragione di essere allegro; la mesata prometteva bene; la condizione delle borse era eccellente in tutto il mondo civile; nessuna nube appariva sull'orizzonte europeo. Di qui, prendendo le mosse, Raimondo scivolò presto nella politica, che era il suo forte, o il suo debole, e passò in rassegna tutti gli stati, continentali o insulari che fossero, dell'orbe terracqueo. Filippo ascoltava, approvava, e secondava il ragionamento dell'amico, mettendo qualche parola nei luoghi opportuni, perchè l'altro avesse gusto a continuare. E non faceva niente di nuovo, poichè, discorrendo coll'amico Zuliani, era sempre stato suo costume accomodarsi alle battute. Ma quella eterna politica doveva annoiare maledettamente la signora, che più d'una volta si alzò dal suo canapé, andando or di qua or di là per la casa a dar ordini, a prender libri, o giornali di mode, che distrattamente sfogliava.

– Non badare, sai, all'umore di mia moglie; – bisbigliò Raimondo all'amico, appena ebbe il modo di dirgliene. – Tu la conosci. È un angelo; ma quando ci ha i suoi nervi, poveretta, bisogna compatirla. Giornate di scirocco, dice lei; il medico mi dà una zuppa di parole greche da accapponare la pelle; ma poi, se Dio vuole, conchiude che son cose da nulla. —

Filippo Aldini conosceva benissimo la signora Zuliani; non c'era bisogno di dirgliene altro, nè di scusarla con lui. Ma fu molto felice quando venne l'ora di andarsene. Raimondo, sempre ilare e verboso, lo accompagnò fino in anticamera.

– Sai? – gli disse, quando furono là. – Viene il babbo.

– Il babbo! – ripetè Filippo. – Che babbo?

– Il signor Anselmo, perbacco. Che uomo mi sei divenuto, da non capire alla prima? —

Filippo sorrise, e tentennò un pochino la testa.

– Tu pensi sempre al tuo sogno, Raimondo!

– Ma sì, e più che mai; tanto più che non è un sogno. Felice mortale, tu sei nato vestito. Ti amano tutti; perfino la signora Eleonora, non sa parlarmi più d'altro che di te. Quasi quasi è più innamorata lei di sua figlia.

– Che cosa dici ora? Sua figlia…

– Eh, dico quel che si vede. La bella Margherita ti rende giustizia, e la lodo.

– Ma che giustizia ha da rendermi?

– Sappiamo tutto, felice mortale, sappiamo tutto; anche la visita di quattr'ore buone al Correr. —

Con queste parole Raimondo accomiatò finalmente l'amico.

 

– Ah! – pensava Filippo scendendo la scala del palazzo Orseolo. – La gallina ha cantato. Ma infine, chi mi ha ficcato in questo ginepraio, se non lui? Potevo io più liberarmene? —

Intanto una cosa lo maravigliava. Se la gallina aveva cantato, perchè non era entrata la signora Livia a discorrergli delle sue visite artistiche? E perchè non gliene aveva parlato in salotto l'amico, che aspettava a dirgliene sull'uscio di casa? Questo, poi, gli pareva di capirlo. La signora Livia non poteva soffrire le Cantelli; le aveva invitate alla cena del capo d'anno, ma solamente per obbedienza al suo signore e padrone. E questi, per compenso, le nominava il meno che potesse davanti a sua moglie. Amabil ricambio di gentilezze coniugali! E tanto meglio, del resto. Ma possibile che Raimondo, espansivo com'era, non si fosse aperto con lei del disegno che si era messo in capo? possibile che di punto in bianco fosse diventato un diplomatico di quella forza? Se così era, come infatti appariva, non più Raimondo bisognava chiamarlo, ma Guglielmo, Guglielmo il Taciturno.

Con queste “conclusioni estreme„ Filippo Aldini se ne andò in gondola verso il rio di San Felice, nelle cui vicinanze abitava. Un po' fuori di mano, veramente, ma non troppo lontano dal corso Vittorio Emanuele; tanto che quella cara matta della contessa Galier aveva detto una volta:

– Il conte Aldini ha scelto quel luogo remoto per farmi la corte; perseveri! —

Sul corso Vittorio Emanuele si avviava il giorno appresso, tra il tocco e le due, la signora Livia Zuliani. Era dunque guarita de' suoi nervi? Ma sì, lo aveva ben detto il medico; che erano disturbi passeggieri. Più che nervi, del resto, potevano chiamarsi vapori; ed era certamente effetto d'un residuo di vapori la voltata improvvisa della bionda signora, che, invece di salire dalla contessa Galier, con mutato consiglio ritornò sui proprii passi, e discesa al primo traghetto di fianco al palazzo Sagredo, entrò in una gondola, dicendo al gondoliere:

– Riva degli Schiavoni, davanti all'albergo Danieli. – Che novità era quella? Guarita di nervi, la signora Livia si sentiva anche guarita della sua vecchia antipatia per le signore Cantelli? Buon cambiamento a vista, e spontaneo, che avrebbe reso felice il suo Raimondo, se fosse stato presente! Ed era proprio una cosa strana, da segnarla col carbon bianco. Dacchè le signore Cantelli erano capitate a Venezia, la signora Livia non aveva fatto se non una visita, in principio, e per obbligo di convenienza. Ma certo ella sentiva ora, che alla loro cortesia di avere accettato l'invito alla cena del capo d'anno dovesse seguire una visita di ringraziamento.

Le signore Cantelli erano in casa, e l'accolsero a festa. La bionda signora si ritrovava in uno dei suoi giorni di bellezza, vividi gli occhi, di bel colore la carnagione; ed ella potè sentirsi abbastanza soddisfatta di sè medesima, passando nell'anticamera davanti ad un'alta specchiera, e non di quelle, Dio le confonda, che vi fanno la testa più lunga o più larga del vero, e la faccia, poi, verde come la buccia d'un cocomero.

Era già nel salotto qualcheduno in visita; Filippo Aldini, a farlo a posta. Filippo Aldini, che seduto ad un tavolino nel vano di una finestra, disegnava a memoria il ponte del Paradiso colla sua viottola stretta nel fondo, e, gittata sovr'essa, in traverso, la bella cuspide triangolare di marmo. La signorina Margherita si era tanto invaghita di quel motivo architettonico, ci ritornava così spesso col pensiero e col discorso, che il conte Aldini aveva creduto obbligo suo di fargliene un piccolo disegno a matita, da restare come un ricordo della loro passeggiata artistica per i calli di Venezia. La signora Eleonora non si sentiva disposta ad uscire, quel giorno; tra perchè era un po' stanca di tante gite pedestri, e perchè aspettava il suo Federigo, che alle tre dopo mezzogiorno era libero. Così avvenne che il conte Aldini, venuto ad offrirsi per un'altra passeggiata, restasse all'albergo in dolce prigionia, consolandone gli ozi, o giustificando una fermata che voleva esser lunga, col lavorar di matita, sotto gli sguardi attenti della signorina Cantelli. Margherita, che stava per l'appunto seduta accanto al tavolino del disegnatore, fu la prima ad alzarsi per muovere incontro alla signora Zuliani, che la ringraziò col più amabile sorriso e la baciò sulle guance. Ugual sorte toccò naturalmente alla signora Eleonora; dopo di che la bionda visitatrice si volse al conte Aldini, che si era alzato a sua volta, facendo un rispettosissimo inchino.

– Ah, bene, casco tra amici! – esclamò la signora Livia, tutta ridente, nell'atto di porgere a Filippo la bella mano inguantata.

Poi, volle vedere il disegno. Le era parso a tutta prima che il conte Aldini lavorasse a fare il ritratto della signorina Cantelli, e la sua curiosità non doveva esser poca, ignorando ella che l'Aldini, da lei conosciuto come dilettante paesista, trattasse anche la figura in grande. Ma no, niente ritratto; il disegno raffigurava un ponticello, uno dei tanti che cavalcano i piccoli canali della città, con due spigoli di case, e qualche saggio di scultura medievale; anticaglie, vecchiumi, e mezzo anneriti dall'umidità, dalla mancanza di luce, ch'ella non riusciva ad intendere come piacessero tanto agli artisti. I palazzi sul Canal Grande, alla buon'ora!

– Grazioso! – diss'ella nondimeno, dopo aver osservato coll'occhialino il disegno. – Grazioso tanto! E colle sue figurine alte un centimetro! —

Infatti, il disegnatore aveva animata la scena, mettendo sul ponte tre figurine, accennate con pochi tratti di matita. Minuscole com'erano, corrispondevano ai contorni di tre persone vere, le quali, essendo passate per l'appunto di là alcuni giorni prima, ci si potevano ben riconoscere. Ma forse non le poteva riconoscere ugualmente la signora Livia, tuttochè s'aiutasse coll'occhialino; comunque fosse, non si fermò a sminuzzolare un esame critico, che doveva esser breve e leggero.

– Continui il suo lavoro, prego; – diss'ella finalmente; – non voglio interrompere… —

E senza finire la frase, si allontanò, andando a sedersi presso la signora Eleonora sul gran sofà che era accanto al camino. Laggiù tra le due svisceratissime amiche (si vedevano infatti per la terza volta) incominciò un lungo discorso, tessuto di tutte le cose vane che sanno dirsi le donne, e con aria di prenderci un gusto matto. L'unica cosa importante, per verità, fu l'accenno della signora Eleonora al suo Federigo, che presto si sarebbe imbarcato per un viaggio intorno al globo; dopo di che le signore Cantelli avrebbero levate le tende. Qui da una parte la conclusione naturalissima che il soggiorno sulla Laguna era stato un po' lungo, e dall'altra la dichiarazione obbligata della felicità che n'era toccata a Venezia. La regina dell'Adria parlava molto amabilmente per le labbra della signora Zuliani. E batti tu che batto io, alla maniera dei fabbri, le due signore si diedero l'illusione di una gran tenerezza. Ah, se Raimondo fosse stato là in un angolo, o dietro un uscio a sentirle!

Filippo Aldini stette ancora pochi minuti, per convenienza; poi, sempre per convenienza, prese congedo.

– Lascio le signore ai loro discorsi; – diss'egli. – Noi uomini ci siam sempre di troppo. —

Era seccato di quella visita, ma non voleva parere. Margherita capì facilmente che con quella visita sopravvenuta, un uomo di garbo non poteva star sempre là, e per quanto le dispiacesse la partenza di lui, lo lasciò andare senza chiedergli se fosse davvero finito un disegno, che in altre circostanze avrebbe potuto durare fino all'ora del pranzo. Quanto alla signora Eleonora, la condizione sua e l'età le permettevano di dar commiato all'Aldini con qualche parola cortese.

– La rivedremo presto, signor conte? – domandò ella a Filippo, nell'atto di porgergli la mano.

– Sì, sarà mio dovere; – rispose egli, inchinandosi. —

E via, dopo lo shake-hand indispensabile, che non è sempre una stretta di mano.

– Un ottimo signore, e tanto garbato; – disse la signora Eleonora, quando egli si fu allontanato.

– Sì, – concesse la signora Zuliani, – ha belle maniere. Ma già, – soggiunse con un risolino malizioso, – i giovinotti del giorno d'oggi son sempre così colle dame.

– Non sarebbe dunque sincero? – chiese Eleonora.

– Che dirle? Non saprei bene; – rispose la signora Zuliani. – Si parla sui generali. Quanto a me, li ho tutti per gentilissimi.

– Ma qualche differenza si può far sempre, e alle volte si deve; – notò la signora Eleonora. – Lo conosce bene, Lei, il conte Aldini; e da qualche anno, mi pare.

– Oh, dica da parecchi; mio marito lo vede tanto volentieri! —

La signorina Margherita era rimasta alquanto più in là, davanti al disegno del conte Aldini, che voleva mettere per precauzione tra due fogli di carta.

– Margherita! – le disse sua madre. – Vuoi tu farmi il piacere… La signora Zuliani permetterà. Vuoi tu farmi il piacere di finire per me la lettera al babbo? Io sono troppo lenta nello scrivere, avendo anche bisogno di occhiali; – soggiunse, volgendosi alla signora Zuliani. – Volevo aggiunger io una pagina; ma Anselmo ci guadagnerà di aver tutta la lettera di pugno della sua figliuola. A te, dunque, mia cara; e si potrà mandare per la posta delle quattro.

– Sì, vado, mamma; – rispose Margherita. – La signora mi scusi.

– Oh cara! a patto che ritorni presto; – gridò la signora Zuliani.

Appena la bella creatura fu uscita dal salotto, richiudendo discretamente dietro a sè l'uscio della camera attigua, la signora Eleonora si strinse al fianco della sua visitatrice.

– Perdoni, mia buona signora; – le disse; – avevo bisogno di parlarle da sola a sola. Non vorrei abusare della sua gentilezza; ma certe parole sue, quando io ho fatto un piccolo elogio del conte Aldini, mi hanno messa in pensiero. Ella ha senno e uso di mondo; conosce la città, e coloro che ci vivono; il conte Aldini, poi, viene in casa loro; Ella che è donna, e delicatissima su certi punti a cui gli uomini non badano sempre, può darmene un'idea più precisa. Non merita egli tutta la stima che io facevo di lui?

– Intendiamoci; – notò la signora Zuliani. – Ho detto di non saper fare alcuna differenza tra lui e tutti gli altri. Sarò troppo severa, o troppo poco esperta in materia; ma infine non volevo andare più in là. Si sa bene, del resto; giovinotti eleganti…

– Ma dissipati, vorrebbe aggiungere.

– Non questo, propriamente; ma oziosi, pur troppo. E l'ozio, mi concederà, può condurre molto lontano.

– Il conte Aldini non fa nulla, per l'appunto.

– Nulla di nulla; – rincalzò la signora Livia. – Ha tanto da vivere; scarsamente, perchè i suoi non gli hanno lasciato di più; ma non avendo famiglia, diciamo pure che ha tanto da vivere. Certo, gli bisognerebbe rifarsi con un ricco partito. Qui non ce ne sono; almeno, non ce ne sono di quelli che potrebbero fare al caso suo. Egli, dopo tutto, non se ne dà pensiero; mio marito piuttosto. Ma io l'annoio con queste scioccherie…

– No, no, continui; tutto ciò m'interessa moltissimo.

– Del resto, si capisce; – ripigliò la signora Livia, ridendo. – Mio marito è un gran partigiano del matrimonio. Contento di quello che ha fatto lui, della qual cosa io non vorrò dargli torto, darebbe moglie a tutti,, e prima di tutti al suo conte Aldini. Conte! ecco il titolo che secondo i calcoli di mio marito può valere una dote vistosa. Il signor conte, diciamolo pure, non ne ha mai voluto sapere. Già, le ripeto, giovinotti eleganti… e galanti, hanno altro da pensare che a prender moglie.

– Qualche pratica… – balbettò la signora Eleonora.

– Eh, che debbo dirle? Son materie gelose. Ma infine, Venezia non è Parigi, nè Londra: si finisce presto col sapere ogni cosa. Il conte Aldini, nei primi tempi del suo soggiorno a Venezia, si era veramente un po' sparpagliato, cantando come si suol dire a tutti gli usci, e aveva fatto parlar molto di sè; poi a poco a poco si è raccolto, si è fatto più serio, vorrei dire perfino misterioso, vero tipo del beau ténébreux dei vecchi romanzi francesi. Ad ogni modo, son cose che non mi riguardano. Viene spesso da noi, e ciò, me lo lasci dire in confidenza ad una signora assennata come lei, potrebbe anche essere pericoloso; tanto che alle volte, approfittando per l'appunto della occasione, vorrei fargli una ramanzina coi fiocchi. Ma non ho ancora l'età, da assumere una parte simile, nè con lui, nè con altri. Me ne rincresce, perchè il mistero c'è, e un mistero non senza pericoli…

– Ella, da quanto pare, conosce anche la persona; – osservò la signora Eleonora. —

Un cenno malinconico di assenso le disse che si era apposta.

– E… la condizione? – riprese. – Il nome, se Ella si fida di me?

 

– Non è il mio segreto; – mormorò la signora Livia con anima e voce contrita.

– È giusto, perdoni; – conchiuse la signora Eleonora. – Capisco intanto che il conte Aldini dev'essere in uno stato d'animo assai dispiacevole. Queste pratiche hanno sempre la loro punizione con sè. S'incomincia senza pensarci troppo; la via del precipizio è sparsa di fiori; ma poi… cara signora, ne ho vedute nella mia vita, di queste belle passioni, ne ho vedute, parecchie e finite presto in tragedie. Ah, uomini pazzi! e donne pazze! perchè son esse le maggiori colpevoli.

– Lo crede? – disse la signora Zuliani.

– Ne son certa. Gli uomini, infine, sono spensierati e temerarii; spesso non hanno idea di giustizia, nè di morale, due buone e belle cose facilmente dimenticate, perdute nell'uso e nell'abuso dell'esistenza. Mio marito dice qualche volta che l'uomo è nato cacciatore; poveretto! egli che non ha mai preso in mano un fucile da caccia! Ma la donna, che s'adatta a fare da selvaggina a questi cacciatori, che orrore! essa, poi, che avrebbe tante ragioni per esser forte, per custodirsi, per arrestarsi, se non altro, sulla via del precipizio! L'educazione, per esempio, una certa delicatezza di sentire, che nell'uomo è così presto cancellata dalle volgarità della vita, il pensiero della propria dignità, e finalmente la ragione più forte, quella che le val tutte…

– E quale?

– La religione, non le pare? E non già quel tanto di religione che consiste nel pregare a certe ore, biascicando frasi che spesso non s'intendono, e si ripetono macchinalmente, senza pensarci più che tanto; ma la religione piena, intiera, meditata, che c'insegna i nostri doveri, facendoci intendere la bellezza e gustare la felicità d'una coscienza tranquilla. —

La signora Eleonora si era un po' riscaldata, cosa che le accadeva di rado; e ci diventava perfino eloquente, di quella eloquenza che viene qualche volta alle madri. La signora Livia, che non se l'aspettava davvero, n'era rimasta maravigliata, e quasi sopraffatta, tanto che per un istante, pensando alle ragioni enumerate dalla sua interlocutrice, dimenticò quelle che avevano determinata la sua visita e la sua piccola alzata d'ingegno. Ma certamente senza volerlo gliele fece tornare in mente la signora Cantelli, discendendo dalle altezze della tesi morale, per rifarsi al caso particolare ond'era stato mosso il discorso.

– Quello che più mi rincresce, – ripigliava la buona signora, – è di pensare a quel povero giovinotto, che non è, poi, e non meriterebbe di essere come tanti spensierati. Egli almeno sente che la sua condizione non è bella. È spesso malinconico, e si capisce che un triste pensiero lo turba. Gli si domanda, per isviare le sue malinconie, gli si domanda, qualche volta di punto in bianco: ed ora, che cos'ha? Si scuote allora, si sforza di sorridere, e risponde: nulla, sa, non ho nulla; difetto del mio spirito, che s'incanta volentieri, e va qualche volta nelle nuvole. —

La signora Livia tentennò ripetutamente il capo, atteggiando le labbra ad un risolino d'incredulità.

– Eh! – soggiunse poi. – Che cosa le dicevo io? Altro che nuvole! Il conte Aldini ha quell'altra in mente; e non può non avercela spesso, anche contro sua voglia. Ma bisognava pensarci in tempo, come ha detto lei così bene, signora Eleonora, nella sua rettitudine; bisognava pensarci in tempo, quando si era ancora sulla via piana e sparsa di fiori. Perchè, dopo tutto, siamo giusti, anche quell'altra avrà ragione a dolersi, non lo crede? e meriterà un pochino di compassione. —

Il ragionamento, che non faceva una grinza, poteva durare dell'altro. Ma fu interrotto da un grido soffocato, che veniva dalla camera attigua, accompagnato da un rumor sordo, come di una caduta. La signora Eleonora ne fu sbigottita.

– Margherita! figliuola mia! – gridò ella, balzando in piedi e correndo ad aprir l'uscio.

Per un istante aveva creduto di trovarla più vicina alla soglia, e già si pentiva di aver condotto il discorso su quell'argomento delicato, senza badare che qualche frase proferita a voce meno bassa poteva essere udita di là, e destar l'attenzione di Margherita. Ma la fanciulla si vedeva più oltre, colla persona abbandonata sopra un divano, a piedi del letto di sua madre.

– Signorina, che è stato? che cosa si sente? – gridava a sua volta la signora Zuliani, accorrendo anche lei.

– Niente, signora; niente, mamma; – rispondeva Margherita. – Un leggero stordimento improvviso, mentre venivo a domandarti d'una cosa da dire al babbo. Mi ero alzata dalla sedia, e tutto ad un tratto non ho potuto più reggermi… Ma sarà una cosa passeggera, speriamo.

– Se apriremo la finestra, sicuro; – riprese la signora Zuliani. – C'è troppo caldo, qua dentro. Ah, i caloriferi! – soggiunse, andando appunto a girare la spagnoletta delle imposte, e facendo entrare nella camera un'ondata d'aria fredda. – Ah, i caloriferi! invenzione diabolica!

– Sì, difatti, era troppo caldo; – disse Margherita. – E quest'aria fredda mi ha fatto bene. Non ho più nulla; sorridi, mamma, non ho più nulla, davvero. —

La signora Eleonora non era molto persuasa; ma finse di crederlo, anche per dar modo alla signora Zuliani di congedarsi più presto. La signora Zuliani non era meno desiderosa di andarsene che quell'altra di vederla andare; perciò, fatti ancora due vezzi alla cara Margherita, prese lestamente commiato.

Ma la bionda signora non era forse guarita de' suoi nervi, o de' suoi vapori, come da principio pareva. Il tragitto dalla Riva degli Schiavoni al palazzo Orseolo le parve maledettamente lungo. Appena giunta a casa si mise a letto; e a letto la trovò Raimondo, quando capitò a casa per l'ora di pranzo. Effetti del caldo, diceva lei; troppo caldo in quell'albergo, dove era andata a visitare le signore Cantelli. Ma Venezia non aveva bisogno di tanto caldo, per bacco; non ne aveva bisogno con quel suo clima sempre uguale, temperato dai venti tiepidi della Laguna, specie negli appartamenti esposti a mezzogiorno.