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Il ritratto del diavolo

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XIII

Vi ho detto come quel degno gentiluomo che era messer Bardano Acciaiuoli amasse Spinello Spinelli. La mestizia del giovine pittore lo aveva colpito; il suo ingegno messo alla prova, lo aveva stupefatto; la sua bontà gli aveva parlato al cuore, lo aveva innamorato senz'altro. E il vecchio cavaliere, poi che Spinello si fu allontanato da Firenze, prese a seguire i suoi trionfi artistici nelle varie città di Toscana, che facevano a gara per averlo, come un padre seguirebbe da lunge, con gli occhi dell'anima, i trionfi d'un figlio diletto.

Però, immaginate voi con che cuore messer Dardano leggesse un giorno certa lettera di madonna Ghita Spinelli che gli annunziava tristi cose del suo povero marito. Ridottosi in patria dopo lunghe e vane peregrinazioni, Spinello Spinelli era comparso davanti alla madre de' suoi figli, pallido, sparuto, coi capegli quasi bianchi, e col cervello in volta. Sicuro, il povero Spinello Spinelli era impazzito.

Di questa catastrofe messer Dardano aveva avuto come un presentimento alcuni mesi prima quando Spinello gli era capitato d'improvviso a Firenze. Il giovine pittore tornava allora da Pistoia, senza aver posto mano agli affreschi, che quei cittadini s'aspettavano con tanto desiderio da lui. Non si sentiva di far niente che avesse garbo; quella bella città non lo aveva ispirato. La cosa parve strana a messer Dardano; ma egli stando qualche ora col suo protetto, non aveva durato fatica ad intendere che un grande infortunio e una profonda afflizione lo avevano oppresso, offuscando in lui la coscienza del proprio ingegno e del proprio dolore. Infatti passava con la massima volubilità dal pianto alle risa, incominciava un discorso o finiva in un altro, se pure si poteva dire che ne finisse mai uno. Messer Dardano aveva cercato di penetrare il segreto di quella mente turbata, ma non ne era venuto a capo. E Spinello Spinelli aveva lasciato Firenze, dicendo al suo protettore che gravi cose lo chiamavano altrove; tra l'altre, e prima di tutte, un voto da sciogliere.

Il degno gentiluomo si era industriato a trattenerlo ancora qualche giorno: ma Spinello, promettendogli di tornare a prender commiato da lui, gli era fuggito di mano. Ricordando l'accenno a quel voto, messer Dardano pensò che Spinello dovesse recarsi a qualche famoso santuario. Lo aveva conosciuto religiosissimo; aveva saputo delle sue pratiche di pietà in Arezzo, condotte, a dir vero, oltre le medesime costumanze del tempo, e aveva detto tra sè, rassegnandosi a quella sparizione:—"Povero giovane! Speriamo che il tempo, questo gran medico delle anime afflitte, rechi un po' di sollievo ai suoi mali, e ch'egli non abbia a perderci l'ingegno; che sarebbe veramente peccato!"—

La lettera di monna Ghita ricordò a messer Dardano Acciaiuoli le sue prime apprensioni. Era stato il protettore di Spinello e il pronubo della giovine coppia, e intendeva benissimo come in un giorno di tristezza domestica, la moglie di Spinello dovesse ricorrere a lui col pensiero e invocare il suo patrocinio. Quel degno gentiluomo non istette in forse, e il giorno dopo che ebbe ricevuto il messaggio della povera donna, si avviò con gran diligenza ad Arezzo, per vedere in che modo potesse tornar utile alla dolente famiglia.

Era appena giunto in Arezzo, che gli si parò davanti agli occhi la torbida figura di Tuccio di Credi. Quel disgraziato era assai male in arnese; ma messer Dardano lo riconobbe subito. Rammentate che Tuccio di Credi era il compagno inseparabile di Spinello, nella sua gita a Firenze, e che proprio a lui si era rivolto messer Dardano, per avere notizie intorno alla tristezza di quel giovinotto, che andava ogni giorno a sedersi sulla piazza di Santa Maria Novella. Inoltre, Tuccio di Credi era l'aiuto di Spinello Spinelli, quando questi dipingeva nella chiesa di San Nicolò, in via della Scala, e messer Dardano non poteva averlo dimenticato così facilmente.

–Tuccio di Credi!—esclamò egli andandogli incontro.—Che fortuna d'imbattermi in voi, appena entrato in Arezzo!—

Tuccio di Credi aveva veduto messer Dardano anche prima che messer Dardano vedesse lui. E avrebbe voluto cansarlo; ma, come accade in simili circostanze, che il timore d'essere osservati vi trattiene e vi fa cadere più presto nelle unghie di chi volevate sfuggire, andò a lui come la biscia all'incanto.

–Messere,—diss'egli,—mi duole di presentarmi a voi… in questo povero stato.

–Ah, sì, gli è proprio il momento di badare a queste cose;—esclamò l'Acciaiuoli.—Come va il nostro caro Spinello? Son venuto a bella posta per lui.

–Messere,—balbettò l'altro turbato,—io non lo vedo da un pezzo.

–Come? non siete con lui?

–No, messere, ci siamo lasciati, dopo che egli ebbe dipinto nel camposanto di Pisa. Non lo sapevate?

–Io no; Spinello non mi ha detto niente di ciò. Ma spera che non sarete diventati nemici.

–Per quanto è da me, no, certamente;—rispose Tuccio di Credi.—Del resto, abbiamo avuto da dire su cose da nulla, e il torto è stato il mio. Ho parlato di andarmene ed egli mi ha lasciato andare. Già non gli servivo gran fatto. E da quel giorno sono andato qua e là, per tutta Toscana, in cerca di lavoro…

–E non ne avete trovato?

–Ahimè, messere! Con tutta la miglior volontà del mondo, non son venuto a capo di nulla. Che volete? Non si nasce tutti sotto una buona stella, e la mia è stata la più trista.

–E siete senza lavoro?

–Come voi dite, messere.

–Ma lavora Spinello, m'immagino.

–Sì,—rispose Tuccio di Credi;—quantunque io non riesca ad intendere come gli venga fatto. Voi saprete che egli è impazzito?

–La voce ne è corsa; ma speriamo che sia esagerata;—disse messer Dardano.

–Lo volesse il cielo!—esclamò Tuccio di Credi; ma facendo la sua brava restrizione mentale, di cui messer Dardano Acciaiuoli non doveva avvedersi.

–Ah, sì!—ripigliò il vecchio gentiluomo,—Questo dobbiamo tutti desiderare. Forse non si tratterà che delle solite malinconie. Sapete pure, Tuccio, che il nostro amico ha sempre dato nel triste. Sarà la stessa malattia di Firenze. Certi dolori, quando si sono impadroniti di noi, amano ritornare e non c'è verso di liberarsene del tutto.

–Non sa nulla!—pensò Tuccio di Credi, udendo le parole di messer Dardano.

E ad alta voce proseguì:

–Messere, da quando non avete più visto Spinello?

–Dal suo ritorno da Pistoia a Firenze;—rispose l'Acciaiuoli.—Il nostro amico doveva essere già in balia de' suoi tristi pensieri, poichè non è riescito a far nulla, in quella città, deludendo così l'aspettazione di tutti. Come diamine è andata? Io non ho potuto cavarne un costrutto. Non ne sapete nulla, voi? Ma già, dimenticavo che eravate separati.

–Ve l'ho detto, messere, ci eravamo lasciati, prima che egli andasse a Pistoia.

–Spero che non sarà una separazione eterna;—disse allora l'Acciaiuoli.—Se Spinello ha avuto dei torti con voi, dovete dimenticarli. Se la colpa è stata vostra, dovete farvela perdonare, cercando di rinfrescar l'amicizia.

–Non sa nulla! Non sa nulla!—ripetè in cuor suo Tuccio di Credi.—Ah, se non sapesse nulla neanche quell'altro!

–Siamo dunque intesi;—proseguiva messer Dardano.—Gli parlerò di voi, aggiusterò io questa faccenda. Giovinotto, queste freddezza non istanno bene tra compagni d'arte, che sono sempre andati d'accordo. La vita è già troppo piena di noie; non la turbiamo ancora con le nostre contese. Vi vedrò, questa sera?

–Volentieri;—disse Tuccio di Credi.—Voi siete così buono con me! Passerò da voi, se vi piace.

–No;—rispose messer Dardano.—Forse rimarrò presso il nostro amico, e non sarà bene che io vi dia la posta in casa sua. Verrò dopo il vespro in piazza del Duomo. Vi torna?

–Ci sarò, messere. E siate ringraziato per l'onesta intenzione.

–Che! che! Non mi ringraziate di nulla. Sarò proprio felice di aver posto fine a questa mala intesa; che altro non può essere davvero.—

Fatte queste parole, che vi daranno misura della sua bontà di cuore, messer Dardano Acciaiuoli si avviò alla casa di Spinello Spinelli. Tuccio di Credi se ne andò per i fatti suoi, contento di quell'incontro, donde gli appariva che il suo compagno d'arte non sapesse niente delle sue marachelle.

–È strano,—pensava egli,—è strano che egli non sia venuto in chiaro di nulla. Ma già, chi può averglielo detto? Il Buontalenti, no certamente, che dev'essergli capitato addosso alla sprovveduta, e per farsi ammazzare come un cane. Che sciocco! È vero che egli, prima di morire, ha freddata la moglie; e in questo io ho riconosciuto il mio uomo. Povera madonna Fiordalisa! Ma già, così doveva finire. Ed ella, di sicuro, non ha neanche avuto il tempo di raccontare al suo antico fidanzato che parte ci avessi avuto io nella sua risurrezione. Ah, madonna Fiordalisa! Siete voi che l'avete voluto. Se non vi prendeva quella sciocca mania per l'amico Spinello! Mastro Jacopo vi avrebbe concessa a me, suo primo discepolo; ed io, chi sa? avrei potuto anche diventare un maestro. Dicono che l'amore faccia miracoli! Ma vedete quel dannato di Spinello! È fortunato anche nella disgrazia! Ha perduta due volte la sua innamorata, è impazzito e conserva l'ingegno per dipingere!—

Tuccio di Credi era tornato in Arezzo, perchè in nessuna città di Toscana aveva trovato modo di occuparsi. E sentiva più dura la sua condizione, rientrando così male in arnese nella sua terra natale, donde era escito con tanti disegni ambiziosi nell'anima. Una speranza lo sosteneva, nel ritorno; la speranza di appoggiarsi a Parri della Quercia, modesto ma non ultimo tra gli scolari di mastro Jacopo di Casentino. E vedete disdetta; Parri della Quercia era morto; lo studio di mastro Jacopo era chiuso per sempre. Ma se Parri mancava, era tornato Spinello; e la notizia di quel ritorno aveva dato maledettamente sui nervi a Tuccio di Credi. Era già sul punto di tornarsene via, anche non sapendo dove sarebbe andato a battere del capo; tanto gli riusciva molesto di averlo ad incontrare per via. Ma subito dopo l'annunzio dell'arrivo di Spinello, aveva avuto quello della sua pazzia, naturalmente spiegata a' suoi occhi da ciò che per altra via, gli era giunto all'orecchio, intorno alla tragedia di Colle Gigliato. E allora, Tuccio di Credi aveva mutato proposito; era rimasto in Arezzo. Messer Dardano gli era capitato proprio in buon punto. Da lui avrebbe potuto sapere che cosa pensasse Spinello, e che cosa egli avesse a sperare per sè.

 

Spinello non era in casa, quando messer Dardano Acciaiuoli vi giunse. Ma il vecchio gentiluomo ne fu contento, poichè l'assenza del suo protetto gli dava agio d'intrattenersi con monna Ghita.

Egli la trovò malinconica, ma rassegnata. La povera donna non aveva saputo nulla da nessuno, ma aveva indovinato ogni cosa. Un uomo si nasconde male con la compagna della sua vita, e Spinello, che non mirava a nascondersi, aveva lasciato scorgere a Ghita assai più che ella non fosse curiosa di sapere. La buona creatura apparteneva a quella classe di donne, per cui è natura il soffrire in silenzio, rinchiudersi nell'esercizio dei proprii doveri e trovarci anche un compenso bastevole a tutti i disinganni della vita. Certo il vivere in questa guisa è un sacrificio; ma per il desiderio di rendergli giustizia, non è mestieri esagerarne la grandezza. Spesso è quistione di nervi; più spesso di educazione. Le anime avvezze fin dai primi anni alle freddezze, ai mali trattamenti, alla mancanza d'ogni affetto, alle aperte ingiustizie degli uomini e della sorte, si raccolgono in sè medesime, imparano a non chieder nulla al di fuori, e acquistano a lungo andare una padronanza di sè, che sfida ogni traversia, rende men gravi i patimenti, innalza all'eroismo, fa parer bello all'occorrenza il martirio.

E se vi parrà che con questo ragionamento io tolga merito al sacrificio di Ghita Bastianelli, pensate che le ragioni della verità son superiori a tutti gli artifizi della rettorica, come a tutte le illusioni del sentimento, e che un elogio modesto è l'omaggio più conveniente alle modeste virtù. Beati gli umili, e beati coloro che sanno contentarsi del poco. La mammola ascosa nel fogliame, a' piedi delle ripe, non ha lieti splendori per gli occhi del riguardante, ma lo trattiene con la cara soavità delle miti fragranze. E queste anime elette, che adempiono ai loro uffizi senza ombra di ostentazione, non domandano lodi smaccate; si dorrebbero troppo di ottenerle.

Perchè vi magnificherei io il carattere di Ghita Bastianelli, oltre i confini che gli erano assegnati dalla sua propria coscienza? Certo, ad un uomo come Spinello Spinelli, carico di gloria e pieno di angoscie così grandi come la gloria, si conveniva una donna simile. Illustri sventurati, anime ferite a morto nelle battaglie dell'esistenza, auguratevi gli estremi conforti di un'umile compagna, la quale, se non potrà risanare la nostre piaghe, non aiuterà ad inasprirle. Soldati che una palla cieca ha colpiti, pensatori che una grande ambizione ha travolti, fidenti giostratori che il mondo ha abbandonati sull'arena, non lo trovate voi, quel mite conforto, nella corsia d'un ospedale, dove le ebbrezze, gli splendori, le speranze, i sogni, andarono miseramente a far capo? Il sorriso tranquillo e benevolo d'una suora di carità, donna come vostra madre, che è morta, come vostra sorella, che è lontana, come la vostra amante, che s'è data ad un altro, non basta a fare men doloroso il vostro ultimo giorno? Pure, quella donna adempie senza sforzo un ufficio di altissima carità; si è appartata dalle gioie del mondo, per ereditarne solamente i dolori; ma non v'intenderebbe, o riderebbe d'un riso tutto suo, se in quella bontà che è la sua consuetudine voi voleste trovare l'argomento di un inno.

Messer Dardano Acciaiuoli udì da monna Ghita come Spinello fosse ritornato in patria, grandemente mutato da quello di prima, e come il suo animo, di triste che era, ed inchinevole ad una dolce malinconia, si fosse ottenebrato di schianto. Non gli restava altro lume che quello dell'arte; ma era un lume a sprazzi momentanei, quando l'uomo si trovava sulla sua impalcatura, con la tavolozza e i pennelli tra mani. In quei momenti, si riconosceva ancora Spinello; mancavano le audacie, mancavano quei lampi in cui si mostra la battaglia interna tra il magistero dell'arte e l'idea che vuol condurre a nuove altezze l'ingegno; ma l'ingegno tuttavia si vedeva, e l'ingegno è sempre una luce. Levato dal suo trèspolo, il povero Spinello diventava un altro uomo: si addensavano le ombre intorno al suo spirito; non si vedeva un mentecatto, ma si compiangeva uno scemo.

Il vecchio gentiluomo ascoltò con grande rammarico la storia dolente del suo povero amico, e confortò come potè quella ottima donna, che gli additava i suoi figli, Parri e Forzore, in cui si raccoglievano tutte le sue tenerezze.

–Son essi la mia consolazione e la mia forza;—diceva monna Ghita.—Quando sento che il mio cuore non regge più a tanti dispiaceri, guardo quelle due testoline bionde. Ecco una gioia che Iddio mi concede;—soggiungeva ella sorridendo malinconicamente;—e quello che Iddio mi ha concesso non mi toglie nessuno.—

Messer Dardano Acciaiuoli ammirò quella serenità di mente, e, presa la mano di Ghita, l'accostò da buon cavaliere alle labbra.

–Dio vi guardi, madonna;—diss'egli;—con tali conforti voi non potrete mai reputarvi infelice.—

Dopo ciò, messer Dardano escì, per andare in cerca di Spinello, che dipingeva allora nella chiesa di Sant'Agnolo.

Vi accenno senza descriverla, che oramai s'andrebbe troppo per le lunghe, la scena commovente di quell'incontro tra il vecchio gentiluomo fiorentino e il suo protetto di via della Scala. A mala pena lo vide comparire sul ponte, Spinello depose la tavolozza, si calò a furia dal trespolo su cui stava seduto, e andò a piangero lagrime di tenerezza tra le braccia di messer Dardano.

–Su, su, ragazzo mio!—disse il vecchio gentiluomo.—Non vi commovete più del bisogno. Che cosa c'è egli di strano? Ho voluto vedervi ed abbracciarvi ancora una volta, prima di andarmene ad patres. Son vecchio oltre i settanta, che sono il colmo della vita, se dobbiam credere agli antichi; e tutto il resto è un di più, sul quale non bisogna far conto.

Con queste chiacchiere allegre, messer Dardano Acciaiuoli cercava di sviare le idee malinconiche, naturalissime in quell'incontro, che doveva svegliare tanti dolorosi ricordi nell'animo di Spinello. Frattanto, il nobile fiorentino sbirciava il suo protetto, che male avrebbe riconosciuto, se, scambio di trovarlo al suo posto d'onore, lo avesse incontrato per via. Spinello aveva le guancie scarne, gli occhi infossati, i capegli largamente brizzolati di bianco; era, a dirvela in due parole, una rovina d'uomo. La gioventù e la forza si vedevano solamente in quegli occhi; ma l'una e l'altra parevano fittizie, come se la vita che traspariva da essi non fosse altro che un effetto di ebbrezza momentanea, od anche di pazzia.

Ma perchè egli non poteva guardar sempre Spinello, senza aver l'aria di far confronti tra il presente e il passato, messer Dardano si volse intorno a guardare i dipinti. L'impalcatura su cui era salito, si stendeva dall'arco del presbiterio fino all'emiciclo del coro, e gli affreschi di Spinello Spinelli si vedevano stesi lungo la facciata dell'altar maggiore. Vi ho detto che la chiesa avea nome da Sant'Agnolo; aggiungo ora che si diceva Sant'Agnolo per mo' d'antonomasia, dovendo intendersi l'arcangiolo San Michele, che è il primo e il più ragguardevole tra gli spiriti celesti. Gli affreschi di Spinello Spinelli rappresentavano per l'appunto la più nobile impresa del Santo, vo' dire la rovina degli angioli ribelli, e il pittore li aveva colti quasi tutti nel punto critico, in cui, piovendo sulla terra, si tramutarono in diavoli. Terribile all'aspetto, campeggiava in alto l'arcangiolo Michele, che combatteva da par suo con l'antico serpente di sette teste e di dieci corna; un serpente assai brutto, come potete immaginarvi, e diventato anche più brutto per la disgraziatissima circostanza in cui era.

Messer Dardano meravigliò in cuor suo che Spinello avesse fatto prova di tanta fantasia. Forse, ce n'era più che il pittore non avesse mostrato mai; perchè, se non sapete, lo scolaro di mastro Jacopo di Casentino ora salito in gran fama per la sua eccellenza nel trattare soggetti più quieti e nel dare espressione di gravità, e di tenerezza, ad aggruppamenti di poche figure. La grazia semplice dei suoi Santi e delle sue Madonne sentiva qualche cosa della divinità. Ed era tenuta per l'opera sua più maravigliosa una Vergine che porgeva a Cristo fanciullino una rosa, affresco condotto da lui su d'una parete, in Santo Stefano fuori le mura d'Arezzo. La fama di quel dipinto doveva sopravvivere all'autore e alla chiesa, poichè, quando questa cadde in rovina nel 1561, gli Aretini, senza guardare a nessuna difficoltà o spesa, tagliarono il muro intorno all'affresco, e allacciatolo ingegnosamente lo portarono in città, per collocarlo in via delle Derelitte, sotto il nome poco appropriato di Madonna del Duomo.

Contro tutte le consuetudini, anzi meglio, contro l'indole del suo ingegno, Spinello Spinelli dava allora nel fantastico e nel truce. E si compiaceva, mentre Dardano Acciaiuoli contemplava il dipinto, si compiaceva in quella rovina d'angioli, quasi dovesse riescire il suo capolavoro. Forse egli sentiva dentro di sè che sarebbe stato l'ultimo?

–Vedete, messere;—diceva egli, dopo avere esposto il suo concetto al vecchio gentiluomo;—sono ormai presso a finire. Quel vano che scorgete nel centro è il posto di Lucifero. Ho incominciato con San Michele; finirò col suo grande inimico. È il più difficile, e l'ho lasciato per l'ultimo. Ci penserò stanotte, e domani, senz'altro, mi sbrigherò anche di lui.

–Che?—esclamò messer Cardano.—Avete lavorato senza cartoni?

–Sì, messere; per questa volta ho seguita l'ispirazione. Da principio, per darne un'idea a questi massari, avevo disegnato ogni cosa di rossaccio, così alla grossa, non dipingendo di buono che una piccola parte di questa composizione. L'idea è piaciuta, e m'hanno allogato il lavoro.—

Spinello non diceva tutto, poichè non lo sapeva appuntino. Le sue distrazioni, la sua aria melensa, e certi segni che dava d'esser tocco nel cervello, avevano fatti rimanere dubbiosi i massari di Sant'Agnolo. Perciò, ad assicurarsi che l'artista era sempre quel desso, e che non ne sarebbe venuta un'opera da doversi cancellare, avevano chiesto un disegno sul muro. E Spinello, che era sempre lui, quando si trovava sul suo trèspolo, aveva fatto il disegno richiesto, meritando in tal guisa la lode di tutti e la pronta commissione dell'affresco.

Quel giorno, Spinello Spinelli lasciò il lavoro assai prima del solito, volendo dedicare tutto il suo tempo al nobilissimo ospite. S'intende che messer Dardano, per isviare l'animo del suo protetto dai dolorosi pensieri, che avevano purtroppo il triste effetto di offuscargli la ragione, si adoperò come potè meglio a tenere il discorso nel campo dell'arte. E Spinello da principio segui benissimo il filo della conversazione, ragionando dei lavori che aveva in mente di fare. Ma a poco a poco si smarrì, e, un'ora dopo, messer Dardano vide di non aver più accanto a sè che un povero scemo.

Quando giunsero a casa per desinare, monna Ghita fece all'Acciaiuoli un gesto malinconico, che voleva dire:—Orbene, messere, lo vedete anche voi, come è ridotto?—

Infatti, il povero Spinello non aveva più coscienza di sè. Solamente il lavoro poteva rialzarne lo spirito; cessato il lavoro, tornavano le ombre. Strana forma di pazzia, non è vero? Ma se non fosse strana, non sarebbe pazzia.

Mentre erano a tavola, messer Dardano entrò a ricordare il nome di Tuccio di Credi. E Spinello ne parlò come di un amico, da cui si fosse separato pur dianzi, con una fraterna stretta di mano.

–Ottimo Tuccio!—diss'egli.—Come va che non si trova con noi?

–Non ha osato presentarsi;—rispose messer Dardano.—Egli è tornato assai male in arnese. Figuratevi che in nessuna scuola delle tante città di Toscana ha trovato da vivere.

–Da vivere!—esclamò Spinello.—O che bisogno aveva di trovar da vivere. La mia scuola non gli basta?—

Messer Dardano capì facilmente che il cervello del suo amico andava in processione, e ripigliò tranquillamente il discorso.

–Voi ricorderete, Spinello mio, che Tuccio di Credi, qualche tempo fa, si era risoluto di andarsene dal vostro servizio. Temeva di esservi inutile, il poveretto! Non ha molta levatura d'ingegno, ma per contro, ci ha un discreto amor proprio. Malattia dei poveri,—soggiunse il vecchio gentiluomo,—e va curata con garbo. Volete voi ripigliarlo a bottega?

 

–Non rammento di averlo mai congedato;—rispose Spinello.—Se tornerà, l'avrò caro.

–Ah bene!—gridò l'Acciaiuoli.—Così va fatto. Voi siete sempre un nobile cuore.

Quella sera, passeggiando col suo ospite in piazza del Duomo, messer Dardano vide Tuccio di Credi e gli accennò di accostarsi. Quell'altro obbedì prontamente.

–Ecco Tuccio di Credi;—incominciò l'Acciaiuoli, volgendosi al suo ospite.

Spinello si scosse a quelle parole, alzò gli occhi e salutò il suo compagno d'arte.

–Buona sera, Tuccio!—diss'egli stendendogli la mano.

–Buona sera, maestro!—rispose Tuccio, sporgendo timidamente la sua, e chinando gli occhi a terra, come se volesse ringraziare messer Dardano della sua benevola intercessione.

–Ecco un patto conchiuso;—disse allora l'Acciaiuoli.—Domani tornerete a lavoro col nostro ottimo Spinello. Eravate amici e non avete mai cessato di esserlo. A voi, Tuccio, sarà grande fortuna di lavorare con un tant'uomo; egli, poi, sarà lieto di avervi aiutatore, secondo l'antica consuetudine, che era così profittevole ad ambedue.—

Messer Dardano era contentissimo di aver fatta quella pace, non tanto per il piacere di averla fatta, quanto per l'utile che doveva, secondo lui, derivarne a Spinello.

–Tuccio è un uomo serio;—pensava egli;—conosce da lunga mano l'umore del suo compagno e potrà tenerlo in riga più facilmente di un altro. Ora, più che mai, il nostro povero amico ha bisogno di qualcheduno che abbia pratica con lui e lo sostenga nei momenti difficili. Sia lodato il cielo!—conchiuse il vecchio gentiluomo.—Me ne andrò via da Arezzo con l'animo più tranquillo.—