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Il ritratto del diavolo

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II

L'entrata di Spinello Spinelli ai servigi di mastro Jacopo da Casentino fece chiasso nella scuola. Egli era caduto là come un sasso in una pozzanghera, facendo schizzare acqua e fango d'ogni parte. Sicuro, anche fango. Certe acque non appaiono pulite se non quando e fino a tanto son chete. Provatevi a rimestarle!

Nella bottega di mastro Jacopo erano cinque garzoni. Di quei cinque, soli due potevano passare, ed essere considerati come speranze per l'arte. Gli altri non promettevano nulla, e mastro Jacopo li adoperava a mesticare i colori, a macinare le terrene sulla pietra, a far le imbasciate della bottega, a portargli la cartella dei disegni e la scatola dei pennelli, quando andava a lavorare fuori via.

Quei cinque lasagnoni, com'egli spesso usava chiamarli, con dimestichezza punto piacevole a loro, si domandavano, Tuccio di Credi, Lippo del Calzaiuolo, Parri della Quercia, Cristoforo Granacci e Angiolino Lorenzetti, soprannominato il Chiacchiera. Nessuno di costoro salì in eccellenza nell'arte del dipingere, quantunque due, come vi ho detto, lo avrebbero potuto, cioè Parri della Quercia e Tuccio di Credi. Ma il povero Parri della Quercia morì giovane, non lasciando raccomandato il suo nome che ad una tavola di Santa Margherita, nella chiesa cattedrale di Cortona; e Tuccio di Credi…. Quanto a Tuccio di Credi, egli avrebbe fatto opera più degna, morendo lui, in luogo di Parri della Quercia.

L'apparizione di Spinello Spinelli nella bottega di mastro Jacopo aveva destato un vero baccano in mezzo a quei cinque fattori. In primo luogo perchè nessuno sapeva che quel giovinottino elegante fosse un pittore. Per esser riconosciuti pittori, a quel tempo, bisognava essere entrati fanciulli ai servizi di un vecchio artista, aver macinata per qualche anno la terra di Siena, aver fatto cuocere il travertino, di cui si faceva il bianco per gli affreschi, e portata magari la zuppa al principale, quando lavorava sui ponti, e non ismetteva per tutta la giornata, temendo giustamente che gli avesse a seccare l'intonaco.

Un'altra cagione di meraviglia tra i cinque scolari di mastro Jacopo era questa, che il nuovo venuto si presentava con un quaderno di tocchi in penna, che diceva di aver fatti lui, senza preparazione di studi. Questo, a dir vero, non significava nulla. Ognuno, a cui piaccia, può imbrattare un foglio di carta e credere d'aver fatto un disegno. Ma il guaio era che mastro Jacopo aveva lodati i disegni del nuovo venuto, proponendoli come esempio ai vecchi della scuola.

–Ecco qua,—aveva detto, mettendo il rotolo dei fogli sotto il naso dei suoi fattori,—lasagnoni, imparate. Quando vi dico che bisogna copiare dal vero! Voi altri, invece, perdete il vostro tempo a grattarvi le ginocchia. Si intende, quando non giuocate a zara.—

Rimasti soli davanti ai disegni di quel famoso artista che era piovuto dalle nuvole, i cinque scolari di mastro Jacopo avevano sfogliato il quaderno e guardato curiosamente ciò che formava l'argomento delle sue meraviglie. Si capisce alla bella prima che avevano trovato tutto mediocre. Non c'era franchezza di tocco; i contorni erano duri; gli atteggiamenti goffi; le pieghe così trite, che peggio non avrebbe fatto Cimabue nei suoi primi tentativi. Che cosa aveva inteso il maestro, proponendo loro ad esempio gli sgorbi di quel principiante? Di canzonarli, forse?

In quella che stavano guardando e criticando alla libera, uno di essi scappò fuori con un grido di stupore.

–Che cos'ha veduto, il Chiacchiera?—domandò Tuccio di Credi.—Forse il basilisco?

–In fede mia,—ripigliò il Chiacchiera,—questo non lo ha veduto di certo il maestro.

–Che cosa? Il basilisco?—disse ridendo il Granacci.

–Questo ritratto;—rispose il Chiacchiera, senza badare allo scherzo dei compagni.—Perchè, infatti, è un ritratto. Vedete qua!—

E levato dal quaderno il foglio che aveva destata la sua attenzione, lo pose sotto gli occhi della brigata.

C'erano parecchie figure disegnate su quel foglio; ma il Chiacchiera ne indicava una tra tante, che si vedeva nel mezzo, tirata giù alla brava, come una impressione momentanea. Avete già indovinato che era una figura di donna. Con due tratti di penna era segnata la veste, lunga, a larghe pieghe, accennate, anzichè delineate, da qualche zaffardata d'inchiostro. Le braccia, che escivano di sotto ai lembi frastagliati del manto, si raccoglievano sul taglio della vita, e la mano destra, sovrapposta all'avambraccio sinistro, sosteneva un piccolo uffiziuolo. Sulla testa era gittato un velo che scendeva fino agli òmeri e si confondeva col manto. I contorni della figura e i pochi segni con cui era accennato il viso, apparivan di persona viva, colta da una mano maestra, sull'atto di recarsi alla chiesa.

–Eh, che vi pare?—continuò il Chiacchiera.—Non la riconoscete?

–La figlia del maestro!—gridò Lippo del Calzaiuolo.

–To', è vero;—soggiunse Cristofano Granacci.—È madonna Fiordalisa.

–Infatti,—disse a sua volta Parri della Quercia,—è proprio lei, o una che le somiglia di molto. Ma perchè dicevi tu dianzi che il maestro non ha veduto questo disegno! È impossibile che non abbia riconosciuta la sua figliuola.

–Eh,—rispose il Chiacchiera, stringendosi nelle spalle,—in questo caso bisognerà dire che si è innamorato dello scolaro in grazia del ritratto che questi ha fatto della sua Fiordalisa. Già, l'ama tanto!

–Se non c'è bisogno d'altro, per entrar nelle grazie di mastro Jacopo,—esclamò Cristofano Granacci,—glielo facciamo tutti, il ritratto a madonna Fiordalisa.

–Credete che sia così facile?—entrò a dire Parri della Quercia.

–Perchè no? Che cosa c'è egli di tanto difficile?—ribattè il Granacci.

–Tutto;—rispose Parri.–Non avete osservato come ella si muta ad ogni momento?

–Già,—disse il Chiacchiera,—donna e luna, oggi serena e doman bruna.

–Non parlo dell'umore, parlo del tipo;—ripigliò Parri della Quercia.—È un tipo assai delicato, con una certa espressione, che non è sempre la stessa a tutte le ore del giorno.

–È vero, quel che dice Parri;—notò Lippo del Calzaiuolo.—Ci son de' momenti che non sembra più lei.—

Tuccio di Credi torse le labbra e diede un'alzata di spalle.

–Baie!—diss'egli–I contorni non si mutano mica così facilmente! Sarà quistione delle parti mobili, le labbra e gli occhi.

–Già, le labbra e gli occhi;—rispose Parri della Quercia.—E ti par poco! Ora, se un moto delle labbra, o un diverso grado di forza nello sguardo, basta a cangiarti l'espressione del volto, mi pare che la immobilità dei contorni non ci abbia nulla a vedere. Piuttosto è da chiarire quale delle due parti mobili ha maggiore virtù nel cangiamento del tipo.

–Dev'esser la bocca;—osservò Lippo del Calzaiuolo.

–Infatti,—disse il Chiacchiera,—quando madonna Fiordalisa sorride, vi apparisce due tanti più bella.

–Non si tratta di sapere quando apparisca più bella, poichè lo è sempre moltissimo;—replicò Parri della Quercia.—Io ho detto soltanto che ella vi muta espressione, e sembra avere un'altr'aria da quella di prima. È sempre lei, per chi la conosce, e tuttavia è un'altra bellezza. Il pittore che la ritraesse in uno di quei punti, crederebbe di non averla resa con verità, se la vedesse in un altro.

–Pure,—notò il Chiacchiera,—questo Spinello, che non è un pittore, e neanche un principiante, con due tratti di penna ce l'ha fatta ravvisare alla prima.

–Bella forza!—esclamò Tuccio di Credi.—È una somiglianza ottenuta nel complesso; buon per lui che non è andato ai particolari. La sua parsimonia gli ha fatto buon giuoco. Vedete qua; con due tratti di penna vi ha data un'aria di madonna Fiordalisa. Se ne avesse aggiunti altri due, gli sarebbe andato a male ogni cosa.

–Che diamine gli è saltato, di fare il ritratto alla figlia del maestro?—chiese Cristofano Granacci.

–Oh bella!—esclamò il Chiacchiera.—E stenti tanto a capirla? Ne sarà innamorato. È così naturale che un giovanotto s'innamori d'una bella ragazza! Domandane a Tuccio di Credi: egli ti risponderà….

–Che sei uno scimunito;—interruppe Tuccio di Credi, dando al Chiacchiera una guardataccia, che pareva volesse mangiarselo.

Ma il Chiacchiera non si spaventava per così poco.

–Oh, ecco,—gridò egli, ghignando,—ecco una riprova di ciò che ha detto Parri poc'anzi, sulla varietà delle espressioni. Guardate Tuccio di Credi, se non sembra tutt'altri. O Tuccio, chi ti facesse il ritratto in questo momento, in fede mia, non ti renderebbe un servizio.—

Tuccio di Credi, veduto così sottosopra, cioè computando l'una cosa per l'altra, poteva anche passare per un bel giovinotto. La carnagione, è vero, traeva all'olivastro; ma non è detto che l'olivastro sia un brutto colore, e ci son molti a cui simili impasti di giallo e di verde non dispiacciono punto. E poi, s'accordavano bene con quella tinta scura i capegli e le sopracciglia nerissime; di guisa che sotto quella vigoria di toni fuligginosi, l'olivastro delle carni poteva acquistare l'apparenza di un amabile pallore. Ma anche Tuccio di Credi aveva un tipo mobilissimo, che giustificava pienamente l'osservazione beffarda del Chiacchiera. Incominciamo a dire che nel suo volto si notavano due parti distinte, la superiore virilmente modellata, a contorni risentiti e gagliardi, l'inferiore timidamente condotta, quasi appena accennata. Si sarebbe detto che la natura, facendo quella testa, si fosse annoiata a metà dell'opera sua. Il naso, ad esempio, non era in proporzione con l'ampiezza della fronte; le labbra sottili e smorte mancavano di fermezza; il mento sfuggiva senz'altro. In quella faccia, fluita di mala voglia, c'era alcun che di stonato, che i pochi peli vani delle labbra e del mento non bastavano a dissimulare, e che la barba più folta non avrebbe potuto correggere. Anche gli occhi, neri, ma senza luce, dipinti di nerofumo, lasciavano qualche cosa a desiderare. Per solito, li vedevate poco; sfuggivano ad ogni esame. Quando Tuccio di Credi parlava con voi, quegli occhi guardavano sempre in basso e da un lato; poi, tutto ad un tratto, vi passavano dall'altro, senza che li aveste veduti fermarsi sui legacci del vostro giustacore. Osservando il rapido trapasso di quei due lumi spenti, pensavate involontariamente alla lucciola, che nel fosco della notte vi brilla trasvolando da destra, indi vi apparisce a sinistra, dopo esservi passata davanti alla chetichella, rattenendo il palpito della sua luce fosforica.

 

Mastro Jacopo, una volta aveva detto di lui:

–Tuccio di Credi non sarà mai un valente disegnatore. Un uomo che non guarda mai davanti a sè, può egli vedere quel che si faccia?

Alle beffe dal Chiacchiera. Tuccio di Credi aveva aggrottate le ciglia e si era morso le labbra. Indi, facendo spallucce, aveva risposto:

–Che grullerie! Basta che il primo venuto dica una cosa per chiasso, perchè tu ci fabbrichi subito un ragionamento. Già, non l'hanno battezzato il Chiacchiera per nulla. Oggi tu hai visto l'innamorato in una figurina di donna, e questo è anche peggio della trovata di Parri della Quercia. O che? Non si può egli vedere una bella ragazza per via, e sentire il desiderio di segnarne il profilo sulla carta, come si segna il profilo d'un frate che va alla cerca, o d'un cane che s'accosta al muro? L'uomo che vuole avanzare nell'eccellenza dell'arte, studia tutto quello che vede. E se gli capita di vedere qualche bella figura di donna, vuoi tu che chiuda gli occhi e dica: Domine salvum fac, come un santo eremita, esposto alle tentazioni del diavolo?

–Se almeno ce ne fossero due, qua dentro, di donne!—ribattè il Chiacchiera, che non voleva darsi per vinto.—Ma, a farlo a posta, non c'è che questa, non c'è.

–Non prova nulla.

–Prova moltissimo. Che non ci sian più belle donne, in Arezzo? O che abbiano presa l'abitudine di tapparsi in casa, quando passa il Giotto redivivo?

–Ah sì, Giotto ridivivo! Ben detto!—esclamò Lippo del Calzaiuolo.—Se ti sente mastro Jacopo, ti abbraccia e ti bacia sulle gote.

–Chi parla di mastro Jacopo?—gridò una voce, che mise lo scompiglio nella brigata.—E chi ho da baciar sulle gote, se è lecito?

–Maestro!—dissero i garzoni, tirandosi indietro mogi e confusi.

Il maestro si avanzò in mezzo al crocchio e vide il quaderno dei disegni di Spinello Spinelli.

–Ah!—riprese egli, con accento mutato.—Studiavate? Ammiravate anche voi quel che sa fare questo bravo giovinetto? Avanti, su, si faccia avanti quello che ho da baciar sulle gote, e mi dica cosa pensa di Spinello Spinelli.

–Maestro,—scappò fuori il Chiacchiera,—io non so se mi bacerete sulle gote, o se piuttosto non mi allungherete una pedata; ma dico, con vostra licenza, che questo Spinello ha voluto fare un ritratto, in questo piccolo schizzo.

–Orbene,—disse mastro Jacopo, rabbruscandosi;—e se avesse proprio voluto fare un ritratto, che ci vedreste di male voi altri?

–Niente, Dio guardi; niente nell'intenzione. Ma quanto all'esito del tentativo…. Vedete qua Tuccio di Credi, il quale sostiene che la somiglianza è tutta dovuta alla parsimonia dei tratti. Il vostro protetto ha trovata l'aria della figura, e nient'altro. Se dovesse fare un ritratto, si troverebbe molto impicciato.—

Mastro Jacopo crollò sdegnosamente le spalle.

–Eh via, lasagnoni! Quello è un giovane che, se vorrà fare un ritratto, anche da pittore novellino qual è, lo farà, in barba a tutti voi, quando avrete messo su barba.

–Parri della Quercia non è di questa opinione.

–Ah, Parri?… sentiamo qual è l'opinione di messer Parri della Quercia.—

Parri, così tirato in ballo dalla imprudenza del Chiacchiera, si fece modestamente a rispondere:

–Io, veramente, maestro, non intendevo di togliere i meriti al vostro nuovo scolaro. Non lo conosco ancora di persona, ma lo stimo già assai per questi tocchi di penna, che voi ci avete proposti ad esempio. Dicevo solamente che madonna Fiordalisa….—

Jacopo di Casentino diede un balzo e guardò il migliore de' suoi discepoli con aria tra maravigliata e scontrosa.

–Che c'entra madonna Fiordalisa?—diss'egli interrompendolo.

–Eh, c'entra in questo modo,—rispose Parri della Quercia,—che nei quattro tocchi di cui parlavamo dianzi, quando voi siete capitato…. Eccoli qua, del resto; non ci vedete il ritratto di madonna Fiordalisa? Almeno almeno, si può dire che arieggiano la sua figura.

–-Sia pure;—disse mastro Jacopo, col piglio di chi non vuol negare nè ammettere una cosa.—E che cosa dicevi tu dunque?

–Dicevo che madonna può riconoscersi in questi contorni, ma che questo non può dirsi un vero ritratto. Un ritratto della vostra figliuola io l'ho per la cosa più difficile del mondo, se non per avventura impossibile. Madonna Fiordalisa ha un'aria così mutevole!

–Aria mutevole! aria mutevole!—borbottò mastro Jacopo.—Non so che cosa intendiate di dire, con quest'aria mutevole. I vecchi pittori non le conoscevano, queste novità del vostro gergo.

–Maestro,—entrò a dire il Chiacchiera, vedendo che Parri della Quercia era rimasto mutolo,—sono le parti mobili del viso, che fanno di questi scherzi. Il viso ha le sue parti mobili; è l'opinione di Tuccio di Credi.—

Mastro Jacopo andava di meraviglia in meraviglia.

–Ah sì! Anche Tuccio di Credi ha un'opinione?—chiese egli, con accento sarcastico.

Tuccio di Credi fu toccato sul vivo da quelle parole, ma più dal tono canzonatorio con cui erano profferite.

–Che male ci sarebbe, maestro?—disse egli.—E che ci vedreste di strano?

–Niente, in verità; niente strano in voi altri. E non ci sarebbe neanche ombra di male, se almeno voleste prendervi il fastidio di lavorare. Siete lasagnoni, buoni a nulla…. Cioè, mi correggo; siete buoni a far chiacchiere; tanto che uno di voi ci ha buscato il soprannome. Ragionare di principii, far trattati, inventar dottrine, ecco il fatto vostro. Lavoro, vuol essere, lavoro, e poi sempre lavoro. Le ragioni dell'arte son qui, nel braccio e nella schiena; il resto non vale più che tanto. Fatemi la grazia di lasciare le ragioni dell'arte, i principii, i trattati, a coloro che sono invecchiati nell'operare. Anche voi, un giorno, quando sarete giunti a compieta, potrete dire ai giovani: così va fatto e così non va fatto. In nome di che? In nome della vostra esperienza. Senza di questa non ci son dottrine che tengano.

–Maestro,—osò dire il Chiacchiera,—voi restringete il campo dell'arte.

–Che campo m'andate voi sfringuellando? Il campo dell'arte! Ecco un'altra invenzione dei pittori parolai. Dovevate vederlo che cos'era il campo dell'arte, quando vivevano i grandi maestri. Non le si conoscevano mica, queste cianciafruscole ai bei tempi di Taddeo Gaddi e di Giotto!

–Giotto fu un rinnovatore dell'arte;—ribattè il Chiacchiera.—E noi dobbiam mirar tutti a fare del nuovo.

–Ah sì? E credete che sia possibile, far sempre del nuovo? Badate, lasagnoni, che le vostre novità non siano ritorni alle mosse. L'unica novità, che io possa raccomandarvi è questa: fate, fate, non vi stancate di fare. E per intanto smettete le ciance, che il fistolo vi colga!—

Ciò detto, maestro Jacopo si allontanò dal crocchio dando una poderosa alzata di spalle. Al quale atto il Chiacchiera rispose per tutti, facendo le boccacce. Poco stante si affacciava un giovinotto sull'uscio della bottega.

–È qui mastro Jacopo di Casentino?—chiese egli con aria peritosa.

–È qui;—rispose il Chiacchiera.—Che cosa volete da lui?—

Mastro Jacopo aveva udito la voce del nuovo visitatore, ed era subito escito sul limitare della sua camera.

–Oh, bravo, ragazzo mio, fatti avanti!—gridò egli.—Ti aspettavo. Eccoti in casa tua. Questi sono i tuoi compagni di lavoro; Tuccio di Credi, Parri della Quercia, Cristofano Granacci, Lippo del Calzaiolo, il Chiacchiera… cioè, diciamo prima il nome che ha avuto a battesimo, Angiolino Lorenzetti, e poi diremo quello che gli hanno appioppato le persone intendenti.—

Il giovane a cui erano presentati in quella forma gli scolari di mastro Jacopo, li salutò con un cenno grazioso del capo, indi soggiunse:

–Saremo amici, io spero.

–A voi, lasagnoni,—ripigliò maestro Jacopo,—salutate Spinello Spinelli, l'autore dei tocchi in penna che avete veduti poco fa. È un ragazzo che, se non si svia per cammino, farà parlare di sè.—

Gli scolari di mastro Jacopo s'inchinarono davanti a Spinello. Parri della Quercia gli stese la mano, dicendogli:

–Amico e fratello, se vi piace.—

Ma gli altri non si fecero così avanti, non si buttarono via come Parri della Quercia.

–Saremo amici, io spero!—ripeteva sommesso il Chiacchiera, rifacendo il verso del nuovo venuto.—Vedete che degnazione! O che si crederebbe, per caso, d'essere il duca Namo di Baviera?

–O il Saladino;—soggiunse Lippo del Calzaiolo.

–Sarà poi Calandrino, e nulla più;—conchiuse Cristofano Granacci.

Tuccio di Credi non disse nulla; ma dentro di sè pensava:

–Amico tuo! Sei sciocco, affè mia, se lo speri!—

III

Abbiano la mala pasqua i pessimisti, gli scettici, ed altri filosofi di tal fatta, i quali sostengono che l'uomo sia un animale invidioso per natura, e che le nostre buone qualità sieno solamente effetto di paziente educazione, come a dire di strofinamento e di verniciatura.

Grazie al cielo, e con licenza dei filosofi sullodatì, ci sono ancora delle anime intimamente buone, la cui virtù è frutto di generazione spontanea, non già conseguenza d'innesto sapiente, o d'arte giudiziosamente educatrice. E ci sono altresì degli uomini che non soffrono il male dell'invidia, neanche (e questo è meritorio da parte loro) quando vedono che Tizio o Caio ha ingegno o attitudine da superarli di gran lunga, in questa o in quella disciplina.

Vedete, ad esempio, il nostro bravo messer Jacopo di Casentino. Il vecchio scolaro di Taddeo Gaddi, il degno continuatore della tradizione di Giotto, indovinava facilmente che quel giovinottino da lui preso a bottega, quando avesse fatto un tantino di pratica nel maneggio dei pennelli, sarebbe diventato di schianto un artista insigne, un maestro, da lasciarsi addietro i migliori del suo tempo. E per lui, per quell'aquilotto che metteva appena i bordoni, mastro Jacopo aveva smosso il suo piglio burbero; per lui trovava le parole amorevoli, la placida assiduità degli insegnamenti, la ineffabile tenerezza dei conforti paterni.

Due sentimenti diversi lo persuadevano a ciò. Il primo era quello dell'ambizione. Esser maestro ad un discepolo che non aveva punto mestieri di rimproveri e così poco di incitamenti a far meglio, poter raccomandare il suo nome ad un nuovo argomento di gloria, eccovi l'ambizione di mastro Jacopo; ambizione legittima, e, quel che più monta, di effetto sicuro, si sarebbe detto un giorno: Spinello Spinelli, il famoso pittore d'Arezzo, era scolaro di Jacopo da Casentino. Degno del maestro il discepolo! E se pure si fosse dovuto dire: migliore del maestro la gran pezza, sarebbe stato poi un gran male? Avere indovinato un ingegno potente, averlo tratto dall'oscurità, avergli per così dire adattate le ali agli omeri, non è forse una gloria, un titolo di merito al cospetto dei posteri, specie quando un simil titolo si può metter di costa ad altri parecchi?

Ora, che mastro Jacopo di Casentino non s'ingannasse in questi suoi sogni ambiziosi, la storia dell'arte italiana lo ha dimostrato. La fama di Spinello Aretino ha confermata, se non per avventura accresciuta, la fama del suo vecchio maestro.

L'altro sentimento era d'indole affatto domestica. Gli dò mia figlia;—diceva tra sè mastro Jacopo.—Bello lui, come essa è bella: ha ingegno, salirà presto in eccellenza d'arte; avrò in lui un aiuto maraviglioso; prospererà la mia scuola; Arezzo contenderà la palma a Firenze….—

E qui mastro Spinello….Ma via, non precipitiamo nulla, raccontiamo le cose per filo e per segno, non mettiamo il carro avanti ai buoi.

Madonna Fiordalisa, ve l'ho già detto, si dimostrava umana col nuovo discepolo dì suo padre. Più volte nel corso della settimana, o con un pretesto o con l'altro, Spinello Spinelli era invitato a desinare dal maestro; onore che toccava di rado agli altri compagni suoi di bottega. Qualche volta anche lei discendeva al pian terreno; e certamente più spesso che non le accadesse da prima; ora per avvertire il babbo che si dava in tavola, ora per chiedergli il suo parere su questo o su quel particolare d'economia domestica, ed anche, perchè bisogna dir tutto, anche senza una ragione sufficiente per scendere. Ma già deve trovarla sempre, e per ogni cosa, la ragione sufficiente? I filosofi, che hanno voluto metterla come fondamento dei loro sistemi, si sono trovati anch'essi il più delle volte impacciati.

 

E Spinello ardeva; e l'interno ardore gli traluceva dagli occhi. Voi lo sapete, lettori, perchè di lì ci sarete passati un giorno anche voi; l'amore e la tosse si nascondono male. Anche madonna Fiordalisa nascondeva male il senso che faceva su lei l'amore di Spinello Spinelli; anzi, non lo nascondeva affatto. Perchè avrebbe dovuto nasconderlo? Non era nato, quell'affetto, e non cresceva forse liberamente sotto lo sguardo benevolo di suo padre? Era da principio un po' timida; poi, nel ravvisare la stato del proprio cuore, si era fatta contegnosa. Ma queste deboli difese, pari alle fortificazioni improvvisate lì per lì da un esercito in aperta campagna, durano appena quel tanto che basti ad una semplice ricognizione. E madonna Fiordalisa non aveva durato fatica a riconoscere che quel gentile e modesto innamorato non era altrimenti un ingannatore. Si sentì raffidata e gli diede senza contrasto il suo cuore. Dolce abbandono, che non è turbato da nessun sospetto, da nessuna paura!

Mentre faceva quei progressi nel cuore di lei, e forse per la stessa ragione che li faceva, il nostro Spinello avanzava rapidamente nella disciplina che aveva con tanto ardore abbracciata. Imparava facilmente quel che oggi si chiama il meccanismo dell'arte. Sapeva come si dovessero unire i colori, a fresco e a tempera, o come si avessero a dipingere le carni e i panni, per modo che ne venisse rilievo e forza alle figure, mostrando l'opera chiara ed aperta; conosceva quali colori si dovessero usare nel dipingere a fresco, cioè tutti di terra e non di miniere; con che risolutezza di mano si avesse a condurre il lavoro, prima che l'intonaco del muro potesse disseccarsi, e qual forza dovesse dare al colore, perchè le tinte, mentre che il muro è molle, mostrano una cosa in un modo, che poi, secco il muro, non è più quella di prima. Ed altre cose aveva prontamente imparate, con potenza di desiderio, anzichè per pratica; del dipingere a tempera, cioè col rosso dell'uovo e col latte del fico mescolati nei colori; del dipingere a chiaroscuro, contraffacendo le cose di bronzo: e finalmente del fare gli sgraffiti sulle mura, per modo che reggessero all'acqua piovana.

E tutto ciò senza rifarsi pure una volta ai principii. Tirato dalla sua inclinazione a schizzare dal vivo, od altrimenti dal naturale, Spinello Spinelli era già andato molto innanzi nel disegno, esprimendo col lapis rosso di Lamagna, o col nero di Francia, figure, atteggiamenti, partiti di pieghe, od altro che gli toccasse l'animo. Così lavorando, aveva acquistato una maravigliosa destrezza a fare con la penna i dintorni delle cose vedute, dando le velature e le ombre con una tinta dolce, che otteneva dall'inchiostro stemperato nell'acqua. E da ultimo, come abbiamo veduto dai disegni suoi, che erano andati sotto gli occhi di mastro Jacopo, faceva ogni cosa a tratti di penna, lasciando che i lumi delle figure fossero resi dal bianco della carta.

Del resto, in quei cominciamenti della pittura mancavano i grandi esemplari da proporre ai discepoli, e ognuno ritraeva dal vero, portando nell'opera quei medesimi difetti e qualità, che erano nell'occhio di ciascheduno, e nel suo modo particolare di veder la natura. Che se a voi, lettori discreti, paresse strano il caso di tanti pittori i quali vedevano la figura umana più smilza del naturale, di guisa che nei dipinti di quel secolo non si scorge ombra di quella pienezza di forme che è tanto comune in natura, io vi pregherò di ricordare che quei bravi rinnovatori dell'arte escivano allora dagli stecchi della pittura bisantina, e, per vedere tutto il vero nel vero, dovette mancar loro il coraggio. Natura non facit saltum, si è detto; anche l'arte ha dovuto andare per gradi.

Per contro, se i pittori della scuola di Giotto davano ancora troppo nello smilzo, avevano già la cura lodevole del finito; laonde se i corpi delle loro figure, asciutti come sono, accusano la povertà degli studi anatomici, la espressione dei volti e diligenza nel disegnare le estremità, ci appalesano quel sentimento profondo della verità, che doveva rifare di sana pianta le arti figurative e non far rimpiangere al mondo la perdita dei capolavori di Apelle e di Zeusi.

Ho detto, e ritorno a Spinello Spinelli. Il quale, vedendo operare mastro Jacopo di Casentino, si accese del desiderio di dipingere a fresco, che era in quei tempi il sommo dell'arte. Ma tacque il suo pensiero, che gli pareva troppo audace, anzi temerario senz'altro, e si restrinse ad osservare il modo con cui mastro Jacopo preparava i cartoni, ringrandendo a vaste proporzioni i suoi disegni, e qualche volta, ad ottenere i giusti effetti di luce e d'ombra, facendo modelli di creta, i quali disposti in una data azione tra loro, lasciavano vedere gli sbattimenti, i rilievi, e tutte l'altre particolarità di cui si vantaggia la prospettiva d'un quadro.

Tre mesi erano scorsi dacchè Spinello viveva al fianco di mastro Jacopo, e il giovinotto, a mala pena ventenne, aiutava già il principale negli affreschi del Duomo Vecchio, di quel Duomo in cui per la prima volta aveva veduto madonna Fiordalisa. S'intende che Spinello tratteggiava sull'intonaco i disegni del maestro, e sotto gli occhi di lui ci metteva il colore.

Immaginate voi come si struggessero di rabbia i compagni di Spinello. Escludiamo, per altro, il povero Parri della Quercia, modesto e buon giovane, il quale non si sentiva nato per la grand'arte dell'affresco e si contentava di lavorare a tempera certi trittici, e pale d'altare, che erano commesse a mastro Jacopo da qualche pieve, o da qualche oratorio del contado. L'affresco voleva ardimento d'ingegno, franchezza di mano, sicurezza di giudizio. e tante altre belle qualità, che non erano nell'indole di Parri. Ma gli altri discepoli di mastro Jacopo, assai meno valenti di Parri della Quercia, erano anche assai meno modesti di lui, e si rodevano di vedere quel nuovo venuto, che si spingeva in brev'ora tanto innanzi nel magistero dell'arte, e, quel ch'era peggio, nelle grazie del maestro.

Un giorno, essendo Spinello a lavorare sulle impalcature del Duomo, in compagnia di mastro Jacopo, questi gli disse di punto in bianco:

–Ragazzo mio, è tempo che tu voli da te.

–Volare da me!—esclamò il giovine levando gli occhi dal muro, per guardare il maestro.—Che intendete di dire?

–Mi sembra di parlar chiaro;—ripigliò mastro Jacopo.—Il tuo ingegno ha messe le penne maestre; puoi volare senza aiuto di chicchessia.

Spinello si fece rosso, chinò la fronte e rispose:

–Maestro, al fianco vostro ho un cuor da leone. Ma da solo! Ci pensate voi! Non mi avverrà egli dì fare come quell'Icaro di Creta, che perse le penne e andò a sommergersi in mare?

–Vedete la modestia, che è andata a stare ad uscio e bottega coi giovani!—gridò mastro Jacopo, ridendo.—Ma sia pur giusto il paragone che tu fai delle tue ali con quelle d'Icaro. Nessuno ti dice che tu abbia a discostarti dal tuo maestro, dal tuo secondo padre. Lavorerai sotto i miei occhi, se Dio vuole, e baderai sempre ai miei consigli. Hai risolutezza di mano e buon giudizio per fare da te. Vuoi? C'è da dipingere, nella cappella qui presso, un Miracolo di san Donato. L'opera è di grande rilievo, perchè il santo è qui in casa sua; ma ho fede che te la caverai con onore.

–Maestro, e se mi fallisse la prova? Vorranno poi i massari della chiesa commettere a me un'opera di tanta importanza?

–Non lo sapranno che poi;—rispose mastro Jacopo, dando un'alzata di spalle.—E noi cancelleremo il dipinto, se non riescirà secondo le speranze che io ho concepite di te.—

Spinello tuttavia esitava.

–Bell'ardire!—esclamò mastro Jacopo,—Così ami tu Fiordalisa?—

All'udire quelle parole, Spinello si scosse e il cuore gli diede un balzo nel petto. Figuratevi! Era la prima volta che mastro Jacopo gli parlava di sua figlia. E per la prima volta ne diceva abbastanza, non vi pare?