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Il ritratto del diavolo

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IV

Le avete mai viste, le pecore matte, che Dante Allighieri, esule vagabondo, ha osservate tante volte e descritte nel poema sacro? Escono dal chiuso, ad una, a due, a tre, si seguono alla cieca e ciò che fa la prima fanno tutte le altre, anco se si tratti di andar sullo scrimolo d'un precipizio, a risico di fiaccarsi il collo tutte quante.

I garzoni di mastro Jacopo non potevano mandar giù la fortuna del nuovo venuto e meditavano una grande risoluzione. Escludo dal numero Parri della Quercia, che non partecipava alle loro malinconie per dolcezza di carattere, e Tuccio di Credi che aveva scagliato il sasso e nascondeva la mano.

Parri della Quercia, come vi ho già detto, era onesto e riconosceva l'ingegno di Spinello Spinelli. Ma egli era d'animo mite, e per conseguenza un po' timido. Il suo giudizio lo portava a vedere di primo acchito il bene ed il male; la sua indole lo faceva alieno da ogni resistenza e desideroso di tirarsi sempre in disparte. Egli era uno di quegli uomini che conoscono il mondo, o l'indovinano, e non vogliono prender gatte a pelare. Amava l'arte sua e l'esercitava con diligenza, che è come a dire senza ardore soverchio. Di certo, anche se fosse vissuto cent'anni prima, non sarebbe stato lui che avrebbe liberata la pittura dalle pastoie bisantine; ma si può ammettere che, vivendo a lungo, sarebbe giunto a dipingere le più aggraziate Madonne e i Cristi meno arcigni dello stampo antico. Nato nel secolo decimoquarto e fatto discepolo dei novatori, andava sulla falsariga dei Giotteschi, senza vedere più in là. E quale era l'artista, tale era l'uomo. Buono e cauto, giudizioso e misurato in ogni cosa sua, dissimulava con la dolcezza dei modi il vizio organico che doveva condurlo pochi anni dopo alla tomba. E voi potete intendere da questo come avvenisse che Parri della Quercia lasciasse correre le bizze dei compagni, senza riscaldarsi il sangue a metterli in pace.

Quanto a Tuccio di Credi, avete veduto come egli, dopo aver data la notizia e lasciato cadere il sospetto, si fosse affrettato a dire che la cosa non poteva esser vera, e che Spinello Spinelli era un ingegno nato di schianto, una nuova speranza dell'arte. Si era egli ricreduto, parlando? O seguiva in ciò il filo d'un riposto disegno?

Comunque fosse, Lippo del Calzaiolo, Cristofano Granacci e Angiolino Lorenzetti, detto il Chiacchiera, non avevano mestieri del suo aiuto per dar di fuori; erano giunti a tal segno, che le sue esortazioni pacifiche, se pure egli avesse creduto di farne, avrebbero sortito un effetto contrario.

–La vedete così?—aveva detto in fine Tuccio di Credi.—Accomodatevi. Io, poveretto, non ho come voi la fortuna di essere cercato altrove, e debbo contentarmi di questo pane. Quando si ha bisogno, conviene baciar basso.—

I tre arrabbiati avevano fatto consiglio. Non volevano saperne di restare a bottega di mastro Jacopo; sentivano la voglia matta di abbandonare una scuola in cui non s'imparava nulla, e si era costretti a vedere la fortuna degli altri. Il Chiacchiera ebbe il mandato di parlare per tutti.

La mattina vegnente, mastro Jacopo di Casentino, nell'escir di bottega per recarsi al Duomo vecchio, disse ai giovani, che stavano lavorando:

–Avete sentito? Ci ho allegrezze in famiglia, e voi siete invitati per domenica a mangiare il pan forte.—

Mastro Jacopo, a dirvela schietta, non ripeteva di buona voglia l'invito. Gli sapeva male che non ne avessero parlato essi per i primi, poichè Tuccio di Credi li aveva avvertiti d'ogni cosa; parendogli giustamente che un maestro, un principale, avesse diritto a quella piccola attenzione da parte loro.

I giovani stettero a sentirlo e si guardarono alla muta tra loro. Era venuto per Angiolino Lorenzetti il momento di far onore al suo soprannome di Chiacchiera. Egli, perciò, smise di macinar colori, la sola occupazione in cui valesse qualche cosa, e così rispose al maestro:

–Vedete che caso! Dobbiamo rinunziare a questo piacere.

–Come?—gridò mastro Jacopo.—Che cos'è questa novità?—

E guardava gli altri, frattanto, come se aspettasse da loro la spiegazione di quelle parole del Chiacchiera. Ma gli altri stavano zitti. Il Chiacchiera riprese il discorso per tutti.

–Ecco qua, maestro;—diss'egli;—si tratta d'un disegno che abbiamo fatto in tre, cioè io, persona prima, Cristofano Granacci e Lippo del Calzaiolo. Ce ne andiamo.

–Ve ne andate?—esclamò mastro Jacopo sgranando gli occhi.—E perchè, se è lecito saperlo?

–Anzi, è obbligo nostro il dirvelo;—rispose il Chiacchiera con aria di umiltà meravigliosa.—Quantunque, a dir le cose come stanno, tre lasagnoni, come siamo noi, tra fannulloni….

–È vero, perdiana!—interruppe mastro Jacopo.—Per la prima volta in tua vita, hai detto una verità.

–Eh, che volete, maestro? A furia di sentirle dire, s'imparano;—replicò il Chiacchiera, con ironico accento.—Ma vedete un po' che combinazione! C'è al mondo qualcheduno che non la pensa come voi, Agnolo Gaddi, per esempio, che sta a Firenze, e sarebbe disposto a prendere con sè Lippo del Calzaiolo; il Giottino, di Firenze, e il Berna, di Siena, che farebbero a spartirsi il nostro Cristofano Granacci.

–Ah!—esclamò il vecchio pittore inarcando le ciglia.—Quei tre valentuomini hanno posto gli occhi su voi?—

Cristofano Granacci e Lippo del Calzaiuolo risposero asciuttamente con un cenno del capo.

–Non me ne congratulo con loro;—ripigliò mastro Jacopo, poi ch'ebbe veduta la mimica.—Sentiamo ora, poichè non mi hai detto tutto,—soggiunse, volgendosi al Chiacchiera,—sentiamo ora chi sia disposto a prender te, succiaminestre!

–Oh, non vi date pensiero per me! Io vado dove mi pare. Il primo che capita, mi servirà. Che cosa si fa qui, alla fine? Si macina, si mestica, s'incollano i cartoni, si fanno le imbasciate, si apre e si chiude la bottega; insomma, un servizio da fanti, non una scuola da pittori. Scusate, mastro Jacopo; io sarò un succiaminestre, un mangiapane, tutto quel che vorrete, ma ho l'uso di chiamare ogni cosa per il suo nome. Che cosa ci stiamo a far qui? In che modo ci avete voi insegnati i principii dell'arte?—

Mastro Jacopo cascava dalle nuvole, a tanta audacia di discorso. Già era sul punto di mandarli tutti e tre al diavolo, per la più spiccia; ma le ultime parole, che racchiudevano un'accusa formale, lo toccarono sul vivo.

–Per l'anima di…—gridò egli, dando di fuori senz'altro.—Che cos'è quest'accusa che voi mi fate? Credete voi che l'arte s'insegni come il leggere, scrivere e far di conto? Bietoloni! Anch'io sono stato a scuola, e ricordo come insegnava Taddeo Gaddi, che a sua volta ricordava come insegnasse Giotto di Bondone. Macinavo, mesticavo, aprivo la bottega e la chiudevo, come voi; facevo le imbasciate del maestro, maneggiavo la granata, secondo il bisogno, e molto più che non maneggiassi i pennelli; insomma facevo ogni più umile ufficio come voi. Con questa differenza, per altro; che voi vi lagnate, ed io non mi lagnavo; che voi non intendete nulla di nulla, ed io cercavo di profittare degli esempi che avevo sott'occhio. Guardando ciò che il maestro faceva, io, bene o male, e mettete pure che fosse male, ho imparato a fare anch'io qualche cosa. Indovinavo, dov'era facile indovinare, e quello che non intendevo alle prime, chiedevo al maestro. È dei maestri il rispondere, non già il sapere da bel principio quel che si debba insegnare ai giovani. Avete capito, lasagnoni? Si può egli instillare per via di precetti quello che la natura dà all'uomo di cogliere dall'esempio quotidiano? Per precetti s'insegna la grammatica, non l'arte del dipingere. Ora, quale è stato il vostro costume, in bottega? Mi avete voi mai domandato come si facesse la tal cosa, o perchè si facesse la tal altra? Avete voi posto mai attenzione a ciò che facevo io? Non lo so; ma se bado all'esito, mi pare di poter dire che non avete guardato mai, come non avete mai chiesto. E allora, di che vi lagnate?—

Il Chiacchiera lasciò passare quella folata di parole, indi rispose:

–Oh, non a tutti i vostri scolari avete lasciato la cura d'imparare da sè.

–Non a tutti! Lo credo, io,—replicò mastro Jacopo.—Tuccio di Credi, per esempio, e Parri della Quercia, hanno saputo cavar profitto dei loro occhi. Perciò mettete pure che io, vedendoli più attenti di voi, li abbia consigliati qualche volta. Perchè non avete fatto come loro? Vi avrei consigliati ugualmente.—

Il Chiacchiera rispose all'argomento con una crollatina di testa.

–Non si parla di Tuccio, nè di Parri;—diss'egli poscia.—Si parla di Spinello Spinelli, del nuovo venuto, del vostro futuro genero. Quello è il vostro beniamino, mastro Jacopo, o ch'io non so più che cosa sia un beniamino. Vi capita in bottega con quattro scarabocchi, e voi v'innamorate subito di lui, come Cimabue s'è innamorato di Giotto.

–Benissimo detto; come Cimabue!—ripigliò mastro Jacopo.—Infatti, Spinello Spinelli meritava tutto quello che ho fatto per lui. Che ci trovate a ridire, voi altri?

–Nel vostro capriccio, nulla. Della sua pasta può far gnocchi ciascuno. Ma il modo!… Vedete? È il modo, che ci offende. Spinello Spinelli viene da voi con un fascio di tocchi in penna. Bellissime cose, degne di Giotto; lo ammetteremo anche noi, se può farvi piacere. Ma come va che tre mesi dopo la sua venuta a bottega egli passa avanti a Tuccio e a Parri, che sono con voi da tre anni? Come va che egli è già così addentro nel maneggio dei colori, da mettere il pennello nei fondi delle vostre composizioni?

–Nei fondi, l'hai detto tu, nei fondi!—gridò mastro Jacopo, con accento di trionfo.

–Eh!—ripigliò il Chiacchiera, che oramai era in ballo e voleva spendere il suo ultimo grosso; se non si trattasse che dei fondi!… Ma voi avete fatto assai più, mastro Jacopo. A questo pittor novellino, gli avete commesso un'opera di molta importanza, che era stata allogata a voi dai massari del Duomo.

 

–Ah, tu sai anche questo?—borbottò il vecchio pittore, un tal po' sconcertato.

–Sicuro, che lo so. Lo sa tutta Arezzo, lo sa.—

Mastro Jacopo si strinse nelle spalle.

–Ci ho gusto;—diss'egli,—Così non avrò più mestieri di dar la notizia a nessuno. Spinello si farà onore; questo è l'essenziale.

–Col vostro aiuto, maestro, non si dubita punto dell'esito;—ribattè gravemente il Chiacchiera.

–Che intenderesti di dire, manigoldo?

–Quello che voi avete già indovinato;—replicò l'impertinente scolaro.—Alle corte, qui c'è un salto troppo grande, per gli stinchi del vostro beniamino. Dai tocchi di penna all'affresco! E senza aver fatto nel frattempo nulla che meriti di essere osservato! Neanche una testa! Perchè noi—proseguì il Chiacchiera, riscaldandosi,—noi non gliel'abbiamo mica veduto fare, uno studio dal naturale, dal vivo! Se pure non vi piaccia di contare come uno studio dal vivo il profilo di madonna Fiordalisa!…

–Ah, ho capito!—esclamò mastro Jacopo.—Perchè non dirlo prima, che eravate gelosi? Ma io, vedete, mia figlia la dò a chi mi pare. E se anche avessi voluto romperle il collo con uno di voi, non mi sarebbe mica riescito di contentarvi tutti!

–No, maestro, disingannatevi, non siamo gelosi niente affatto;—rispose il Chiacchiera.—Siamo pieni di rispetto per madonna Fiordalisa, e fermi lì. Del profilo fatto dal vostro Spinello se ne parla ora, per dirvi, anzi per tornarvi a dire, che non era un ritratto. Spinello ha indovinata l'aria della figura e nient'altro. Se dovesse fare un ritratto, si troverebbe molto impacciato.

–Sì, sì, vecchia storia;—borbottò mastro Jacopo;—ed io v'ho risposto fin da principio che se Spinello vorrà fare un ritratto, lo farà, in barba a tutti voi, scimuniti!

–Non quello di madonna Fiordalisa, per altro:—ribattè il Chiacchiera, che trovava un gusto matto a contraddire il maestro.—Parri della Quercia e Tuccio di Credi, che stanno cheti come l'olio, vi hanno pur detto come e perchè un ritratto di madonna Fiordalisa non sia dei più facili.

–Ho capito, ho capito; ritornate in campo coi vecchi dirizzoni. Ma appunto per dar noia a voi altri, Spinello farà il ritratto della sua fidanzata, e voi resterete con un palmo di naso.

–No, maestro, non resteremo:—rispose beffardo il Chiacchiera.—Vi ho già detto che non si conta di rimanere in Arezzo. Quanto a me, se avete comandi per Firenze….

–Vai dove ti pare, che il fistolo ti colga;—interruppe mastro Jacopo.—E quando fai conto di levarci l'incomodo?

–Oggi stesso. Il tempo di prendere le mie bazzicature, e vi servo sull'atto.

–Ottimamente;—brontolò il vecchio pittore.—E voi altri?—

La domanda era rivolta a Cristoforo Granacci e a Lippo del Calzaiolo. Ambedue furono pronti a rispondere:

–Con lui, maestro; alla medesima ora.

–E andate,—tuonò il maestro, dando un'alzata di spalle,—andate con lui, e col malanno che il ciel vi dia.—

Fu questo il commiato di mastro Jacopo di Casentino ai suoi degni scolari, Angiolino Lorenzetti, detto il Chiacchiera, Lippo del Calzaiolo e Cristofano Granacci.

Mastro Jacopo era in collera per la mancanza di rispetto di cui gli avevano dato prova quei tre sciagurati; non già per la loro andata, che lo liberava da tre fannulloni, veri impicci, non aiuti in bottega. Perciò, vi sarà lecito di argomentare che egli dovesse consolarsi ben presto. Era già più tranquillo nell'entrare in Duomo, dove lo aspettava il suo pezzo d'intonaco, preparato di fresco. Ma egli non volle andare al suo trespolo, senza aver veduto Spinello, che lavorava già da due ore, intorno al suo Miracolo di san Donato. Bell'opera, in verità; ci si vedeva un'aggiustatezza di parti, una vigoria di colore, una sicurezza di fare, che teneva del maraviglioso.

–Che bricconi!—pensò mastro Jacopo, giunto sulla impalcatura del ponte.—Ecco qua un bravo giovane, che è nato pittore com'io son nato maschio. Si può egli far meglio di così? E gl'invidiosi a perfidiare!… Andranno a raccontare a Siena e a Firenze, al diavolo che li porti, che io gli ho dato il disegno; anzi peggio, che io gli ho fatto da capo a fondo il lavoro! E ci sarà della gente che lo crederà! Che cosa non crede, la gente? C'è anzi da maravigliare che i bugiardi non siano più ricchi d'invenzioni, con tanta facilità che c'è nel mondo di credere ogni cosa peggiore.—

Spinello udì il brontolio e si volse a guardare.

–Oh, maestro, siete voi? Che cosa dicevate?

–Nulla, nulla; borbottavo da me;—rispose mastro Jacopo.—Sai pure, è il vizio dei vecchi!

–Credevo che trovaste a ridire nel mio pasticcio, e ne ero già tutto contento.

–Contento! O perchè, se è lecito!

–Perchè voi non mi riprendete mai, mentre io sarei tanto felice di avere i vostri consigli, le vostre ammonizioni.

–Consigli! Ammonizioni! Tu non hai mestieri nè di quelli, nè di queste.

–Voi siete troppo buono, con me. Ma io, vedete, non son mica molto contento de' fatti miei;—disse modestamente Spinello.—Ho una gran paura che mi riesca un imbratto. Quando ho incominciato a mettere i colori, mi pareva d'aver fatto una bella cosa; ma ora… ora mi sembra una miseria. Quest'azione così povera!…

–O che volevi fare? La battaglia di Montaperti?—esclamò mastro Jacopo, ridendo.—È un miracolo della fede, quello che tu dipingi. San Donato ha un atteggiamento mosso, ma non da spiritato, che non ce ne sarebbe bisogno. Egli non ha fede in sè stesso, ma nell'aiuto di Dio, e questo lo rassicura, lo fa stare tranquillo. Il popolo, nel fondo del quadro, cede al sentimento della paura, ed è naturale, poichè esso non ha la fede così profonda come il Santo. Ma qui appunto è la bellezza del contrasto. Non è forse il contrasto che tu hai voluto, nell'ideare il tuo quadro?

–Sì, questo ho voluto, proprio questo;—rispose candidamente Spinello.—Ma forse…il contrasto m'è venuto troppo forte, e ne deriverà un po' di confusione nelle linee.

–Di che ti tormenti? Va bene così. La figura del Santo è nel primo piano; la moltitudine è nel terzo, con una intonazione di colore meno gagliarda. Ciò che cresce in movimento di linee si scema in effetto di tinte. Non pensavi a questo, mettendoti a dipingere?

–Sì, ci ho pensato; pareva anche a me che dovesse farsi così, per ottener la fusione delle parti.

–O allora?—gridò mastro Jacopo, appoggiando la frase con una delle sue solite spallate. —Va pur là, ragazzo mio! Hai fatto bene, ti dico, e crepino gli invidiosi.

–Invidiosi! perchè mi dite voi ciò? Posso io avere degli invidiosi!

–Se ne hai! Oh, se ne hai! Tre, per esempio, che schiattano di rabbia, e se ne vanno dalla nostra bottega oggi stesso.—

Spinello, turbato dall'annunzio inatteso, lasciò di lavorare, per volgersi tutto sul trèspolo, e chiedere con la muta eloquenza del gesto i particolari di quella novità.

–Sicuro,—proseguì mastro Jacopo.—Ai tre manigoldi gli dava noia che tu dipingessi a fresco nel Duomo. In che modo l'abbiano risaputo, lo ignoro. Ma già, a tenerle nascoste, certe notizie! Insomma, ti accusano di non esser buono a nulla, di esserti fatto fare il bozzetto, i cartoni e tutto l'altro da me….Da me, capisci? da me, che non ho avuto neanche da darti un consiglio. Bricconi! Ma gliel'ho detto, io, il fatto loro. E se ne sono andati col malanno, e mi hanno levato un gran peso dallo stomaco.

–Io spero che tra costoro non ci sarà Parri della Quercia;—balbettò Spinello.—Egli, almeno, che ha un'aria così buona!…

–No, non c'è lui. E neanche Tuccio di Credi. Quello là non ha un aspetto molto piacevole; ma gli è come le pere spine, brutte di fuori e buone di dentro. I tre fannulloni insolenti, che mi levano l'incomodo, sono il Chiacchiera, il Granacci e Lippo del Calzaiolo. Vadano pure; io sarò lieto di non sentirne più nuova, nè canzone.—

Spinello Spinelli ripigliò il lavoro interrotto, ma più per necessità di colorire il suo pezzo d'intonaco finchè gli era fresco, che per voglia che n'avesse. Era mortificato, il povero giovane, vedendo che per cagion sua il vecchio maestro perdeva tre scolari in un colpo. Veramente, come discepoli, contavano poco; ma Jacopo dì Casentino li adoperava utilmente come fattori, e la mancanza loro doveva farsi sentire in bottega. Il beniamino di mastro Jacopo non si consolò di quel danno che a mezzo, dopo aver fatto un esame di coscienza e riconosciuto che egli non ci aveva ombra di colpa. Infatti, egli si era sempre studiato di piacere a quei tre, come agli altri compagni di lavoro; li aveva sempre trattati con urbanità, e più volte era giunto perfino ad implorare la loro amicizia, con quella spontaneità di gentilezza che è così naturale tra i giovani, ma che essi avevano ricambiata con assai poca sollecitudine.

La bottega di mastro Jacopo era triste, quando Spinello rimise il piede là dentro, ritornando dal Duomo. Ci mancavano le lingue meglio snodate, le lingue dei tre fannulloni, che qualche volta facevano perdere la pazienza al principale.

Spinello andò incontro a Parri della Quercia, che stava seduto davanti al cavalletto, copiando una Madonnina del maestro.

–Se sapeste come sono dolente di ciò che è accaduto!—gli disse.—Ma voi, almeno, penserete che io non ci ho colpa, non è vero?—

Parri lasciò un tratto il pennello e stese la mano al nuovo venuto; indi brevemente rispose:

–Ci vuol pazienza!—

Non era molto, come vedete, e si poteva pensare che Parri della Quercia mirasse a non guastarsi con nessuno. Ma quella stretta di mano rimediava alla brevità del discorso.

Lasciato Parri al suo lavoro, Spinello andò oltre, per avvicinarsi a Tuccio di Credi, che macinava colori in un angolo.

Tuccio non gli diede neanche il tempo di aprir bocca.

–Di che vi dato pensiero?—gli disse.—Son tre fattori che se ne vanno; ma restiamo ancora in tre, per fare il lavoro di tutti. Non ci sarà mica bisogno di chiudere bottega. Io, come vedete, ho già incominciato a far la parte del Chiacchiera; anzi, fo meglio di lui, perchè macino di più e chiacchiero meno. Credete a me, Spinello; in questo mondo, non c'è nessuno di necessario.

–Avete ragione,—rispose Spinello;—anch'io, se permettete, vi aiuterò. Anch'io adopero troppi colori, e non è giusto che voi lavoriate per me. Ma in fondo in fondo,—soggiunse, tornando al primo argomento,—mi sa male che quei poveri giovani abbiano lasciata la bottega.

–Che! Non li compiangete troppo. Son certi arnesacci, capaci di stare più allegri, senza di noi, che con noi. Del resto, troveranno da allogarsi a senno loro. Una cosa dovete far voi; ridere, come essi fanno di sicuro, in questo momento, all'osteria del Greco, bevendo il bicchiere della staffa.

Spinello pensò che Tuccio di Credi era un buon diavolo, ad onta della sua faccia scura. E ricordò il discorso di mastro Jacopo, che lo aveva paragonato alle pere spine, brutte di fuori e buone di dentro.

–Quando si dice l'apparenza!—conchiuse egli tra sè.—Ecco un giovanotto che a prima vista vi dà sui nervi: e poi egli è buono come il pane.—