Tasuta

Il ritratto del diavolo

Tekst
Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

IX

In mezzo a tante fatiche e trionfi dell'arte, non era dimenticata Fiordalisa. La bella immagine aleggiava sempre davanti agli occhi di Spinello. L'idea, insinuata nella sua mente da messer Dardano Acciaiuoli, che il lavoro fosse preghiera, e che la preghiera lo avrebbe avvicinato alla sua povera morta, gli aveva, come suol dirsi, raddoppiate le forze. Indi, ne accadde quel che doveva accadere, cioè che la stessa assiduità del lavoro gli recasse un po' di quiete allo spirito.

Questo va detto, s'intende, pel caso di Spinello Spinelli; che, in verità, non sarebbe più giusto nel caso di un altro, il quale si struggesse d'amore per una persona viva. Amare ed esser privi della vista di chi s'ama, è un male senza rimedio, o il lavoro non ci può far nulla; se pure è vero che si possa lavorare di buona voglia.

Del resto, la quiete dell'animo di Spinello va intesa con discrezione. Era una quiete, come oggi si direbbe, relativa. Gli restava un gran vuoto nel cuore, e sul volto l'impronta di una rassegnata tristezza.

Da qualche tempo il nostro pittore aveva cambiato d'alloggio, o, per dire più esattamente, aveva cambiato Tuccio di Credi, quello tra i due che pensava alle cose materiali della vita, e che aveva riconosciuta la necessità di un alloggio in cui si potessero muover le braccia. Le opere commesse a Spinello avevano recato una certa agiatezza, e non era più convenevole che si vivesse stretti e pigiati nella povera cameretta in via della Scala. Inoltre, bisognava possedere un quartierino con una camera abbastanza spaziosa per uso di studio, in cui preparare i disegni e i cartoni che dovevano servire agli affreschi.

Con queste ragioni si era persuaso Spinello. Ed anche meno sarebbe bastato; per esempio la volontà di Tuccio, a cui Spinello si acconciava mai sempre. E i due compagni d'arte, abbandonando la via della Scala, erano andati ad alloggiare in un quartierino di là dal Ponte Vecchio, anzi nel borgo Santo Jacopo, tra il Ponte Vecchio e il ponte di Santa Trinita. Spinello ci guadagnava di non dover più escire di casa alla sera, poichè l'edifizio dava dalla parte posteriore sull'Arno, ed egli aveva presa l'usanza di sedersi su d'una terrazza coperta, e di star là fino a ora tarda, contemplando le acque del fiume, che sbucavano gorgogliando di sotto gli archi del ponte.

Di tutti gli spettacoli monotoni, i quali possono accordarsi con la malinconia d'un pensiero dominante, è questo certamente il più acconcio. Passano le acque, si seguono i fiotti: ma questo che seguite con gli occhi non è più quello di prima, eppure vi sembra la medesima cosa. Non dissimilmente la vita umana e le sue molte vicende, chi le guardi nulla nulla dall'alto.

La terrazza di Spinello Spinelli prendeva luce da tre arcate, sorrette da colonnini di marmo nello stesso piano della facciata, la quale faceva angolo con un'altra casa, che usciva alquanto più fuori sulla riva del fiume, ed era terminata da un balcone, o terrazza scoperta, in cima all'edifizio. Colassù si vedevano di tanto in tanto parecchie donne, intente a rasciugare il bucato. Spinello le vedeva solamente verso sera, quando egli si riduceva nel suo osservatorio. Le donne che stavano allora levando i pannilini dal sole, salutavano lui molto garbatamente; ed egli rendeva il saluto, né più altro aveva che fare con esse.

Una di loro, più giovane all'aspetto, restava più lungamente in vista, lavorando di cucito. Così almeno si doveva argomentare dall'atteggiamento del viso, chinato su qualche cosa che il parapetto non consentiva di scorgere, e dal moto uniforme e continuo, come di persona che tragga il refe. Questo aveva osservato Spinello, senza badarci più che tanto. Del resto, una savia e costumata fanciulla, che non alzava mai gli occhi a guardarsi d'attorno. Quando egli, disoccupato com'era, alzava a caso la testa, intravvedeva la sua vicina, con lo sguardo basso sempre intento al lavoro.

Diciamo, ad onore di Spinello, che se l'avesse veduta mai in atto di guardarlo, anche alla sfuggita, egli n'avrebbe preso sospetto e non sarebbe più tornato sul terrazzo.

Tuccio di Credi, dopo il pranzo, andava sempre fuori da solo, e non tornava che a notte alta, per andare a dormire. Ma una sera egli venne con un pretesto a fare un po' di compagnia al suo principale.

–Dio santo! che occhio di sole!—esclamò egli dopo aver guardato verso il balcone della casa vicina.—Ecco un bel modello per la Santa Lucia–

Per intendere la frase di Tuccio, vi bisognerà sapere che Spinello aveva avuto alcuni giorni prima la commissione d'una tavola a tempera, per l'altar maggiore di Santa Lucia de' Bardi.

Spinello alzò gli occhi per guardare lassù, dove guardava Tuccio di Credi, ma non rispose nulla al compagno.

–Che, forse vi pare ch'io non abbia ragione?—ripigliò Tuccio di Credi.—A me sembra bellissima. Una vera trovata, per un pittore come voi, che fa, a detta universale, i bei visi di Madonne e di Sante. O forse non l'avevate ancora osservata?

–No;—rispose asciuttamente Spinello.

–Osservatela, maestro, osservatela. Proprio adesso che guarda in aria. L'occhio ha una grande espressione, mi pare.

–Sì;—disse Spinello per farla finita con le esortazioni di Tuccio.

Quell'altro si fermò lì, che forse aveva parlato per una prima volta già troppo. E poco stante, detto al compagno quel che aveva da dirgli, se ne andò a fare la sua solita passeggiata. Spinello rimase sulla terrazza, ma senza rivolgere più oltre lo sguardo alla sua bella vicina.

Pure negli occhi doveva essergliene rimasto abbastanza. E quando ebbe a fare il bozzetto della Santa Lucia per la chiesa de' Bardi, senza volerlo, gittò sulla carta qualche cosa che somigliava abbastanza al tipo della fanciulla.

Quando finalmente la tavola fu esposta all'adorazione dei fedeli, si trovò, nel quartiere, che Santa Lucia somigliava tutta a monna Ghita dei Bastianelli, la figliuola dell'orafo, che abitava per l'appunto nel sobborgo Santo Jacopo.

S'intende che le donnicciuole non erano giunte di per sè a quella conclusione, e che la loro perspicacia era stata aiutata da qualcheduno. Tuccio di Credi, per esempio, passava le mezze giornate davanti all'altar maggiore di Santa Lucia de' Bardi.

–Che vi pare, monna Tessa? Non si direbbe die il pittore ha preso a modello la figlia dell'orafo, che sta qui nel Borgo, nelle case dei Nucci?

–O madonna delle poerine! Ma sicuro, è tutta lei. Vuol essere superba, la Ghita, quando saprà che l'han messa sull'altare, a far la figura di Santa Lucia!

–Eh, bisogna pur dire che la ci ha un visino di santa. È un bel tocco di ragazza, e se non fosse zoppina a quel modo!

–Zoppa, voi dite? Non mi par mica! È vero che cammina un po' stenta.

–E che credete? che sia per le scarpe? È zoppina, vi dico. Ma in fondo, è un difettuccio da nulla, e quando è ferma non ci si vede neanche.—

Questi ed altri erano i discorsi delle borghinelle di Borgo Santo Jacopo, poste in sull'orma da Tuccio di Credi. E voi già immaginate, o lettori, che la cosa giunse all'orecchio di monna Ghita. Io, in verità, non potrei starvene mallevadore; ma credo tuttavia lo si possa ammettere come molto probabile. E non mi stupirebbe se venisse in chiaro che la fanciulla del Bastianelli era andata anche lei, zoppicando un tantino, in Santa Lucia de' Bardi, per vedere quell'immagine, in cui tutti dicevano di riconoscere il suo grazioso visino.

Una cosa io posso dirvi di certa scienza, ed è questa: che Spinello, non sapendo nulla di tante chiacchiere fatte sopra la sua tavola, passava sempre le sue serate sotto gli archi della terrazza, donde intravvedeva la fanciulla, sempre seduta accanto al balcone e intenta a lavorare di cucito.

Uno di quei giorni, entrando sulla terrazza, Spinello non vide lassù le altre donne. Forse era giunto più tardi del solito, e quelle avevano già levati i pannilini dal sole. O forse non era giorno di bucato. Insomma, tutto ciò importa poco al racconto, ed io l'ho accennato solamente per dirvi che lassù egli non vide quella volta che la fanciulla, e non ebbe altro saluto che il suo.

–Poverina!—pensa egli, mentre si affacciava al parapetto della terrazza.—Ella non fa che lavorare da mattina a sera. Già, lavoriamo tutti, a questo mondo. E perchè, poi? Per morire.—

Vi fo grazia del soliloquio, che avviato su quel tono, andò molto lungo. Quando ebbe finito di filosofare, alzò gli occhi, sempre a caso, come soleva, tanto per muovere il capo, e intravvide la fanciulla del balcone. Gli parve da un lieve motto della testa, che ella avesse finito allora di guardarlo. Ma non badò più che tanto a quel segno di curiosità femminile. Ormai ci aveva presa la piega, e non doveva insospettirsi per una guardata innocente.

Ma il giorno dopo, mentre stava per mettersi a tavola, Tuccio di Credi gli disse:

–Sapete, maestro? L'hanno riconosciuta.

–Chi?

–La vicina, nella figura di Santa Lucia.—

Spinello ebbe l'aria di cascar dalle nuvole.

–Che novità è questa?—esclamò.—Io non so che cosa si sia potalo riconoscere….

–Ma sì, vi dico, il popolino del Borgo ha riconosciuta la figlia dell'orafo. Perchè dovete sapere che quella ragazza del balcone qui presso, è la figlia d'un orafo, che lavora in una bottega del Ponte Vecchio. Ho udito io con questi orecchi, ho udito le donnicciuole che, dopo aver guardata la vostra bella tavola, dicevano; to', è monna Ghita dei Bastianelli. E infatti….

–Infatti,—interruppe Spinello,—io non ho mai pensato di fare il ritratto alla nostra vicina.

–Sarà;—disse Tuccio chinando la testa.

–È, vi dico, è.

–Sia pure come voi dite, maestro. Ma a me, ve lo confesso, pareva davvero un ritratto. E mi figuravo anche come fosse andata la cosa.

–Sentiamo quest'altra.

–Sicuro! Rammentate quel che v'ho detto, forse un mese fa, vedendo dalla terrazza la fanciulla dei Bastianelli? Sarebbe un modello eccellente per la Santa Lucia.

 

–Rammento benissimo il discorso,—rispose Spinello,—ma io allora non ci ho pensato più che tanto.

–Lo capisco,—ripigliò Tuccio di Credi.—Ma bisogna dire che la cosa vi sia rimasta impressa nell'animo, come accada qualche volta senza badarci, e che perciò, disegnando la Santa Lucia, vi siano venuti inavvertitamente i contorni della nostra bella vicina.

–Sarà così;—disse Spinello che non amava disputare.

–Del resto,—continuò Tuccio di Credi,—son casi che si danno. E noi possiamo prender questo come un augurio.

–Un augurio! Di che?

–Di matrimonio, perbacco!—osò rispondere Tuccio di Credi.—Via, non mi fate quella brutta cera. Non ho mica parlato del diavolo! I Bastianelli son brava gente, stimati per tutto il Borgo, e di monna Ghita si parla assai bene; perfino dalle donne, che è tutto dire! Voi siete solo, maestro. Io non potrò mica esser qui sempre, a tenervi compagnia!

–Povero Tuccio!—mormorò Spinello.—Io debbo esservi grato di tante cure amorevoli. Cure inutili, del resto;—soggiunse egli, sospirando.—A che serve la vita?

–Serve ai fini di Domineddio, e vi par poco? Fino a tanto che egli ci tiene quaggiù, bisogna starci. Non ricordate quel che dice messer Dardano quando gli fate dei discorsi come questo? Il gentile uomo vi ama assai. Anche ieri me lo diceva:—Bisognerebbe che Spinello togliesse moglie.

–Ah!—gridò Spinello.—E voi?

–Io…. Scusate, maestro. Io gli ho raccontato di questo ritratto, che tale è parso a tutti, come a me.—

Spinello si morse le labbra e diede una guardataccia all'imprudente compagno.

–Questo non dovevate far voi!—esclamò.—Mettere in piazza una onesta fanciulla!

–Oh, per questo, non ci vedo alcun male;—rispose Tuccio di Credi, appoggiando la frase con un'alzata di spalle.—Ella stessa, rimanendo ogni giorno in vista, presso al balcone….

–O perchè dovrebbe allontanarsene, se è in casa sua?—disse Spinello.—E non credete che possa starci per consuetudine e senza badare a me, come ci sto io, sulla terrazza, e senza occuparmi di lei?

–Potrebb'essere così, come voi dite, se non fosse altrimenti;—rispose Tuccio di Credi.—Il fatto è questo, che la fanciulla vi ha osservato e pensa a voi di continuo.

–Come sapete voi ciò?

–Eh, Dio buono, nel modo più naturale del mondo. Sapete pure! Le ragazze, quando ci hanno un segreto di questa fatta, provano subito il desiderio di confidarlo a qualcheduno. Mettete dunque che monna Ghita ne abbia parlato ad una sua parente; che questa parente conosca me, sapendo per giunta che io vivo insieme con voi, e che essa sia venuta in gran segretezza a darmene un cenno, con la speranza che io spenda una parola presso di voi, come faccio per l'appunto ora.—

–Spinello rimase un po' sconcertato da quelle notizie dell'amico, che tanto s'accordavano con le sue medesime osservazioni. V'ho narrato poc'anzi com'egli si fosse avveduto di qualche sguardo furtivo della sua bella vicina. Ma egli lo aveva attribuito a mera curiosità, e non si era fermato a vederci altro di più grave.

–Ve ne avrei toccato prima d'ora,—soggiunse Tuccio di Credi,—ma me ne sono astenuto, perchè volevo consigliarmi con messer Dardano Acciaiuoli.

–E vi siete consigliato!

–Certamente. Messer Dardano è un uomo di gran giudizio e pieno di benevolenza per voi. Ora, anch'egli vedrebbe assai volentieri le vostre nozze.—

Spinello fremeva dentro di sè dalla stizza. Gli cuoceva che si occupassero tutti della sua felicità, come la chiamavano, mentre egli non consigliava niente a nessuno e ai casi suoi intendeva di provvedere da sè. Ma si trattenne dal manifestare ciò che gli bolliva nel cuore, per non dir cosa la quale potesse far contro alla gratitudine che egli sentiva per Dardano Acciaiuoli e all'amicizia che, ad onta di quella seccatura, egli sentiva di dover professare a Tuccio di Credi.

Questi, frattanto, veduto che l'amico si richiudeva nel suo guscio, non pensò più che a mangiare. E finito il pasto, infilò l'uscio senz'altro.

Quella sera, Spinello, già arrivato sul limitare della terrazza, mutò prontamente opinione e uscì di casa a sua volta, per andare a diporto lungo l'Arno, dove la riva, era più deserta, di là dalle case de' Bardi. Anche lui non tornò che a notte alta, per andarsene a letto. E la mattina seguente si recò in Santa Croce, dova lavorava in quel tempo, e a Tuccio non disse parola che alludesse al discorso del giorno innanzi, nè Tuccio a lui. Venne l'ora del pranzo, e si parlò poco, di cose da nulla; indi Tuccio se ne andò pei fatti suoi, e Spinello, rimasto solo, uscì da capo, per recarsi a diporto lung'Arno.

Il cangiamento non era piacevole. La sua triste e cara consuetudine era interrotta. Spinello non poteva più esser solo, poichè un uomo che passeggia è sempre esposto ad imbattersi in qualcheduno. Inoltre, vedeva il suo fiume, i cui fiotti lievemente increspati si seguivano lentamente; ma non era più lo spettacolo della terrazza, donde egli vedova lo acque limacciose illuminarsi di qualche riflesso cristallino, mentre gorgogliavano intorno alle pile del suo Ponte Vecchio.

Uno di que' giorni, capitò una visita inaspettata nel quartierino di Spinello Spinelli. Era Parri della Quercia, giunto allora da Arezzo. Fu accolto, come potete immaginarvi, a braccia aperte. Alla vista dell'amico che gli ricordava i suoi giorni più lieti, Spinello pianse come un bambino. Era un pezzo che non piangeva, e quelle lagrime lo sollevarono un poco.

Parri della Quercia era venuto a bella posta da Arezzo per dare al suo compagno d'arte una lieta notizia. Prendeva moglie, e la gioia domestica di cui voleva far parte a Spinello colorava alquanto le sue guance scarne, su cui si leggeva il destino del giovine e modesto pittore.

–Ci avete ben pensato, Parri?—chiese allora Spinello.

–Ci ho pensato;—rispose Parri, con l'usata placidezza.—Appunto perchè ci ho pensato, fo conto di affrettare le nozze. Son condannato a morire di mal sottile; lo so, ma che volete? Con questi mali si campa qualche volta più a lungo di molti sani.

–Speriamo che il vostro male non sia così grave come dite;—replicò Spinello.—Ma se lo fossa, Parri, vorreste voi condannare una povera donna a vivere con voi, per restar vedova anzi tempo?

–-Quando vi dico che ci ho pensato!—disse di rimando quell'altro.—Sentite qua. La mia fidanzata è una ragazza povera, non bella, nè felice. La tolgo da una casa, dove i suoi non l'amano come dovrebbero, e dove la vita le è divenuta un inferno. Come vedete, fo anche un'opera buona. Ella ha poi un cuor d'oro; mi terrà compagnia, assisterà i miei ultimi giorni e li renderà meno dolorosi. Infine, erediterà quei pochi ch'io vo guadagnando dalle opere mie. Non sarà una gran cosa, perchè la mia arte è meschina; ma per lei sarà sempre la ricchezza.

–Ottimo Parri!—esclamò Spinello, intenerito.—Speriamo che la nuova vita vi giovi, e le miti gioie domestiche vi restituiscano a sanità.

–Eh, tutto può darsi. Quantunque io non lo speri, voi potete immaginarvi che lo desidero. E voi, Spinello, non risanerete delle vostre malinconie? Non prendete moglie anche voi?—

A quelle parole, buttate là a caso, Spinello rizzò prontamente la testa.

–Avete parlato con Tuccio?—gli chiese, fissandolo in volto.

–Mio Dio, sì;—rispose Parri, che non sapeva mentire.

–Che noia!—gridò Spinello, sbuffando.

–Tuccio vi ama;—osservò placidamente quell'altro.

–Lo so, e m'è uggioso questo amore, che vuole ad ogni costo impicciarsi nei fatti miei. Mi lascino alle mie tristezze. Parri, io ci ho i morti nell'anima; come volete che pensi alle creature vive?

–Ecco il male;—ripigliò Parri.—Io non credo che ciò vi consiglino i morti, sibbene di andare per la via retta e di avere un po' di pazienza.

–Ne ho.

–Ma per uccidervi lentamente. E questo è un grave peccato innanzi a Dio. Così amate i morti, Spinello? E vorrete voi mettere sull'anima di quella poveretta la rovina del vostro ingegno, la morte vostra, la disperazione del vostro povero padre?—

Era la prima volta, dopo un anno, che si accennava così direttamente a madonna Fiordalisa, in presenza di Spinello Spinelli. E il modo era ingegnoso, come ispirava l'affetto al mite animo di Parri della Quercia.

Spinello rimase alquanto sconcertato dalla novità dell'argomento. Un teologo, dugent'anni più tardi, ne avrebbe fatto un caso di coscienza, sicuro di vincere con esso la riluttanza di un credente come Spinello Spinelli, più che allora non isperasse di vincerla quel bravo giovine d'un Parri.

E certamente non poteva sperarlo, poichè Spinello non gli aveva risposto più nulla. Era la sua consuetudine, quando un discorso non gli andava a' versi, di chiudersi in sè medesimo, alla maniera dei grandi, e di lasciarvi lì, a mezzo della vostra perorazione.

Parri, come potete immaginarvi, fu trattenuto a desinare. La casa di Spinello Spinelli doveva essere la sua, per tutto il tempo che egli contava di rimanere a Firenze. Ma dopo il desinare, Tuccio di Credi lo tirò in disparte e gli disse:

–Lasciamo solo il maestro; questa è l'ora in cui egli si raccoglie un tantino, per meditare le sue composizioni.

–Che gli fanno tanto onore!—esclamò Parri, con accento di profonda convinzione.—In Arezzo si parla sempre de' suoi trionfi, e tutti se ne rallegrano di cuore. Suo padre, poi, ne è veramente orgoglioso. Povero messer Luca! Come sarebbe contento, se voi poteste mandargli una buona volta l'annunzio che suo figlio ha cacciate dal capo le sue malinconie!—

Spinello udiva il dialogo dei due compagni d'arte. Alle ultime parole di Parri della Quercia si volse in soprassalto, e gli chiese:

–È mio padre che vi ha incaricato di parlarmi in tal guisa?

–Sì;—rispose Parri volgendosi a lui;—ma lo ha fatto con una frase più calda. Morrei contento, mi disse, morrei proprio contento, se Spinello mi desse prova d'aver risanato lo spirito.

–Povero padre!—esclamò Spinello, sospirando.—Poterlo!—

E congedati gli amici, andò verso la terrazza, dove lo tirava la vecchia consuetudine. Ma, come fu giunto sul limitare, tornò indietro. Avrebbe voluto contentar tutti, ma in verità non se ne sentiva la forza.

Passarono così altri due giorni, senza che si tornasse su quel triste argomento. Spinello era a lavorare in Santa Croce, quando gli fu annunziata la visita di messer Dardano Acciaiuoli. La cosa non parve strana a Spinello, poichè messer Dardano era stato il suo primo protettore in Firenze, e rimaneva il suo migliore amico. Spesse volte il vecchio gentiluomo andava a cercarlo e stava qualche ora a vederlo dipingere, in questa o in quella delle chiese che Spinello decorava de' suoi mirabili affreschi.

Quella volta, salendo sul ponte, messer Dardano gli disse, incominciando:

–Maestrino, ho a farvi un lungo discorso. Non vi spaventerete mica?—

Spinello indovinò subito dove messar Dardano volesse andare a battere. Ma ci voleva pazienza; bisognava ascoltarlo.

–Sedete, messere;—gli rispose, additandogli uno sgabello.—Il luogo è forse incomodo, per una lunga conversazione; ma tal sia, come voi vi siete degnato di sceglierlo.

–Oh, si sta benissimo qui;—disse l'Acciaiuoli.—Sedete anche voi.—

Spinello voltò dalla parte di messer Dardano il suo trèspolo, e si assise sul gradino più basso nell'atteggiamento del minore che ascolta il maggiore.

Messer Bardano incominciò:

–Sapete se vi amo, Spinello!…

–Oh, messere! Me ne avete dato tante prove!—rispose il giovine pittore.—Senza il vostro aiuto, che sarei? Mi conoscerebbero, forse, a Firenze?

–Non parliamo di ciò;—disse il vecchio gentiluomo, dandovi sulla voce.—È debito d'un cavaliere che ami la patria, promuovere con ogni sforzo tutto ciò che le torni ad onore. E in questo io sono ancora il vostro debitore.—

Spinello s'inchinò, arrossendo.

–Volevo parlarvi in quella vece dell'amicizia che ho per voi,—continuò messer Dardano,—che vorrei vi fosse nota in tutta la sua profondità. Vi amo come un figlio, maestrino mio, e vorrei vedervi felice.

–Felice!—mormorò Spinello.—È forse possibile?

–Se lo vorrete, sì certamente.

–Risuscitate i morti, messere?

–Ahimè, troppo mi domandate. Un solo, al mondo, ha potuto far ciò, e quell'uno non era un uomo;—replicò messer Dardano.—Ma quell'uno sopportò molte miserie e bevve il calice delle amarezze per noi, insegnandoci in questa guisa a patire, a vivere fortemente in mezzo alle prove più dolorose. Siete voi certo, Spinello, di fare il debito vostro, chiudendovi in questa cupa tristezza! E siete voi certo di piacere a quell'anima santa che avete perduta? Credete voi che lassù non si dolgano di vedervi cagionare tanto rammarico al vostro vecchio padre? Pensate com'egli sarebbe consolato se vi sapesse più lieto! Me lo ha confessato ieri un vostro amico, Parri della Quercia, che fu condotto a casa mia da Tuccio di Credi. Un altro che vi ama. Spinello! E voi vedete che io non vi faccio misteri; vengo subito a mezza spada con voi. Orbene, proseguiamo a parlarci schiettamente; vostro padre vuole da voi questa consolazione, l'ultima che potrete dargli, da quel buon figlio che siete. Morrà triste, se non saprà che il vostro spirito ha ritrovata la pace.

 

–Messere,—balbettò Spinello, confuso,—vorrei…. Lo sa il cielo, se vorrei!…

–Vogliate dunque; dipende da voi;—ripigliò messer Dardano.—Voi dovete ammogliarvi. Una compagna vi è necessaria. Non credete a ciò che sentenziano taluni, che l'artista ha da viver solo, perchè l'arte non vuole rivali. Chi immagina e crea, deve trovare in casa la pace allegra, che ritempra le forze, e il viso sorridente di qualcheduno che l'ama. Si narra d'un gigante, che combattè con Ercole, e che rinfrescava il vigore delle membra, quante volte toccava coi piedi la terra. La terra, per l'artista è la sua famiglia. Fatevi una famiglia, Spinello. E poichè ho udito d'una buona fanciulla che vi ama…. Suvvia, perchè non la sposereste?

–Messere,—disse allora Spinello,—per far ciò che voi dite, bisogna amare. Ed io non amo.

–Pazienza! Cerchiamone un'altra che vi piaccia di più. Quantunque, monna Ghita, che io ho veduta l'altro dì….

–Come?—gridò Spinello.—Anche questo avete fatto?—

Messer Dardano sorrise, come sa sorridere un uomo accorto, quando altri s'avvede di qualche sua bella trovata.

–Sicuramente;—diss'egli.—Avevo udito di questa ragazza vostra vicina di casa, ed ho voluto vederla. Domenica mattina, per l'appunto, il nostro Tuccio di Credi è venuto a prendermi a casa mia, per accompagnarmi agli uffizi divini in Santa Lucia dei Bardi. Monna Ghita ha un'aria modesta e buona che innamora. E certamente se tutta la persona fosse così bella come il viso…. Ma già, non si nasce perfetti, a questo mondo.

–Ah!—notò Spinello, incominciando a respirare.—Ci avete trovato qualche difetto?

–Una cosa da nulla, in verità, e quasi non metterebbe conto parlarne,—rispose messer Dardano.—Ma infine, se questo può essere un ostacolo per voi, ve lo torno a dire, cerchiamone un'altra che vi piaccia di più.

–No, no;—disse Spinello.—Se io volessi pure risolvermi al gran passo, credetelo, io non andrei a cercare la perfezione. Tutt'altro! Mi parrebbe un'offesa alla, memoria di quella poveretta;—soggiunse egli rabbrividendo istintivamente.—Voi lo avrete saputo da Tuccio, o da altri, messer Dardano mio veneratissimo; Fiordalisa era un miracolo di bellezza. Iddio non ha voluto che tanto splendore privilegiasse la terra, e l'ha ripreso con sè, per ornamento del suo trono. Ma io non ne cercherei altra, che valesse altrettanto, quand'anche sapessi di trovarla al mondo: nè vorrei cercarne una che agli occhi altrui potesse parere scelta da me per le grazie della persona. Su ciò mi troverete saldo, messere; nè essere, nè parere, anco lontanamente, infedele a quell'immagine di celestiale bellezza, che la morte ha potuto rapirmi, ma che non potrà farmi dimenticare più mai.

–Orbene, eccovi nel caso;—replicò l'Acciaiuoli. Monna Ghita non ha —di veramente gentile che il viso. Alla sua persona mancano affatto —quei contorni delicati che hanno, per esempio, le vostre Madonne, e —che certamente ebbe la vostra povera morta. La figlia del —Bastianelli cammina male, per giunta, ed anzi la dicono un po' —zoppa. Chi potrà dire che voi vi siate invaghito di lei, per le —grazie della persona? Diranno che dovevate farvi una famiglia, —perchè questo è l'obbligo d'ogni uomo per bene, d'ogni artista che —voglia lavorare da senno. E poi, ella vi ama, mio bel maestrino, ed —anche questo va considerato. La sua figura, che fu ritratta da voi —nella Santa Lucia….

–Un caso!—interruppe Spinello.—Un mero caso, di cui non so neanch'io rendermi ragione. Tuccio di Credi ve lo avrà detto, che io….

–Sì, sì, m'ha detto ogni cosa, ed io ho capito benissimo come sia andata questa faccenda. Infine, un pittore ha da prenderli in qualche luogo, i suoi tipi. Non ci mancherebbe altro che l'artista dovesse reputarsi innamorato di tutte le figure che ha da ritrarre, per dar varietà alle sue opere! Una cosa rimane, che il viso di monna Ghita ha una grande espressione, ed è l'indizio di una bell'anima. Pensateci, Spinello, e poi mi direte che cosa avrete deliberato di fare. Ma badate, maestrino, non dovete rattristarmi, dovete dirmi di sì.—

Spinello non rispose. E in verità non aveva da risponder nulla, perchè messer Dardano gli dava tempo a pensare, risparmiandogli il rimorso di un no troppo reciso e pronto, che sarebbe parso un atto di scortesia verso quell'uomo onorando.

Pensò, difatti, quando fu solo, pensò lungamente a tutte le cose che gli aveva detto il vecchio gentiluomo, ed anche ai discorsi di Parri, come a quelli di Tuccio. Benedetto chiacchierone, quel Tuccio! Era lui, proprio lui, che aveva destato quel vespaio, tirandogli addosso tante esortazioni ad un tempo. Spinello, per altro, non poteva lagnarsene troppo. Il suo compagno d'arte non aveva peccato che per eccesso di zelo. Così grande era il tesoro dell'amicizia, sotto quella ruvida scorza d'uomo.

Monna Ghita! Dunque egli, per essere andato ad abitare in Borgo Santo Jacopo, doveva acconciarsi a prender moglie? Ma già, fosse andato a Por Santa Maria, a porta Pinti, a Santa Croce, in Ognissanti, sarebbe stato lo stesso. Quando gli amici hanno stabilito di darvi moglie, le donne non mancano e se ne trova una ad ogni uscio. Manco male la figliuola dell'orafo, poichè messer Dardano ci aveva trovato un grosso difetto. Era zoppa, e tozzotta per giunta. Poverina! Non lo avrebbe trovato facilmente, un marito. E gli divenne cara, quella povera figliuola, già condannata nell'animo suo a rimanersene in casa, gli divenne cara per quel tanto di ambizioncelle e di vanità a cui ella avrebbe dovuto rinunziare. Infatti chi nol sa? La donna, destinata a risplendere per la bellezza, e ad essere dal più al meno una meraviglia per qualcheduno, scade nella propria estimazione, quando le manchi questa piccola speranza, in cui è riposta ogni sua contentezza.

Quel giorno Spinello si arrischiò a tornare sulla terrazza, ove da una settimana non aveva più posto piede. Monna Ghita non si vedeva al balcone, ed egli si trovò meno impacciato. La corrente del fiume scendeva gorgogliando di sotto gli archi del Ponte Vecchio, ed egli stette ad osservar la corrente.—Così la vita;—pensò tornando al monologo;—poi si finisce nel gran mare dell'essere. Bella cosa, il finire, non sentir più nulla delle usate molestie, e ricongiungersi a ciò che s'è avuto di più caro nel mondo!—

La mattina seguente, Parri della Quercia faceva ritorno ad Arezzo.

–Che dirò a vostro padre?—chiese egli all'amico.

–A mio padre?…—balbettò Spinello.—Ditegli….—

E trasse, così dicendo, un sospiro. Poi, facendo uno sforzo, riprese:

–Ditegli che lo contenterò.

–Ah!—grido Tuccio di Credi.—Davvero?

–Sì,—mormorò Spinello.—se la vicina mi vorrà, io sono disposto. Vi contenterò tutti, non dubitate.—

Gli occhi di Tuccio sfavillarono d'allegrezza. Quel bravo Tuccio di Credi! Amava tanto Spinello!