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L'olmo e l'edera

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XIII

L'amore è una triste cosa, e sto per dire una delle più gravi malattie dei tempi odierni. Non già che fosse sconosciuto agli antichi, chè sarebbe dir troppo; ma ogni lettore assennato vorrà ammettere che quella passione, rozza forma dell'istinto, passò per molte e molte filiere lungo il corso dei secoli, innanzi di affinarsi a quel modo che oggi si nota, e di aguzzarsi tanto, da penetrar nelle carni a guisa di pugnale.

Le svariate e progressive forme della educazione umana hanno temperato, mutato ogni cosa, e l'amore anzi tutto. L'uomo primitivo, colui che s'innoltrava nella boscaglia armato di una accetta di selce, non sentì altro nel cuore che la voce confusa dello istinto brutale. La donna non gli fu data da santità di connubio, ma dal furto, dalla rapina, e il giorno delle nozze non fu celebrato da geniali conviti, nè da canto di bardi. Chiusa nella spelonca, ella amò il suo rapitore, perchè era forte, perchè combatteva le fiere e portava a lei le spoglie sanguinose; perchè le ornava il collo coi denti del mostro ucciso, o con le pagliuzze del rilucente metallo, raccolte nel letto dei fiumi. Essa lo temeva e lo desiderava ad un tempo; non lo rispettava, non lo amava ancora. Ed egli, poi, non riconosceva che il diritto della forza; quando si sentiva offeso, combatteva; quando la donna gli andava a versi, combatteva ancora. La vita era la guerra; la soddisfazione dell'istinto era il trionfo.

Più tardi, fu gran segno di civiltà la donna chiusa in uno scompartimento della tenda. La famiglia creò le consuetudini; le consuetudini assunsero forma ed autorità di legge. Allora la donna non si rubò più; si ebbe dai parenti, in pegno d'alleanza, o in mercede di prestati servigi, sempre come una cosa, e senza dolersi molto, o rompere il patto, se ella aveva gli occhi cisposi. Si pigliava la donna come moglie, o come serva, ma non la si amava ancora; ella per contro incominciava ad amare colui che la rendeva feconda. Per lei, talfiata, se bella, si facevano guerre; il nemico calava sulla tribù come un avvoltoio sulla preda; uccideva il padrone, e ne ereditava la donna, timida creatura, senza volontà per resistere, senza odio per respingere l'amplesso di mani insanguinate.

Il greco ed il romano, tutti intesi alla vita pubblica, non hanno tempo per gli affetti soavi. La donna che amano e cantano, non è mai la moglie, ma una facile bellezza, straniera alla famiglia, Lalage, Lesbia, Cinzia, e tutte l'altre regine dell'ode e della elegia, sono donne intorno alle quali si perde la umana dignità, donne che fanno piangere in distici Catullo, Tibullo e Properzio, ma non uccidono nessuno. L'amore è un arciero bendato, che scaglia le sue frecciate perfino a Giove, suo avolo; ma nessuno muore per le conseguenze della ferita. Paragonate cotesto con Werther e Jacopo Ortis.

Antichi esempi di forti amori ve n'ha, ma feroci, teatrali, cantabili, come la forma tragica od epica per cui gli hanno fatti passare i signori poeti. L'amore da pari a pari, che si filtra in tutte le costumanze, in tutte le bisogne della vita, è scaturito dal medio evo, da questo gran crogiuolo di cose nuove, da questo ricostruttore del mondo. La donna nelle più umili sfere sociali è già la compagna dell'uomo; nelle più alte è, più che compagna, regina; tende a superarlo, e ne verrà a capo, imperocchè essa ha più virtù, più affetto, più sottile intelligenza di lui. Egli è ancora per molti rispetti lo schiavo della materia; essa è già la forma eterna, il weibliches Wesen del dottor Fausto, la diva degli antichi. Anchise che fu innalzato al talamo di Venere, Peleo che ottenne in maritaggio da Giove la più bella delle sue oceanine nipoti, non sono più a' tempi nostri invenzioni mitologiche. Il mondo appare a prima giunta più materiale, ed è in quella vece dieci cotanti più poetico di prima. Si soffre per l'amore, perchè l'amore si è immedesimato nella vita. È egli vero che noi diventiamo più deboli, più infermicci, diventando più civili? Le armature degli avi ci opprimono col loro peso, nè più verremmo a capo di tendere l'arco di Ulisse. Per contro, un dardo che a' tempi andati vellicava la cute, oggi ci entra nelle carni e ne uccide. L'amore è una malattia. Chi lo avrebbe mai detto ad Ippocrate?

Guido Laurenti era infermo da senno. Come fu uscito dalla casa Argellani e si ridusse nella sua camera, pianse a guisa d'un bambino, ma le lagrime non valsero a sollevarlo. Il suo caso era grave. Se la signora Luisa fosse stata una donna leggiera, la quale avesse stuzzicato l'amor suo per farsene giuoco di poi, egli avrebbe potuto odiarla tre mesi e disprezzarla per tutto il rimanente della sua vita. Questi odii e questi dispregi, anco sragionati (poichè non sempre si ha ragione intiera contro la donna che ci offende) aiutano a vivere, e danno, se mi è consentita la frase, il tono, il chiaroscuro alla vita. Ma come odiare la donna gentile, che era innocente d'ogni artifizio, d'ogni lusinga più lieve con lui? E come sperare di farsi amare da lei, da quella donna diventata necessaria alla sua esistenza, se nel cuore di quella donna era scolpita l'immagine di un altro? Pari alla vezzosa Minoide, abbandonata dormente sul lido di Nasso, egli non vedeva scampo, nè uscita, nè speranza, nè tregua.

Uscì finalmente di casa, dopo avere stancata la mente in ogni più disperato proposito. Aveva giurato di non andar più da quella donna; ma come fare? Non era egli il suo medico? E doveva lasciarla morire, perchè essa non lo amava e non lo avrebbe amato giammai? Era dicevole, onesto, generoso, il fuggire da lei?

Questa interna battaglia durò molti giorni. Il povero giovine voleva e disvoleva; malediceva e pregava; rimpiangeva le gioie della materia e la vita sollazzevole che avrebbe potuto fare, ad annegarvi dentro quella delicatezza di sentire che è sempre ragione di tanti patimenti; cercava gli amici e li sfuggiva; andava a consolare l'inferma, poi correva a teatro, dove qualche volta vedeva il Percy, e si struggeva a guardarlo. Se avesse potuto sfogarsi contro di lui! Ma la vendetta gli avrebbe forse divelto l'amore dal seno?

Intanto la donna gentile era sospesa tra la vita e la morte. La scienza di Guido la teneva in vita, senza salvarla, senza allontanarla d'un passo dall'orlo pauroso del nulla.

Fu questo dolente spettacolo quotidiano che rafforzò nell'anima tribolata di Laurenti il più generoso consiglio: rimanere al suo posto, contenderla con ogni sua possa alla morte, o morire con lei. Questa specie di patto, di compromesso tra il suo dolore e il dovere, valse a calmarlo, e, mostrandogli la morte come una uscita aperta nel fondo, a farlo rimanere, tranquillo in apparenza e sereno, presso la povera donna.

La malattia della signora Argellani, fatta più grave dalla ricaduta, non era di quelle che inchiodano la loro vittima sul letto. V'erano giorni ch'ella stava alzata e scendeva anche in giardino; ma lo sfinimento era manifesto, e riusciva più doloroso a vedersi, in quanto che si scorgeva la bellissima donna attendere tranquillamente a tutte le consuetudini della vita.

Un giorno, con dolce violenza, egli l'aveva condotta a diporto in capo alla prateria, vicino alla conserva delle piante esotiche. Là seduta, ella stava guardando in aria, senza fare parola.

–A che pensate, signora?—le chiese Guido, mettendo per la prima volta nel suo discorso la forma amichevole del voi.

–Penso al sole che muore;—rispose Luisa.—Vedete che dolce morire, senza improvvisi contrasti di luce e di tenebre! I raggi si vanno allontanando man mano dalla terra; poi le nuvole, anch'esse, di rosee si fanno pallide; giunge il crepuscolo…. e tra poco la notte, inavvertita quasi, apportatrice di calma.

Laurenti si nascose il viso tra le mani, per celare le lagrime che gli rompevano improvvise dagli occhi; ma il singhiozzo, che non potè nascondere del pari, fece volgere dal suo lato la signora.

–Perchè piangete, amico mio?

–Oh, voi mi fate un gran male con simiglianti discorsi!—proruppe egli a dire.—Ho la disgrazia di esser giovine, e di non saper conservare la serenità dell'animo, dinanzi alle malattie come la vostra, nelle quali la prima cagione è la volontà, e che assumono, già ve l'ho detto una volta, il carattere del suicidio. Morire! morire, perchè un uomo non vi ama!….

–No, signor Laurenti; mi conoscete assai poco. Io morirò perchè la vita non mi par bella, nè desiderabile punto. Anche gli uomini possono aver contribuito a farmela parer tale, ma non è per essi che io muoio.

–Sofisma!—esclamò il giovine,—Voi, intanto, infastidita del presente, rimpiangete il passato.

–Se ciò fosse vero, ve lo direi schiettamente;—rispose la donna gentile.—Credetemi, amico; e che io possa perdere la stima di un uomo generoso come voi siete, se io non penso ora, e fermamente, che, posta innanzi a me la scelta tra la più misera esistenza e il ritorno delle prime illusioni, non istarei in forse un solo momento ad eleggere quella. Ma, noi, povere donne, siamo pur troppo come quell'edera lassù, che dal vostro muraglione è andata ad allacciarsi al tronco dell'olmo. Non l'avete mai osservata, voi?

Guido sospirò, e non rispose.

–Or bene, io l'ho guardata spesso, e sempre con tenerezza ineffabile. Essa è il nostro simbolo, sebbene l'abbiamo così mal battezzata nel dizionario dei fiori; essa è il simbolo del cuore, di cui le sue foglie hanno quasi la forma, di cui le sue costumanze riproducono la vita. «Où je m'attache, je meurs» bella impresa che fa trovata, io credo, da una povera figlia d'Eva, la quale guardò una pianta di edera prima di me, e vi riconobbe l'immagine sua!

–L'uomo, dunque…… sempre l'uomo!—esclamò, con accento di amarezza Laurenti.

–Sì, l'uomo, se così volete,—soggiunse la signora Argellani,—ma non già un certo uomo. Strappate quell'edera dall'albero, al quale s'è abbarbicata, ed ella muore. Ma muore ella forse perchè non può più avvinghiarsi a quell'albero, e pendere in graziosi festoni dai rami? No, signor Laurenti; essa muore perchè è stata divelta, schiantata ed infranta. Noi siamo come l'edera; divelte dal nostro luogo di elezione moriamo; ma non istate a credere che rimpiangiamo l'affetto degli uomini dappoco, e che moriamo perchè esso ci manca; dite piuttosto che siamo le vittime dei nostri errori, e paghiamo largamente colla vita un fallato giudizio. Io dunque non rimpiango nulla, se non forse di aver fatto perdere il tempo al mio ottimo medico.

 

Guido la ringraziò con un cenno del capo, ma non rispose motto. Egli pensava a mille cose in un tempo, e, tra i concetti che gli giravano confusi nella fantasia, gli pareva che dovesse esserci il buono. Però stava cercando, e non rispondeva nulla a quel disperato ragionamento. Ma come gli parve di aver trovato, si alzò in piedi e le disse:

–Mi avete promesso di venire domani a fare una gita in carrozza.

–Sì, e non disdico la mia parola. Sarà la mia ultima uscita. A che ora verrete?

–Alle undici, se non vi dispiace.

–No, certo; e dove andremo?

–Perchè questa curiosità? Quando io vi ordino qualche pozione, domandate voi come si chiama?

–Avete ragione, e poichè non c'è nulla che m'abbia a risanare, mi farò presso di voi un merito di non chiedervi nulla.

Laurenti stette muto per la terza volta; ma per la prima volta, accompagnandola in casa, le offerse il suo braccio. Ella del resto era molto stanca, e ne aveva bisogno per reggersi in piedi.

XIV

Era una bellissima giornata, una di quelle giornate che fanno nascere nell'anima dei poveri condannati al lavoro quotidiano, il desiderio di una modesta entrata e di una carrozza per uscirsene alla campagna. Il cielo limpido, trasparente, rasserenava lo spirito e tingeva d'azzurro i pensieri; l'aria fresca del mare temperava la vampa del sole e ristorava i polmoni.

Fuori della città, i terrapieni, i fossi e le praterie, si smaltavano di margheritine, oracolo a buon prezzo per le fanciulle innamorate. I mandorli, i peschi, i peri fioriti, ornavano co' loro pennacchi bianchi e rosei le falde dei colli, non abbastanza inverdite dalle fronde novelline degli alberi. Rideva tutt'intorno quella giovine bellezza di natura che il pittore, costretto a cavare i suoi effetti dalla abbondanza delle frasche, dalle balze sassose, dai campi biondeggianti, non può ritrarre con efficacia; bellezza che forse apparirebbe falsa e stonata sulla tela, ma che parla al cuore e lo soggioga con tutte le grazie innocenti della prima gioventù. Oh primavera, gioventù dell'anno! Gioventù, primavera della vita!

La carrozza della signora Argellani uscì per via Carlo Felice e via Giulia, verso porta Romana. La signora Luisa non aveva sulle prime badato a questo itinerario; ma, come fu alla porta, chiese a Laurenti:

–Perchè non siamo andati per porta Pila? Dove mi conducete voi?

–Vi contento, signora;—rispose Guido.—Mi dicevate un giorno che sareste andata molto volentieri…..

–A Staglieno; me ne ricordo. Ma ricordo altresì che voi mi avevate risposto…

–Che non era ben fatto; sì certo, vi ho risposto così.

–Che la vista dal camposanto faceva male;—proseguì la Luisa.

–Sì, anche questo; ma oggi ho mutato pensiero,—disse il giovine, sospirando—Voi non volete più essere di questo mondo; i consigli degli amici non valgono a rattenervi, e bisognerà lasciarvi fare a modo vostro. Andiamo dunque al camposanto, ed avvezziamo gli occhi alla nuova dimora. Anch'io, signora, sono molto stanco di vivere.

–Voi! e perchè?

Laurenti le rispose con un'altra dimanda.

–Ah, credete di aver voi sola cagioni di rammarico e tedio della vita? Non tutti i forti dolori si manifestano negli occhi, o si dipingono sulle guancie.

Così dicendo, chinò la testa sul petto, e non fece altre parole. La signora Argellani non cercò di riappiccare il discorso, e ambedue fecero la strada in silenzio, fino al termine della malinconica gita.

Come furono al camposanto, la carrozza si fermò; Guido saltò a terra ed aiutò la signora a discendere, in quella che il custode della necropoli, aperto il cancello, si faceva incontro ad essi col berretto in mano.

Magnifica dimora è il cimitero di Staglieno, e quando sarà finito, nessun'altra città d'Italia potrà vantare il somigliante per ricchezza di marmi e di disegno. Tutto quanto il genio capriccioso di un pittore potrebbe fantasticare per darci immagine di una antica città, arcate sovrapposte ad arcate, templi, colonne, monumenti sovrapposti a gradinate gigantesche, giuoco mirabile di linee in prospettiva, pensile orto babilonese di architettoniche meraviglie, che si innalza a guisa di piramide sul fianco della montagna, tutto ciò si vede, non dipinto, non fantasticato, ma vero, ma edificato, scalpellato, a Staglieno. La morte è maestosa lassù; mirabile effetto del complesso, dell'armonia del tutto, contemplata da una giusta distanza.

Io non so (e chi può sapere siffatte cose?) che mala fine faranno le mie ossa. Ma dovunque e comunque io avessi a morire, non vorrei essere sepolto nel camposanto di Staglieno. Colà lo sfarzo opprime; colà il solito orpello della vita, la consueta menzogna, vi seguono nella morte, e non c'è per compenso un filo di verde, di cui un amico, venendo a salutarvi, possa dire: è succo della sua carne. Per me, ho sempre sognato una modesta fossa ed una modesta pietra, sulla cima di un poggio che guardi al mare, a' piedi d'un albero di pino, il mio albero prediletto, che ho amato da ragazzo pe' suoi frutti che andavo avidamente sgusciando sul focolare domestico; da giovinetto per le sue resinose fragranze che mi facevano bello il dimorare nella boscaglia; da giovine perchè piaceva a lei, e più tardi perchè in terre lontane mi raffigurava la mia prediletta, la mia sacra terra di Liguria.

Così vorrei dormire il sonno eterno, lontano dalle visite cerimoniose dei viventi e dalla mala compagnia dei defunti. Ma ohimè, quando morrò, e se morrò nel mio letto, il mio sogno non gioverà a nulla, anco se confidato alla carta bollata di un testamento. I becchini verranno a pigliarmi, armati della legge municipale, e mi toglieranno anche la libertà della sepoltura. Libertas! Libertas! I nostri padri scrivevano questo motto, insieme coll'arma della repubblica, sulla porta delle prigioni.

La signora Argellani e Guido Laurenti entrarono sotto le arcate del cimitero. Luisa non era stata da molti anni colà, e ogni cosa le sapeva di nuovo. Avvezza poi da qualche tempo ad accarezzare nell'animo suo il pensiero della morte, quella vista non le strinse il cuore punto punto, e, sospesa al braccio di Guido, ella si fece anzi a correre spedita come una giovinetta curiosa che entri per la prima volta in un bel giardino annesso al palazzo in cui essa ha da metter dimora.

Cotesto non isfuggiva alla gelosa attenzione del giovine, e il suo cuore si riempiva di amarezza. Essa è felice, pensava egli, è felice perchè sente d'essere vicina a morire e non s'avvede, e nulla le dice che qui, daccanto a lei, c'è taluno che l'ama, e che morirà se ella muore! Che s'ha egli a dire di quella potenza magnetica che fu fantasticata svolgersi in raggi invisibili da tutti i nostri pori, circondare un corpo, un'anima diletta, e stringerla in una cerchia di arcani effluvii che la inebbriano e la soggettano a noi? Baie di cerretani! Se questa possanza non fosse una invenzione, la mia volontà l'avrebbe sprigionata, e a questa donna non balzerebbe ora il cuore per l'allegrezza, pregustando la voluttà della morte.

Ma se la signora Argellani non sentiva l'influenza magnetica del braccio a cui era sospesa, ella non istette molto a sentire l'influenza malinconica delle tombe.

–È un bel luogo—disse ella, dopo aver varcato le prime gallerie—ma è molto triste. C'è troppa bianchezza di marmi.

–Eh, signora mia!—rispose Guido, crollando la testa.—Ci vuol pure un po' di lusso, dopo la morte. La menzogna, che ci veste e che ci guida nella moltitudine dei vivi, dovrà forse fermarsi alla porta del cimitero?—

In quel momento un gran mausoleo (un mausoleo in tutta la forza del vocabolo, poichè era la tomba di un re di danari, se non di provincie, ed era stato eretto da una nuova Artemisia) si parò davanti agli occhi dei due visitatori.

–Chi dorme là dentro, ch'io non vedo la scritta?—chiese la signora Argellani

–Un padre di famiglia, o signora. La vedova e i figli inconsolabili ci hanno speso cinquantamila lire. Gli è un magnifico monumento, in verità; le statue delle tre virtù teologali sono assai finamente condotte nel più bel marmo che si scavi a Carrara; quel ritratto è parlante. Era il banchiere Corradenghi, un uomo savio e liberale, che fece tanto bene al prossimo. Lasciò venti milioni di sostanza. Poveri suoi figli, abbandonati in così tenera età dalle cure paterne! La moglie, poverina, la conoscete voi, quella bionda signora, piccina e graziosa, che avrà oggi i suoi quarantaquattro anni e l'usufrutto del patrimonio, sua vita naturale durante? Il bassorilievo è del celebre Ghisolfi, quel tale che l'accompagna sempre a teatro e a diporto. L'epigrafe dev'essere stata commessa a quel valente professore del Federici, ma oramai non si sa come appiccicarla qui, a cagione di un certo aggettivo inconsolabile, che ci starebbe proprio a pigione.—

La signora Luisa chinò il capo a quella infilzata di tristi verità.

–Siete crudele!—disse ella.

–Ma giusto, ma veritiero. Non son mica un'epigrafe, io, e non sono stato pagato per parlar qui in un modo, e lasciar pensare ed operare più lunge in un altro. Del resto, non c'è da far colpa a nessuno; tale il morto, tali i superstiti.—

Qualche lettore schizzinoso dirà che Laurenti poteva tenersi in corpo le sue considerazioni, dappoichè nella casa dei morti disdice la satira. Ma a cotesto si risponde: disdirà la satira nel cimitero, quando non c'entri più il panegirico, nè la bugia. In quanto a me, narratore fedele, ma anco un tantino mallevadore dei discorsi de' miei personaggi, non reputo sconvenevoli le note sarcastiche di Laurenti, imperocchè esse hanno riscontro nella consuetudine di tutti. Una mano sul cuore, lettori miei, e rispondetemi la verità. Chi di voi, andando a visitare un cimitero, non è stato tirato a simiglianti considerazioni, se non forse più acerbe?

Laurenti, poi, ci aveva la sua ragione particolare, a dire la verità nuda e cruda. Il suo disegno era pietoso, come vedrete a suo luogo.

Egli condusse la signora Argellani dinanzi ad un nome illustre nella scienza, e là, cavata una bella rosa che aveva tenuta nascosta sotto le risvolte dell'abito, la depose modestamente sull'urna.

–Che cosa fate?—gli chiese la signora Luisa, guardandolo in volto, e vedendo una lagrima tremargli negli occhi.

–Mando un saluto ad un amico, ad un maestro. Costui, signora, fu grande e fu umile. Hanno innalzato un monumento al suo ingegno; nessuno lo ha fatto al suo cuore, che fu più grande dell'ingegno a gran pezza. Povero e venerando amico! Vivo, lo avevano fatto commendatore; si ascoltavano le sue parole come altrettanti responsi; ed era onore grandissimo accompagnarsi con lui per le vie; ma una bronchite ha rotto il filo a tutte le ammirazioni, a tutti gli ossequi. Ossequi ed ammirazioni, si sono raccolti, sdebitati in questo marmo; l'affetto solo non reputa di avere saldato il suo debito alla rara bontà dell'animo, che faceva di quest'uomo un consolatore degli afflitti, la provvidenza degli sventurati. Imperocchè quest'uomo, o signora, è morto povero in una casa presso che vuota: quello che egli possedeva, lo avevano i bisognosi; la grande autorità ch'egli avrebbe potuto mettere a frutto per sè medesimo, fu sempre spesa a profitto d'altrui.

–Non siate adunque egoista,—soggiunse intenerita la donna gentile,—e consentite che anch'io metta la mano su questa rosa, per associarmi coll'animo al vostro tributo affettuoso. Ora voi, colle vostre parole, mi dimostrate che non è tutto menzogna in questi luoghi, come avevate detto pur dianzi.

–Ho io detto ciò in forma assoluta? No certo. E poi, anche il mio ricordo, che cos'è? La virtù di quest'uomo vive nelle mie ricordanze, ma come una pallida immagine del passato. Io, che l'ho amato come un padre, io vivo senza di lui, non sento la necessità di stargli daccanto. Gli altri, poi, e parlo dei buoni, leggono le sue opere, ma non hanno bisogno di salutar vivo l'autore. Vengono qui a caso, guardano con reverenza la sua tomba, e poi se ne vanno a desinare, forse un tal po' melanconici, per la visita fatta alla casa della morte, ma senza mandar giù un boccone di meno. Questa è la morte, o signora, e questa è la vita.—

Fecero alcuni passi in silenzio, chè ognuno dei due ci aveva da meditare su quel tema. Là presso era una porta, che metteva, per un ampio giro di scale, ad una galleria superiore. E per di là Guido fece salire la signora, affinchè ella cansasse la fatica di una lunga rampa all'aperto.

 

Sull'ultimo pianerottolo di quella scala, si apriva lateralmente una di quelle gallerie chiamate, con nome latino, colombarii; lunga sequela di nicchie aperte nei fianchi delle pareti, nelle quali si mettono le casse, e che poi si chiudono con un accoltellato di mattoni, sul quale si dà l'intonaco, e si appiastra l'epigrafe col suo numero d'ordine. Questa dei colombarii è la forma più triste della morte.

La signora Argellani, guidata dal medico, entrò nell'aria soffocata del colombario, e le si strinse il cuore alla vista di quella bassa vôlta, di quelle pareti le quali parevano doverla opprimere, man mano che si fosse inoltrata in quell'andito.

–Ohimè!—disse ella, guardando compassionevolmente quelle nicchie.—Come si ha da stare a disagio qui dentro! E non c'è fiori, non ghirlande, che dimostrino il memore affetto dei parenti e degli amici, a questi poveri rinchiusi!

–Che volete, signora? Si dimentica presto. C'è un'ora di viaggio, a venire fin qua.

–Ah, ecco delle foglie secche;—soggiunse ella;—gli avanzi di un mazzolino!

–Povera Caterina!—esclamò Guido, fermandosi a guardare là dove s'era fermata la signora.

Gli occhi della Argellani corsero allora a leggere l'epigrafe.

–Ah!—disse la donna gentile.—È qui la Caterina Stella?

E rimase immobile a guardare la nicchia, in atto di chi medita, col mento raccolto tra il pollice e il medio, il gomito stretto al seno, e l'altra mano penzoloni lungo le pieghe della veste.

Guido stette taciturno un tratto a contemplare quella statua vivente della meditazione, e indovinando i tristi pensieri che le ingombravano la mente, si fece daccanto a lei, parlandole in tal guisa:

–Sì, la Caterina Stella. Eccola lì, dietro questa parete sottile, tra quattro assicelle di quercia. Oltrepassate questo muro, spiate tra le fessure di quelle tavole cogli occhi della mente, e la vedrete, la Caterina Stella, il cui casato era così leggiadro tema di bisticci, foggiati a complimento. I suoi capegli d'oro, pari a quelli di madonna Laura, cantati da nuovi Petrarca, dipinti da un altro Simon Memmi, sono là entro, disciolti, senza la natìa lucentezza, corrosi dal tarlo. Quel volto ovale, quella bianchezza mirabile di carnagione, quegli occhi che mandavano faville….. non c'è più nulla! Vi ricordate della Caterina Stella ne' suoi bei tempi? C'era ressa di adoratori dintorno a lei, sebbene il marito fosse geloso come una fiera, e minacciasse pur sempre di mordere. Il Riccoboni lo dicevano il preferito tra tutti i suoi cavalieri, sebbene il Cigàla avesse avuto tre duelli per lei, e sebbene il Grandi, a chi ne parlava, dicesse con una certa sua aria misteriosa che le erano tutte chiacchere. Ella avrebbe forse trentadue anni, se vivesse; e sono già otto anni che la è qui povera Stella senza luce, povera Pleiade scomparsa dal firmamento! Io vengo qualche volta a vederla, e ho sempre notato che ella non ha mai avuto un fiore da nessuno, ella che ne riceveva tanti, il dì della sua festa, il 19 di Maggio! Nessuno de' suoi tanti adoratori, neppure quel tale che per lei si aperse nel petto una ferita, dichiarata risanabile in quaranta giorni, vien qui a piangere sulla tomba di lei, di lei che li aveva tutti quanti sotto il suo palchetto in teatro, pronti a raccogliere e voltare a sè ognuna delle occhiate che ella mandava sbadatamente in giro, o posti in sentinella sotto le sue finestre per cogliere il momento che ella si facesse a sollevare lo sportello della gelosia.

–E questi fiori secchi?—dimandò la signora Argellani.

–Sapete chi li ha posti qui?—disse Laurenti.—Il marito. Squallido come un tronco d'albero sul quale sia caduta la folgore, il solo amante vero che ella abbia avuto, fu lui. Gli altri tutti, allegro stuolo di farfalle, si sparpagliarono per l'aria. Egli in cambio, ogni anno, ogni mese, ogni settimana era qui, presso la sepoltura di sua moglie, e qui l'ho veduto entrar io molte volte. Ma oggi, anche lui s'è stancato, ed ha chiamato un'altra compagna sotto il vedovo tetto. Il suo dolore ha vissuto sette anni, e non ha potuto durare più a lungo neppur esso. Chi la ricorda più, ora, la povera Caterina dai capegli d'oro? Io, a caso, venuto qui insieme con voi. Tra i viventi che si accarezzano e si addentano laggiù, in quel popoloso centro di affetti e di rancori, la sua immagine non torna più alla mente di nessuno; il suo nome non è più sulle labbra di amici o di nemici; ella è morta due volte. Chi pensa all'orma sua sul selciato di Via Nuova, o sul battuto dell'Acquasola? Ah, bella cosa, in fede mia, bella cosa il morire!—

La signora Luisa era rimasta grandemente turbata da quel discorso doloroso del suo medico; ma l'ultima frase la scosse.

–E perchè no?—disse ella.—Bella cosa, pur sempre!

–Sì,—incalzò Laurenti,—bella cosa davvero! Con questa luce che splende fuori, voi sarete qui, rinchiusa in uno di questi androni, soffocata in una di queste nicchie, col capo da questa parte e i piedi dall'altra. Non vedrete più la terra, il mare, i fiori, sorriso di Dio. Qui sempre, sola, sola! Una volta all'anno, le cerimoniose usanze del mondo tireranno quassù un branco di curiosi viventi, che non volgeranno nemmeno uno sguardo su voi; gente felice, o distratta, dimentichevole sempre, che verrà a fare la sua passeggiata, e sarà molto, imperocchè i cento presenti faranno pensare ai centomila che stanno lontani. Se i morti pensano, se l'anima loro rimane e in qualche modo si dà pensiero del suo abito logoro, e' debbono pure dolersi di aver posto il loro affetto in cuori di sasso, di aver sudato per figli ingrati, di aver patito per chi non rammenta più che fossero nati. E allora che pensieri, che amarezze, nella notte di quelle nicchie sconsolate! Addio, Caterina dai capegli d'oro! Io non ho mai vegliato sotto le vostre finestre, non ho mai desiderato uno de' vostri sguardi fiammanti; pure, non vengo mai al camposanto, senza salire quassù, a salutarvi e portarvi le novelle degli uomini che vi hanno dimenticata.—

Ciò detto, Guido si volse alla donna gentile che stava ad udirlo.

–Ed ecco, o signora, per chi spesso si muore. L'amore…. bella cosa! Pigliatevi il fastidio di morire per cotesto, di lasciare il sole, i supremi diletti della intelligenza, le ineffabili consolazioni della fede, della carità, della speranza, il gusto delle arti, la curiosa investigazione delle scienze, la ricerca delle anime buone che intendano la vostra, e colla vostra facciano manipolo contro il volgo profano! Il Nume, a cui v'immolate, merita davvero il sacrifizio di questi nonnulla!—

–E le vostre consolazioni non tradiscono del pari? La ricerca delle anime buone non conduce ella forse di sovente in inganno?

–Sì, di sovente; ma chi cerca trova; gli inganni sono fermate, sono ostacoli, che non debbono disanimare i generosi, come il mal esito di uno sperimento non disanima il cultore della scienza. Del resto, il paragone tra l'amore e le altre consolazioni di cui vi ho parlato, non corre. Lo scienziato che studia, non si avvilisce punto per aver fallita la strada; l'uomo che ha errato nel giudicare degli altri, non si disonora a sperare che nuovi amici valgano meglio dei primi; laddove nelle cose di amore, segnatamente per le donne, il cercar molto, il far troppi sperimenti, conduce alla abbiettezza. Ma, appunto perchè non si possono moltiplicare le prove, appunto perchè bisogna starsene alle prime, non s'ha nemmanco a sentenziare sommariamente e condannarsi da sè a scontar la pena di un errore. Gli affetti mal posti, quando si riconoscono tali, contristano; ma non dobbiamo altrimenti lasciarci sopraffare; tanto più che l'amore, considerato in sè stesso, non è punto necessario alla vita.