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L'undecimo comandamento: Romanzo

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– Partirete domani, se così vi piace; – soggiunse il padre Anacleto. – Dopo tutto, meglio così. E ditemi… Dove andrete?

– A Castelnuovo; – rispose il serafino, chinando la testa.

Potrei aggiungere che chinava la testa per nascondere il suo rossore. Ma, in verità, se lo dicessi, non potrei sostenerlo. La cosa non sarebbe neanche stata necessaria a quell'ora. Le ombre della notte calavano sul giardino del convento. I grilli incominciavano a cantare da tutti i punti della vallata. E il povero padre Anacleto sentiva una gran voglia di mandarli a quel paese.

XIX

– Ma, di grazia, ora che siamo fuori, si potrebbe sapere perchè si va via, così di schianto, senza dire neanche buon giorno?

– Non mi dir nulla, zio! Si va via…

– Dopo essere venuti, lo capisco, era il meglio che si potesse fare.

– Ah, sì, ho fatto male a venirci. Se ti avessi obbedito!

– Tarda confessione, ma preziosa. Te la ricorderò per le altre occasioni. Il polo artico! L'equatore!.. Sai, non ci vengo, al polo; e all'equatore, nemmeno.

– No, non dubitare, non si andrà più in nessun luogo. Son divenuta una donna di casa. Da oggi in poi si rimarrà chiusi a Castelnuovo.

– Ecco un'altra esagerazione. Per un viaggetto in paesi cristiani, non ho mai detto di no. E se ora si dèsse una corsa a Torino, a Milano, a Venezia…

– No, voglio restare a Castelnuovo. Che cosa ci manca, laggiù? Tu ci hai tutte le tue abitudini; io le mie, i libri, i fiori, i pennelli. Sai, zio? la vita può esser bella anche così. Credo anzi che sia bella solamente così. Uno scrittore ha detto che la più bella cosa del mondo è la luce; poi vien subito il verde.

– Sarà un matto.

– No, sai! Voleva dire che il massimo dei piaceri è quello degli occhi. Vedere è sapere.

– Passi per la luce. Ma il verde! Che c'entra il verde, in seconda linea, se è già incluso fra i sette colori del prisma?

– È vero; ma lo scrittore, parlando del verde, intendeva lo spettacolo della campagna.

– Ha bisogno di troppi commenti, il tuo scrittore. E, se Dio vuole, non sarà Dante. Ma parliamo d'altro. Andare a Castelnuovo! Non ti sembra un errore?

– Già siamo in cammino, e, dovunque tu volessi andare, ti bisognerebbe sempre toccar l'uscio di casa.

– Lo capisco, ma si può andare a casa per fuggire da capo, oggi stesso o domani. Senti, ragazza mia, le ciarle di Castelnuovo mi spaventano. Tra noi e gl'importuni ci vorrei mettere un mese, almeno una quindicina di giorni, di cui si potesse dire dove li abbiamo passati. Intanto, nel nostro soggiorno temporaneo, si vedrebbe, si concerterebbe…

– No, non me ne parlare; non voglio.

– Non voglio, è una grama ragione.

– E poi, per viaggiare, fa troppo caldo.

– Oh, eccone una, che è molto seria, in verità! Come se qui presso, e con la tonaca del convento, si fosse stati al fresco! —

Questo dialogo, e il rimanente che si ommette per brevità, occorreva tra il signor Prospero Gentili e la sua bionda nepote, Adele Ruzzani, all'alba, nella discesa tra il ponte di San Bruno e la vallata sottostante, dove i nostri due personaggi erano aspettati per salire in carrozza.

Erano usciti dal convento alle cinque del mattino. L'ordine di far venire la carrozza laggiù era stato dato dal padre Anacleto la sera antecedente, subito dopo il colloquio in giardino. Era necessario provvedere in tempo, perchè lassù le carrozze non potevan giungere, non avendo gli antichi frati pensato mai a condurre una strada carrozzabile fino alla vetta del monte.

Come dovessero accogliere la notizia di quella partenza i frati nuovi, lascio argomentare a voi. Essi non si erano avveduti, non avevano sospettato di nulla in quella sera, perchè il padre Anacleto avea fatto il suo colpo alla chetichella, da quell'uomo savio e prudente che era. Povero padre Anacleto! La sua prudenza e la sua saviezza non lo avevano mica salvato dalle interne burrasche. In quella notte che era l'ultima del soggiorno di quel monachino biondo al convento, il padre Anacleto aveva passato ore d'inferno. La pena dei trasgressori dell'undecimo comandamento, che il monachino biondo non gli aveva voluto dire, lasciandogli la cura d'indovinarla da sè, egli già incominciava a scontarla. E ne sentì più acerbo lo strazio nell'anima, quando, allo scoccar delle cinque del mattino, gli venne udito un rumore di passi nel corridoio; indizio certo di una aspettata partenza.

Pochi minuti dopo le cinque, erano venuti a battere all'uscio della sua cella. Era andato ad aprire e il fratello Giocondo gli aveva recata una carta di visita, triste saluto degli ospiti che erano partiti pur dianzi. La carta diceva per l'appunto così:

PROSPERO GENTILI

e la sua nepote Adele Ruzzani, ringraziano il padre Anacleto, priore di San Bruno, della cortese ospitalità ad essi accordata. Ne serberanno grata memoria e rivedranno assai volentieri l'amico, in Castelnuovo Bedonia (palazzo Ruzzani, via S. Michele, N. 8) se egli vorrà ricordarsi de' suoi riconoscenti novizi ed amici.

Il nome del signor Prospero, come potete immaginare, era stampato; il resto era fatto a penna, e con una leggiadra mano di scritto, che non doveva esser quella del signor Prospero.

– Ah serafino! serafino! – esclamò il padre Anacleto, sospirando, poi ch'ebbe letto due volte.

Non era più il caso di aspettare un sonno che per tutta notte non aveva voluto scendere sulle ciglia del padre Anacleto. Il priore uscì dalla sua cella, e andò a passeggiare nel chiostro. Il luogo era deserto; peggio ancora, senza luce, quantunque incominciassero a penetrarvi i primi raggi del sole. Ma voi capirete benissimo che qui si parla per via di metafora, seguendo il pensiero del padre Anacleto, che ricordava in quel punto il verso dantesco:

Io venni in loco d'ogni luce muto, e ben presto avrebbe potuto aggiungervi i due seguenti, che dànno intiera la terzina:

Che mugghia, come fa mar per tempesta, Se da contrarii venti è combattuto.

Infatti, quella mattina, all'ora del refettorio, il padre Anacleto fu posto in mezzo da' suoi conventuali, che cominciarono a tempestarlo di domande.

– Padre priore!

– Orbene?

– I novizi?

– Sono partiti stamane.

– In che modo?

– Ma… nel modo più naturale. A piedi, fino al fondo della discesa, dove hanno trovata la carrozza che li aspettava, per ricondurli a Castelnuovo. Signori miei, – soggiunse il priore, vedendo che quel breve racconto non persuadeva molto i suoi uditori, – dopo ciò che era intervenuto ieri mattina…

– Che cosa è intervenuto?

– Lo sapete pure: il mio colloquio col sottoprefetto di Castelnuovo. Dopo quel colloquio, di cui vi ho subito fatto parola, voi capirete bene che essi non potevano più rimanere a San Bruno.

– È doloroso!.. – esclamò il padre Restituto.

– Eh, lo dico ancor io; – rispose il priore.

– È doloroso, – ripigliò il padre Restituto, – che siate venuto a questa estremità, senza sentire…

– Che cosa? I vostri pareri? Li conoscevo già da ciò che si è detto, e lungamente, nella ultima adunanza del capitolo.

– C'è ben altro che il capitolo! – gridò il padre Restituto. – Se volete degnarvi di rammentare quel che s'è detto ieri, prima di entrare in refettorio, io stesso, che prima non vedevo di buon occhio la presenza dei novizi tra noi, vi ho confessato sinceramente d'essermi convertito alle vostre ragioni.

– Era una cortesia da parte vostra, – disse il priore, inchinandosi. – Ma restava sempre una opinione personale.

– A cui partecipavano tutti; – entrò a dire il padre Agapito. – Del resto, – soggiunse egli speditamente, per non lasciarsi sopraffare da nessuno, – e appunto perchè si era parlato di conversioni, avreste pure potuto aspettare un giorno e un'ora.

– Non bruciava mica il convento! – esclamò il padre Ilarione.

– Eccone un altro! – disse il priore, sforzandosi di ridere, ma assai più disposto a mandarli tutti al diavolo in un solo convoglio.

– E un altro ancora, e un altro, fino ad avere l'unanimità; – ribattè il padre Ilarione. – Scusate, priore, non c'eravate che voi, a vedere la necessità di mandar via i novizi: noi altri si era già tutti persuasi di tenerli.

– Ma per che farne, Dio buono? – gridò il priore, che già stava per mettere la pazienza da un lato. – Non voglio credere che vi passasse per la testa di farne due frati!

– E perchè no? Erano pure venuti per questo!

– Via, signori, parliamo sul serio, se si può. Ci eravamo prestati cortesemente ad un capriccetto di donna; ecco tutto. Non si fonda impunemente un ordine come il nostro, senza destare la curiosità della gente, senza far nascere le voglie più strane. Una ragazza molto gentile e molto romantica, s'è messa in capo di vedere il convento; ha trovato il modo di violare la consegna, o la clausura, se così mi è lecito dire. Non l'abbiamo riconosciuta subito; perciò ha potuto ella rimanere tra noi. Ma ditemi, o signori; poichè la cosa è stata scoperta, anzi, poichè c'è stata solennemente annunziata, era prudente da parte nostra, era savio, di dire a quella ragazza: restate? E in un convento d'uomini?

– Di cavalieri, lo avete detto voi; – osservò il padre Agapito.

– Sì, per non mandar via il padrino, fino a tanto non ci constava nulla di lui. Ma da ieri, o signori, avevamo una notizia ufficiale, e la confessione stessa del padrino Adelindo.

– Confessione ricevuta da voi! – ripetè ironicamente il padre Agapito.

Il priore era già per uscire dai gangheri.

– Di grazia, che cosa vorreste dire con ciò?

– Che era una confessione insufficiente, fatta a voi solo. Noi tutti, radunati in capitolo, avevamo il diritto di mandar via i novizi. E voi, facendo di vostro capo, lasciate sospettare…

– Signor Mario Novelli! – interruppe il priore.

 

– Lasciate sospettare, – proseguì stizzito il padre Agapito, – che vi piacesse poco, in così gelosa materia – (e calcò sull'epiteto) – aver consiglio da noi.

– Signor Mario Novelli! – ripetè il priore, alzando la voce d'un tono.

Ma l'altro aveva già perdute le staffe.

– Mario Novelli! Mario Novelli! – ripetè, alzando la voce a sua volta. – Che cosa è questa novità di chiamarmi oggi col mio nome di gentiluomo?

– Per richiamarvi appunto al vostro debito di gentiluomo; – replicò il padre Anacleto. – Mi avete detto villania, e ne chiamo a testimoni i vostri colleghi. Signor Mario Novelli, – proseguì con accento severo il priore, – appese alla parete della mia cella ci sono due lame di Toledo e due canne Lepage. E questo per farvi intendere che, se accetto le osservazioni di tutti, non ammetto le insinuazioni di nessuno.

– Poveri noi! – gridò il padre Marcellino, in mezzo al tumulto che le parole del priore avevano destato nella comunità. – Non ci mancava più altro.

– Conte Gualandi del Poggio, – rispondeva frattanto il padre Agapito, o se vi torna meglio, il signor Mario Novelli, – sono a vostra disposizione.

– Ma no, non è possibile! – gridarono parecchi, cercando d'intromettersi. – Un po' di calma, signori! Non facciamo uno scandalo.

– È necessario; – rispose il padre Restituto. – Il priore ha provocato.

– Che provocato! – ribattè il padre Anselmo. – Si è difeso contro un ingiurioso sospetto. —

La lite era per inasprirsi anche fra le seconde parti. Ma il priore la troncò subito con queste gravi parole:

– Signori, vi prego! Per qualche ora almeno, sono ancora il vostro superiore. Usatemi la cortesia di tenervi neutrali e lasciate a me la cura di sciogliere le questioni che mi risguardano. Signor Novelli, – proseguì, rivolgendosi al padre Agapito; – eccovi i miei padrini: il signor Giorgio Verna e il signor Nello Altoviti. —

Così dicendo, additava il padre Anselmo e il padre Bonaventura.

Il padre Agapito s'inchinò. E rivolgendosi ai due che gli erano stati indicati, disse loro:

– Favoriscano intendersi coi miei padrini: il signor Pellegrino della Rosa e il signor Ariodante Soresi. —

Indicava, così dicendo, il padre Ilarione e il padre Restituto. E questi due, fatto l'inchino di rigore, si allontanarono in compagnia degli altri, che aveva indicati il priore.

Così, per un padrino che era fuggito da San Bruno, ce n'erano quattro in moto, nel chiostro. Ma di specie diversa, pur troppo, e, sia detto senza intenzione di offenderli, assai meno belli del primo.

Al tumulto era succeduta la calma: una calma solenne, la calma dei grandi apparecchi. Il grosso dei frati bisbigliava da un lato, ma l'interesse della scena era tutto raccolto in quel crocchio di quattro, che trattavano le condizioni dello scontro. Anche essi bisbigliavano; ma il loro bisbiglio decideva un gran punto, e da esso pendevano le sorti di due uomini.

Il padre Anacleto, dopo fatta la presentazione dei suoi assistenti, era andato a passeggiare in giardino. Come fu giunto al crocicchio dei sentieri, dove la sera antecedente gli era occorso quel dialogo importante che vi ho riferito, gli parve opportuno di andarsi a posare su quel sedile di pietra che vi ho pure accennato. Ma non al medesimo posto ch'egli aveva la sera antecedente; un pochettino più in là, verso lo spigolo.

Puerilità, direte; ma di queste puerilità s'intesse la vita. Se ci pensate un tantino, se interrogate i vostri ricordi, son certo che ammetterete anche questo.

Al padre Anacleto mancò il tempo di richiamare le memorie del luogo, perchè il padre Anselmo e il padre Bonaventura gli furono quasi subito ai fianchi.

– Orbene? – chiese egli, appena li vide apparire.

– Si è combinato; – risposero.

– Ora, arma e luogo?

– Che frase alfieresca! V'imiteremo anche noi, rispondendovi: subito, spada, qui.

– Grazie! – disse il padre Anacleto. – Aspettiamoli, dunque.

– Eccoli appunto; – ripigliò il padre Anselmo, segnando col capo tra le piante, donde appariva il padre Agapito, seguito dai padri Restituto e Ilarione.

Gravi ambedue, i padrini di Mario Novelli; gravi come si conveniva alla dignità dell'ufficio e alla solennità del momento. Uno di essi, il padre Restituto, portava tra mani le due spade di Toledo, spiccate allora dalla parete, nella cella del padre Anacleto.

– Conte, – disse egli, – abbiamo scelto le vostre per una semplicissima ragione. Non ce n'erano altre abbastanza buone in convento. Del resto, quantunque voi le abbiate forse maneggiate anni fa, non ci consta che in due anni, dacchè siete a San Bruno, vi siate mai più esercitato con esse.

– Nemmeno con semplici fioretti; – rispose il padre Anacleto. – Del resto, quelle due lame non mi sono servite mai. Erano il ricordo prezioso d'un amico d'infanzia, d'un compagno d'armi, e non ho voluto separarmene.

– Benissimo; – replicò il padre Restituto. – Anche il signor Novelli dichiara di esser fuori di esercizio da un anno. Sicchè, le condizioni sembrano pareggiate abbastanza. —

Fatte queste ed altre poche parole con la fredda urbanità analoga al caso, i padrini scelsero il terreno lì presso, ed assegnarono i posti ai combattenti. Intanto il padre Tranquillo, medico e chirurgo della comunità, si giovò del sedile, per deporvi, debitamente aperta, la busta dei ferri. Il fratello Giocondo, nominato suo aiutante, era andato a prendere acqua alla fontana, e tornava con la secchia ripiena, dando occhiate in qua e in là, con un'aria melensa da non si dire.

Il padre Anselmo, come più pratico di quei negozi, fu per comune accordo dei colleghi nominato maestro di combattimento. Egli, perciò, entrando subito nella dignità dell'ufficio, prese le due spade, le misurò l'una contro l'altra, e, dopo averle poste in croce sul forte delle lame, le porse al padre Restituto. E questi, indettato dal maestro di combattimento, andò a presentarle dalla parte della impugnatura, ai due combattenti. Una ne prese il conte Gualandi del Poggio, senza badarci più che tanto; l'altra andò al signor Mario Novelli.

– Signori, – disse allora il padre Anselmo, facendosi avanti con un fioretto in pugno, come simbolo della sua autorità, – avremmo stabilito volentieri uno scontro al primo sangue, trattandosi di una provocazione fatta senz'astio, in un momento di collera, e dopo tutto in famiglia. Ma perchè l'arma, con poca varietà di colpi, ha molta varietà di conseguenze, il dire primo sangue non vorrebbe dir nulla, potendo anche darsi che una sferzata violenta, su qualche muscolo importante, riescisse più grave per la continuazione del duello che non una vera puntata, quando non penetrasse più di due o tre centimetri. Vogliano scusare questo linguaggio, poco amabile in verità, ma necessario per la chiarezza della cosa. Abbiamo dunque pensato di rimettere la cessazione del combattimento all'arbitrio del chirurgo, secondo la gravità delle lesioni. —

Il fratello Giocondo si premette il ventre con un moto involontario delle palme. Una di quelle botte, accennate dal padre Anselmo col nome generico e quasi innocente di lesioni, gli pareva quasi di riceverla lui. E frattanto seguitava a dare occhiate in qua e in là, come se aspettasse qualcuno. I carabinieri, forse?

Frattanto, i due avversarii, con le punte rivolte a terra, s'inchinavano in atto di assentimento. Il padre Anselmo proseguì in questa forma:

– Signori, voi obbedirete rigorosamente ai comandi. Vi darò l'alto, quante volte mi sembrerà che uno di voi sia ferito, o abbia mestieri di ricogliere il fiato. Siete fuori d'esercizio tutt'e due, ed anche questo vi può intervenire. Siamo intesi; – conchiuse il padre Anselmo. – Signori, rammentate questo: che combattete lealmente. A voi! —

E accompagnato il segnale con una alzata del fioretto che gli serviva come bastone di comando, il maestro di combattimento si tirò indietro d'un passo, per lasciar libero il giuoco dei ferri.

Strana combinazione! Il duello si faceva davanti a quel sedile di pietra, su cui, la sera antecedente, si era posato il monachino biondo. Dov'era, in quel punto, e che pensava il monachino? Se avesse mai potuto immaginarsi quello che succedeva per lui! Il padre Anacleto diede un'occhiata a quel posto, e gli parve di vederlo là, col suo viso d'angelo e con gli occhi intenti alla scena. Ah, monachino adorato! Per quale dei due avversarii erano i vostri sguardi più teneri? Il padre Anacleto non lo distinse bene; forse perchè, la sera antecedente, al ricordo del padre Agapito, il monachino biondo si era chiuso in silenzio diplomatico. Lo sapete pure, il proverbio: chi tace non dice niente.

Comunque fosse, il dubbio non era punto piacevole. E il padre Anacleto, o, se vi torna meglio, il conte Gualandi del Poggio, diede un'occhiata al suo avversario, un'occhiata che pareva volesse passarlo fuor fuori; ma subito dopo sorrise, come bisogna sorridere nell'atto di sbudellare il proprio simile, od anche di esserne sbudellato; stese il braccio destro, alzò il braccio sinistro, ripiegando la palma verso la testa, e cadde in guardia con una grazia, che dimostrava l'uso antico e la padronanza dell'arma.

Qui, forse, v'immaginerete, che il fratello Giocondo, non che stringersi il ventre, si dèsse a dirittura per morto. Disingannatevi; proprio in quel punto il fratello Giocondo metteva un grido di gioia, che fece voltare la testa ai due combattenti.

– Che c'è? – disse il priore.

Ma prima che il converso potesse dargli risposta, sboccarono da un viale i conventuali di San Bruno. Otto in numero, perchè gli altri sei erano già sul terreno, e i due novizi erano partiti, otto in numero, ma disposti a far chiasso per sedici. Dovevano essersi concertati per quella irruzione, ed anche essersi appiattati in tempo dietro un filare di cipressi, per saltar fuori nel momento opportuno, preparati a sentirsi dire anche delle impertinenze, pur di mandare a monte ogni cosa.

– Non lo vogliamo, questo duello! – gridarono. – Non lo vogliamo! Non lo vogliamo! —

Il padre Anacleto fece un gesto espressivo di malcontento.

– Signori, vi prego; – disse egli; – voi non avete a che fare in questo luogo; rammentate gli obblighi della cavalleria.

– Che cavalleria d'Egitto! Qui c'è frateria e non altro. I Templarii, che erano frati e cavalieri, son morti da un pezzo.

– Poi, – soggiunse il padre Marcellino, che pareva il capitano della banda, – primo debito di cavalieri è quello di saper ragionare. E voi, sia detto con vostra licenza, non sapete, o non volete, che torna lo stesso.

– Sia pure, non vogliamo; – rispose il priore. – Vedete dunque che non è il caso d'insegnarci più nulla. —

E faceva l'atto di rimettersi in guardia. Ma lo spazio tra lui e il padre Agapito era occupato. Bisognava infilzarne parecchi, prima di giungere al petto dell'avversario.

– Ad ogni modo, sentiamolo! – disse il padre Restituto, vedendo che non c'era verso di mandar via gl'importuni.

– Forse ci avrà qualcosa di nuovo; – osservò il padre Tranquillo.

– Sì, anche di nuovo; – rispose il padre Marcellino, cogliendo la frase in aria. – Siamo venuti a predicare la pace, e vi mettiamo davanti agli occhi la popolazione di Castelnuovo, che trarrà partito da questo scandalo, per dire del nostro convento tutto il male possibile.

– Dicano quel che vogliono; – borbottò il padre Anacleto; – non me ne importa un bel nulla.

– A voi, sta bene; ma non così a noi, che non abbiamo le bizze in corpo. Il convento, o signori…

– Che convento! Vada al diavolo il convento! – gridò il padre Agapito, per non essere da meno del suo avversario.

– Ah, ecco un'idea! – ripigliò il padre Marcellino. – Al diavolo il convento! Cioè, traducendo la vostra esclamazione in forma piana e cortese, sciogliamo pure la nostra comunità. Non mi oppongo al disegno. Tanto, vedete, signori miei, qui c'è entrato il demonio. La pace se n'è andata, e niente varrà a ricondurla tra noi. Inoltre, senza quella donna che è partita stamane, non c'è più vita, non c'è più luce, a San Bruno; ma tenebre, ve lo dirò col Salmista, tenebre ed ombra di morte. —

I duellanti rimasero di sasso; il padre Restituto cascava dalle nuvole.

– Voi, padre Marcellino! – esclamò. – Siete voi, che parlate così?

– Io, sì, io! E che vi credevate? che fossi di pietra? Sono, è vero, il più tranquillo di tutti noi, non escluso il padre Tranquillo, che ha messo i ferri in batteria. Ma ci ho un cuore, ci ho un cuore… come voi, Restituto, come voi, Agapito, come voi, Ilarione, Bonaventura ed Anselmo, che siete tutti innamorati. Negatelo, sì, fate la bella figura di Pietro nel pretorio di Gerusalemme! Peccato che non ci sia un gallo, per cantarci tre volte! Ma la farò io, la parte del gallo evangelico. Voi, Agapito, ieri mattina, mentre il sottoprefetto di Castelnuovo tratteneva il priore a colloquio, eravate fuggito alle Querci, sulle orme dei novizi; e non già per amore del novizio vecchio, si capisce. E voi, Restituto, che facevate frattanto? Andavate in qua e in là, chiedendo a tutti dove fosse andato l'amico Agapito. E non già per desiderio dell'amico, si capisce anche questo. E voi tutti, Agapito, Restituto, Ilarione, con qualchedun altro di giunta, iersera, mentre il priore discorreva col padrino Adelindo, per consigliarlo a darci questa brutta mattinata, che cosa facevate, di grazia? Lavoravate a tutt'uomo per muovere lo zio Prospero, e mandarlo in giardino, ad interrompere un colloquio che vi rendeva feroci. Dite di no, se vi dà l'animo! Volevate contrariare un'opera creduta necessaria dal nostro priore, dall'unico tra noi che non avesse perduta la testa, dall'unico tra noi che non fosse cotto del monachino biondo. —

 

Gli ascoltatori erano rimasti scombussolati da quell'assalto oratorio. Volevano parlare, interrompere il corso delle rivelazioni, ma non ne venivano a capo. Il padre Marcellino aveva preso l'aìre e voleva giungere in fondo. Ma anche lui dovette fermarsi un istante, per riprendere il fiato. E qui lo interruppe il priore.

– V'ingannate, Marcellino; – diss'egli gravemente. – Io sono più innamorato di loro; più innamorato di voi tutti, messi insieme.

– Oh! oh! – gridarono tutti in coro.

– Non c'è oh che tenga; – ripigliò il padre Anacleto. – Innamorato morto! Il padre Marcellino ha dato l'esempio delle confessioni; ricevete la mia. —

Il padre Agapito non era rimasto maravigliato come gli altri. Che il priore fosse innamorato del serafino biondo egli lo sospettava da parecchi giorni; e da ventiquattr'ore, poi, sospettava anche dell'altro, cioè a dire che fosse riamato. Gli avevano messo quella pulce nell'orecchio certi discorsi fatti alle Querci, dond'era per l'appunto ritornato al convento con quell'aria di cattivo umore, che ho già avuto l'onore di accennarvi. Lassù, presso il romitorio, dov'erano andati a consumare la mattinata, per cansare la vista del sottoprefetto di Castelnuovo, il serafino biondo non aveva fatto quasi altro che discorrere del padre Anacleto. Sulle prime, il padre Agapito non ci aveva badato, e dava intorno al priore di San Bruno tutte le notizie che il serafino aveva l'aria di chiedergli per semplice curiosità. Ma poi, volendo egli ricondurre la conversazione in una cerchia più intima, e non venendone a capo, perchè il serafino tornava sempre sul primo argomento, si era insospettito, anzi impermalito senz'altro, e l'avere il serafino accettata la sua ghirlanda di fiammole non era bastato a rasserenare la fronte del signor Mario Novelli. Perciò immaginate di che animo fosse, sul pomeriggio, quando il priore stava a colloquio col serafino; e quanto volentieri avesse dato fuori, nella mattina seguente, fino al segno di far perdere la pazienza al padre Anacleto e di buscarsi una sfida.

Egli, adunque, non si maravigliò della confessione del priore, considerata in sè stessa, ma piuttosto della sincerità bonaria con cui era stata fatta. E volle, come suol dirsi, averne l'intiero.

– Amate? – diss'egli. – E… siete felice?

– Non intendo la vostra domanda, – rispose il priore.

Il padre Agapito diede una crollata di spalle in segno di stizza.

– Vi domando se siete riamato; – replicò.

– Riamato? Non so.

– Come? Non sapete! È strano.

– Perchè? Non so nulla, e per una semplice ragione. Non ho chiesto nulla e non mi si è dovuto rispondere.

– Ah, questa, poi, è grossa! – esclamò il padre Ilarione. – Siete stato tre ore a confessare il monachino, e non gli avete domandato nulla?

– Vorreste dubitare della mia parola? – chiese il padre Anacleto. – Mettete che io sia stato uno sciocco, e sarete nel vero.

– Il priore ha ragione; – entrò a dire il padre Marcellino.

– Grazie! – rispose il priore, inchinandosi.

– Oh, non già per la patente di sciocco, che vi siete data da voi; – replicò il padre Marcellino; – ma per quel rispetto che merita una vostra affermazione. Voi dite che una cosa non è, e noi tutti dobbiamo credervi. Non ci avete mai dato argomento a sospettare il contrario.

– È vero! è vero! – gridarono tutti. – Anche il padre Agapito dovrà convenirne.

– Farò di più, o signori; – disse il padre Agapito, confuso. – Padre Anacleto… conte Gualandi… volete voi stringermi la mano? —

Il padre Anacleto gli dischiuse le braccia, fra gli applausi di tutta la comunità.

Quell'abbraccio amichevole, riscaldò il padre Agapito, al secolo Mario Novelli; l'applauso dei colleghi gli fece perdere la tramontana.

Anch'egli si trovò in vena di schiettezza e di magnanimità.

– Potrei dire al priore, a tutti, a tutti voi, – cominciò egli, – che ognuno è libero di farsi avanti col serafino. Ma, ohimè, signori! Nel cuore del serafino è posto occupato. Ieri mattina, mentre io cercavo di guadagnar terreno, ho dovuto accorgermi della triste verità. Accennavo Agapito, e mi si rispondeva Anacleto; tanto che mi seccai e proposi di ritornare al convento. Priore, è una brutta cosa, la gelosia. Ma essa non farà velo alla mia coscienza. Voi siete un cavaliere, e siete anche migliore di me. Sì, lasciatemelo dire, siete migliore di me. Voi non avete parlato, e la signorina Ruzzani è partita da San Bruno. Io, invece, ho cercato di parlare… e non sono stato ascoltato. Eccovi la mia confessione, sincera come la vostra. Restiamo in pace, signor priore?

– Restiamo; – disse il padre Anacleto. – Soltanto vi domanderò di lasciare da banda il titolo. Non voglio esser priore; voglio rimanere l'ultimo dei frati di San Bruno. Ricorderete tutti che ve l'ho detto da un pezzo.

– È un nobile atto! – gridò il padre Restituto. – Ma se accettassimo la proposta del padre Marcellino?.. Se sciogliessimo la comunità?.. Signori, voi tutti lo intendete, lo sentite tutti, come l'ha detto il padre Marcellino; qui c'è stato il demonio; non c'è più pace, nè felicità, dove non c'è più luce. Già, anch'io lo pensavo da tempo; abbiamo fatti i conti senza la voce di natura.

– L'undecimo comandamento! – esclamò il priore. – Anche voi?

– Che undecimo? che comandamento?

– Sicuro! Starai nel consorzio de' tuoi simili; vivrai della loro medesima vita; amerai e soffrirai con essi; perchè non ti è dato sottrarti alle legge comune. Questo è l'undecimo comandamento; mi è stato rivelato: – disse il padre Anacleto.

– Sul Sinai? – chiese il padre Ilarione.

– Sul Tabor; – disse il padre Marcellino, ridendo. – Non vedete com'è trasfigurato, il nostro priore? Infatti, egli ha veduta la verità; si è trovato a faccia faccia con lei. E adesso, signori miei, sentite. Questi conventi laici si possono istituire per chiasso, e perchè durino una stagione. Ma istituiti sul serio, perchè ci s'abbia a passare la vita, tornano uggiosi più degli antichi, dove almeno alla mortificazione della carne rispondeva la speranza di un bene immortale. Torniamo al secolo, signori; il convento di San Bruno, nostra proprietà collettiva, lo daremo alle Opere pie; il materiale scientifico alle scuole di Castelnuovo. Agli altri particolari si provvederà; intanto io vi propongo il seguente ordine del giorno: "La comunità di San Bruno è sciolta."

Un grido, un urlo di approvazione, accolse la proposta del padre Marcellino.

– È il caso di raccogliere i ferri; – disse il padre Tranquillo.

E richiuse la busta.