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XX

Il ritorno della signorina Ruzzani e del suo degnissimo zio, signor Prospero Gentili, non poteva restar celato agli abitanti di Castelnuovo. La notizia si sparse immediatamente dalla via San Michele, dove si era fermata la carrozza, a tutti i quartieri della città. I quartieri, veramente, non erano che due, cioè Castelnuovo alto e Castelnuovo basso; ma volevo dire per tutte le vie e per tutti i ritrovi della gente che suole occuparsi dei fatti del prossimo.

La mattina dopo l'arrivo, il signor Prospero fece la sua apparizione ufficiale per le vie di Castelnuovo alto, dov'era il meglio della società locale, coi palazzi più ragguardevoli, incominciando dal castello, in cui stava allogata la sottoprefettura con tutti gli uffici dipendenti, l'albergo della inevitabile Croce di Malta, la gran piazza dei Signori e il caffè della Rosa bianca, che era il rifugio degli sfaccendati del capoluogo.

Di questi, il signor Prospero ne incontrò subito una mezza dozzina. E non gli dolse punto; che anzi! Oramai la sciocchezza era stata fatta e bisognava sostenerne le conseguenze a grinta dura. Sentite, ad esempio, questo dialoghetto ch'egli ebbe col conte Gamberini.

– Oh, signor Prospero! Ben tornato da…

– Sicuro, da… Grazie tante! La famiglia sta bene?

– Benissimo. E la signorina Adele? Si è divertita, a… Oh! insomma signor Prospero, si può sapere dove siete stati? A Torino, forse?

– A Torino, certamente… A Torino e in altri siti.

– Ah! in altri siti?

– Sicuro, di qua e di là, come l'Ebreo errante. Noi si esce poco da Castelnuovo… Io, almeno, mi allontano poco volentieri da questi quattro sassi; ma quando esco, vedete, son capace di andare in capo al mondo.

– Al polo, per esempio.

– O all'equatore; nientemeno. Ma, per questa volta, ho cansati gli estremi; – disse il signor Prospero, dando, senza volerlo, una rifiatata di contentezza. – Vi prego, Don Ettore, di presentare i miei ossequi alla contessa e alla contessina.

– Grazie, e voi ricambierete i miei alla signorina Adele. Quella cara e bella fanciulla! Si è tanto parlato di lei, in questi venti giorni!..

– Oh, lo credo, lo credo; ci amate tanto! Don Ettore, son proprio felice di avervi stretta la mano. —

E scappò via, il signor Prospero, con una leggerezza, di cui, a vederlo, così tondo com'era, non lo avreste creduto capace.

– Diavolo d'un Gentili! – esclamò il conte Gamberini, vedendoselo guizzar di mano, vispo ed allegro come un pesce, che abbia mangiata l'esca senza restare all'amo. – Non ha l'aria di canzonarmi? E dopo la bella impresa del convento dei matti! Che facce toste! Ma già, questi villani rifatti, perchè hanno i milioni, si credono lecita ogni cosa. —

Con questo ragionamento, da cui potrete argomentare che la contea dei Gamberini non valeva un milione, il signor conte si ricattò dell'aria canzonatoria del signor Prospero. Il quale, dopo tutto, non voleva canzonare nessuno, ma solamente mostrarsi tetragono agli assalti della maldicenza di Castelnuovo Bedonia.

– Se credete che mi lasci prendere in giro da voi altri! – diceva egli tra sè. – Non sono un'aquila, è vero; ma neanche uno struzzo, da mandar giù ogni cosa. Del resto, ridete pure dei fatti nostri. Abbiamo due milioni di dote, e possiamo rider noi con più gusto. Ma via, al diavolo i Gamberini, e andiamo dal sottoprefetto. Povero cavaliere! Come sarà contento di vedermi! La nostra scappata gli aveva proprio guastate le uova nel paniere. Ma ora… Ora gli si porta una buona notizia, da rimettergli il sangue nelle vene. Notizia, veramente, no. Ma sta a lui di cavare un costrutto dal nostro ritorno. Quanto a me, gli dò il mio consenso in formis et modis. Adelina duchessa! In verità, nessuna donna porterà la corona meglio di lei. Signori, la eccellentissima duchessa di Francavilla, nepote del commendatore Gentili. Come è dolce, questo titolo di commendatore! Il cavaliere lo è meno; ha del comune, del dozzinale! Va, ecco tutto; va; e non fa fermare la gente. Signor Prospero! ehi, dico, signor Prospero, un po' di calma! Siamo arrivati. —

Il signor Prospero entrava appunto allora in castello. Giunto nell'anticamera del sottoprefetto, si fece annunziare, e potè sentire il grido di gioia, che suonò nel santuario dell'autorità politica di Castelnuovo, appena l'usciere ebbe proferito il suo nome.

– Venga qua, venga qua, signor Prospero! – disse il sottoprefetto, apparendo sulla soglia, senza dar tempo all'usciere di introdurre il visitatore. – È tornato finalmente!

– Tornato, come Lei vede. —

E interrogato dal sottoprefetto, il signor Prospero Gentili, raccontò, fin dove sapeva lui, il come e il perchè della improvvisa deliberazione di sua nepote.

– Eh! non glielo dicevo io, signor Prospero? Lasci fare a me; parlo io, a questo priore dei matti, e metto io all'ordine ogni cosa!

– Lei è un grand'uomo, signor commendatore; – rispose il signor Prospero. – Sì, me lo lasci dire, un grand'uomo. Se non era Lei, mi toccava ancora Dio sa quanto di penitenza nel deserto. Non già che la compagnia fosse cattiva; oh no! Brava gente, quei matti; e mi volevano tutti un gran bene. Conserverò buona memoria delle loro gentilezze, e regalerò alla loro biblioteca tutti i libri di casa. Tanto, io non li ho letti mai, e non comincierò adesso certamente.

– Farà benissimo; – disse il sottoprefetto, per chiudere quella digressione. – E mi dica, ora; ha già parlato pel duca?

– No, non ancora. Siamo arrivati appena iersera.

– Non perda tempo, per carità! Il momento è opportuno. Domani a sera, se crede, vengo a farle una visita. Se Lei mi strizza l'occhio, è segno che ha cominciato il fuoco.

– E Lei, allora, giù la fiancata, non è vero?

– Bravo! Ha indovinato alla prima. Commendator Prospero, vogliamo riuscire. —

Quel giorno, appena il signor Prospero se ne andò via, il sottoprefetto si pose a tavolino e scrisse al ministro degl'interni. Il tenore della lettera fu questo:

"Eccellenza,

"Non mi ero fatto vivo da qualche settimana, e il signor duca di Francavilla gliene avrà fatto conoscere le ragioni, a mia scusa. Quelle certe persone erano andate fuori, lasciandomi capire che dovevano fare alcuni apparecchi per la grande occasione. Ma a Torino cadde infermo lo zio e questo contrattempo ha fatto perdere un mese. Sono tornati finalmente ieri, ed io mi affretto ad avvisarne l'Eccellenza Vostra, bene intendendo le alte ragioni politiche e sociali che fanno rivolgere anche su questo piccolo fatto lo sguardo acuto del nuovo conte di Cavour. Mi lasci dire ciò che penso. In altri, e parlando ad altri, potrebbe parere una piaggerìa; ma il caso presente esclude il sospetto, mi sembra. Del resto, io mi fo un vanto della mia schiettezza; sebbene in altri tempi, la Dio mercè passati per sempre, questa virtù mi sia stata causa di molte delusioni.

"Ma basti di ciò, e la Eccellenza Vostra mi perdoni lo sfogo. Sono ferite che ad ogni tanto si riaprono e dànno sangue. Il nostro signor duca si è adattato a questa vita di provincia con una pazienza ammirabile, e la sua amabilità gli ha conquistato tutti i cuori."

Seguivano i complimenti e gli atti di ossequio, che per brevità si ommettono.

Per la stessa ragione vi salterò un giorno, che fu occupato dal signor Prospero a passeggiare per le vie di Castelnuovo e dalla signorina Adele Ruzzani a ricever visite. E non tutte di naturali del paese, badate! Ce ne furono, anzi, cinque o sei… Ma lasciamo anche queste in disparte, e veniamo all'ultima, che ci deve premere assai più. Giudicatene voi.

Erano le quattro del pomeriggio. La signorina Adele Ruzzani non appariva molto contenta di sè, nè del mondo. Il mondo, si sa, è tutto ciò che abbiamo d'intorno, e si usa più spesso chiamarlo il piccolo mondo. Ma siccome anche il grande è spesso una povera cosa, lasciamo correre la frase com'è escita dalla penna. Scontenta di sè e del mondo, la signorina Adele Ruzzani prendeva un libro, per leggiucchiarne due pagine e buttarlo via; si metteva a ricamare, e si fermava ai primi punti di catenella; voleva dipingere, e le passava la voglia, prima di aver preparata la tavolozza; infine, era seccata, mortalmente seccata, e incominciava a sentire il desiderio di andarsene da Castelnuovo.

In quel punto capitò il servitore.

– Una visita, signorina.

– Chi è? Altri noiosi?

– Non so; – rispose il vecchio arnese di casa Ruzzani, trattenendo un sorriso. – Ecco il nome. —

Così dicendo, porgeva alla sua signora un biglietto di visita. Adele Ruzzani (che peccato, non poterla più chiamare il monachino, o il serafino biondo!) prese il biglietto, gli diede una rapida occhiata e mise un grido, un piccolo grido, che pareva di stupore, ma poteva essere di gioia.

Diamo un'occhiata anche noi. Sotto una corona di conte (nove perline in vista, il che significa un giro di sedici) si leggeva il nome di Valentino Gualandi del Poggio, inciso in un bel carattere italico: e più sotto, aggiunto a matita, un altro nome: Anacleto.

Il biglietto non aveva traccia di pieghe.

– Hai fatto entrare il signore? – domandò la fanciulla.

– Nel salotto, come gli altri; – rispose il servitore.

– Bene; va, ed avverti mio zio, appena sarà di ritorno, che c'è il padre… il signor Anacleto, che desidera di vederlo. —

Il servitore uscì, e Adele Ruzzani corse allo specchio. Aveva le fiamme al viso; perciò dovette rimanere per alcuni istanti colà, aspettando che quella commozione scemasse, e cercando di comprimere con le palme i battiti del suo cuore. Sorrideva, frattanto, sorrideva d'un riso stanco e beato. La stanchezza e la beatitudine son più vicine che a tutta prima non sembri. La beatitudine non è dessa un senso di assopimento delle nostre facoltà?

Quando la signorina Ruzzani entrò nel salotto, vide il conte Gualandi ritto davanti ad una tela che posava sul cavalletto, nel vano d'una finestra. Era uno studio ben noto a lui, perchè incominciato due settimane prima nel convento di San Bruno, e rappresentava l'interno del chiostro.

 

Al fruscìo della veste sul pavimento, il conte Gualandi si voltò, e la signorina Adele riconobbe il bel priore di San Bruno, meno grave all'aspetto, più elegante nel portamento, ma pur sempre severo, e rispondente a quell'immagine di dignità e di forza, che non dovrebbe scompagnarsi mai dall'idea dell'uomo.

Egli, frattanto, non vedeva più il monachino, ma una bella e graziosa fanciulla. L'aria birichina dello scolaro in vacanze non c'era più, ma l'aspetto della donna che sente e che pensa, rendeva il suo volto anche più attraente che non fosse da prima.

– Come… – balbettò ella, avvicinandosi.

– Signorina… eccomi qua; – rispose egli, dissimulando con un profondo inchino la sua profonda commozione.

Seguì una scena muta di forse un minuto; il solito minuto che parve un secolo.

– Dunque, – ripigliò, la signorina Adele, – voi siete stato così gentile da ricordarvi della vostra promessa?

– Appena ho potuto; quarantott'ore dopo; – disse il conte Gualandi. – Eccomi qui senza impiego, signorina. Sono spriorato.

– Veramente?

– Verissimamente, e il convento di San Bruno soppresso.

– Povero convento! Ci si stava così bene!

– Lo rimpiangete, signorina?

– Certo; non siamo debitori di qualche gratitudine ai luoghi in cui abbiamo passato ore felici?

– Grazie! – mormorò il conte Gualandi.

– Pel convento? – chiese argutamente la signorina Adele, che ripigliava padronanza di sè.

– Pel convento e per me; – rispose il conte. – Non ne ero forse il priore? e non lo rappresentavo al cospetto del mondo? Povera comunità di San Bruno! – continuò egli, mentre si sedeva sulla poltrona che gli era accennata dalla signorina Adele, accanto al sofà su cui essa stava adagiata. – Noi l'abbiamo disciolta ier l'altro.

– Subito dopo la nostra partenza; ho bene udito, – osservò la fanciulla.

– Ah, lo sapevate? Ma allora le notizie di monte Acuto giungono a Castelnuovo con la rapidità del fulmine? E non c'è un filo telegrafico, ch'io sappia.

– Che dite mai, signor conte? Ci hanno avuto tempo ad arrivare coi pedoni. Sono i vostri frati che mi hanno dato l'annunzio, tra ieri e quest'oggi.

– Davvero? I miei frati?

– Ma sì; ieri il signor Mario Novelli, e il signor Pellegrino della Rosa; cioè a dire padre Agapito e padre Ilarione. Stamane, poi, il signor Ariodante Soresi e il signor Nello Altoviti; che sono, se non mi confondo fra tanti nomi, i padri Restituto e Bonaventura. Adesso, m'aspettavo anche il padre Anselmo, il padre Tranquillo, e quei pochi altri che hanno mostrato di non vedermi di mal occhio; – disse la signorina Adele, chinando modestamente lo sguardo.

– A questi patti li vedrete capitare tutti quattordici; – rispose il conte Gualandi. – Ma vedete che fretta! E sono certamente venuti ad ossequiarvi prima di partire dal circondario; – soggiunse, mirando evidentemente a scoprir terreno. – Il signor Novelli, a capo di lista, per rammentarvi la sua ghirlanda di fiammole…

– Già; – interruppe la signorina Adele; – proprio così. —

Il conte Gualandi stava per replicare qualche cosa; ma ne fu impedito dall'arrivo del signor Prospero. Vi lascio immaginare la festa ch'egli fece al priore spriorato di San Bruno, quantunque, a dir vero, gli tornasse piacevole lì per lì come il fumo negli occhi.

– Anche lui! – aveva borbottato il signor Prospero, udendo in anticamera che era giunto il conte Gualandi. – Che il convento dei matti voglia scaricarsi tutto in casa nostra? E noi che eravamo riesciti a svignarcela! E la mia cara nepote che aveva mostrato tanta soddisfazione di venir via! —

Questo il monologo; frattanto bisognava dire delle gentilezze; masticar l'amaro e dar fuori il dolce. Povero signor Prospero!

– Vi fermate oggi da noi, non è vero? – disse la signorina Adele, parlando volentieri in nome dello zio, poichè questi era presente. – Dove siete alloggiato?

– Alla Croce di Malta; – rispose il conte. – E capisco adesso perchè l'albergatore fosse impacciato a darmi una camera degna di me, come si compiacque di dire. I miei bravi compagni debbono essere tutti alla Croce di Malta.

– Già, – entrò a dire il signor Prospero, – chi tardi arriva male alloggia.

– Eh, non vorrei proprio che fosse così, come dice il proverbio; – replicò il conte Gualandi, con accento più malinconico che non portasse quel piccolo guaio d'albergo.

– Vorremmo offrirvi ospitalità in casa nostra; – ripigliò la signorina Adele, fingendo di non aver intesa l'allusione. – Ma veramente, un giovanotto come voi… Va bene che noi siamo stati ospiti vostri lassù; ma le anime caritatevoli di Castelnuovo non hanno a sapere questi obblighi che abbiamo contratti con voi; – soggiunse ella con una grazia adorabile. – Però ci restate a pranzo. È detta: non vogliamo osservazioni.

– Serafino! – mormorò il priore spriorato.

Il serafino lo guardò con aria tra ridente e scorrucciata, mettendosi un dito sulle labbra. Che ditino, lettori! Il priore fece involontariamente l'atto di mordere.

Per far l'ora di pranzo, i padroni di casa condussero il loro ospite a visitare il giardino. Il palazzo Ruzzani era uno dei primi nella via San Michele, ai piedi della città alta; perciò aveva molto spazio libero alle spalle, giardino, stufa, uccelliera, ed anche uno scampoletto di bosco.

Due ore passarono via come il vento. Il padre Anacleto pensò che egli aveva dimenticato qualche cosa, nel giudicare così severamente la vita, come aveva fatto da prima, e che tutto non era afflizione, o noia, nel mondo.

Lo zio Prospero si era allontanato per qualche faccenda domestica.

Adele Ruzzani e il conte Gualandi erano tornati nel salotto.

– Signorina, – disse il conte, cercando di riattaccare il discorso interrotto, – si potrebbe sapere…

– Che cosa? – disse Adele, ridendo.

– Che cosa volessero da voi tutti quei frati… sfratati?

– Come? Non lo indovinate?

– Io no; se voi non mi aiutate…

– Aiutiamolo, dunque. Venivano l'un dopo l'altro a chiedere… Ma no, questo non debbo dirvelo io. Dovete immaginarvelo; ed io sono un po' troppo buona a credere che voi non lo abbiate indovinato a tutta prima.

– No, vi assicuro, non lo avevo indovinato; – rispose il conte Gualandi, sconcertato da quel mezzo rimprovero. – Potevo benissimo argomentare il movente della loro calata a Castelnuovo. Se n'è parlato troppo, lassù. Ma non avrei potuto immaginare che ardissero venire a chiedere, per esempio, la vostra mano, così soli, senza la compagnia di un parente, d'un personaggio grave e ragguardevole, come vorrebbero le buone consuetudini.

– Eh, capisco, le consuetudini vorrebbero molte cose; – replicò la signorina Adele, con aria tra il serio e il faceto. – Ma forse i vostri amici hanno pensato che quelle consuetudini le aveva dimenticate per primo un certo novizio, arrisicandosi di metter piede a San Bruno.

– Perciò li avete scusati? – domandò ansiosamente il conte Gualandi.

– Proprio così; dopo aver dato quel cattivo esempio, non potevo fare diverso. —

E rideva, la birichina, dando quella notizia al povero conte. Ma a lui la notizia aveva dato un coraggio da leone. Si levò in piedi, il conte Gualandi, si tirò indietro due passi, e, facendo un amabile scorcio di vita, così parlò con cerimonioso sussiego:

– Signorina, potevo venire ieri a Castelnuovo, e mi era parso troppo presto. Dovevo venire domani, e mi pareva troppo tardi per il mio desiderio. Sappiate che appunto ier l'altro a sera avevo mandato un telegramma a Ferrara, al mio vecchio cugino, marchese Gherardo Melli, chiamandolo d'urgenza a Castelnuovo. Egli doveva esser qua domattina, ed io lo avrei pregato di chiedere la vostra mano per me. Ma poichè gli altri mettono le consuetudini da banda, e voi li scusate, spero che scuserete oggi anche me. Signorina Adele, questa mano divina… – e gli tremava la voce, parlando così, mentre cercava con atto divoto di prendere la mano della fanciulla – questa mano divina ho l'onore di chiederla io in persona.

– La mano divina si ritira… in camera di consiglio; – rispose la signorina Adele, con un sorriso malizioso che ricordava il monachino biondo; – essa darà risposta domani al marchese Gherardo Melli, che sarà il benvenuto. —

Il padre Anacleto… Maledetta piega dell'abitudine! mi vien sempre questo nome alle labbra. Diciamo dunque che il conte Gualandi del Poggio ebbe quel giorno una pregustazione delle beatitudini eterne.

Ciò mi dispensa dal parlarvi del pranzo, cosa tutta materiale e non degna di figurare accanto a così eterei godimenti. Del resto, se dovessi raccontarvi minutamente ogni cosa, ci avrei materia per un altro volume. E badiamo, le cose lunghe diventan serpi.

Vi racconterò invece che quella sera, mentre il signor Prospero leggiucchiava il giornale, e i nostri giovani parlavano di cose da nulla, mettendoci il senso arcano e profondo che si può mettere anche in cose da nulla, capitò il sottoprefetto di Castelnuovo; visita aspettata ma niente affatto gradita. Il signor Prospero, che rammentava gli accordi, non sapeva che pesci pigliare, e dentro di sè mandava al diavolo il conte Gualandi, il sottoprefetto, il duca di Francavilla, il ministro degli interni, le commende e i commendatori, i capricci delle nepoti, le proprie vanità e chi gliele aveva ispirate.

– Signorina, – disse il galante sottoprefetto, dopo le cerimonie d'uso, – non potevamo più vivere senza di Lei. La sua presenza è necessaria a Castelnuovo. Eravamo già per protestare contro Torino, che ce l'aveva rapita.

– Oh, non sono stata così lontano; – rispose la signorina Adele.

– Davvero? O dove allora?

– Signor cavaliere, dovrebbe indovinarlo. Non è del suo ufficio sapere ogni cosa?

– Certamente… certamente! So tutto io; – rispose il sottoprefetto, sentendo la frecciata e volendo far l'uomo di spirito, – ma, qui, proprio, non so che cosa le piaccia che io sappia.

– Molto gentile! – replicò la signorina Adele. – Ma lei ha facoltà di sapere ogni cosa. Mi scusi intanto se io, confusa dalle sue cortesie, non ho fatto prima una presentazione. Veramente, toccherebbe a mio zio; ma Lei, che è tanto buono con me, non faccia attenzione a queste piccolezze. Signor cavaliere – soggiunse, additando con un sobrio gesto il suo giovane vicino, – ho l'onore di presentarle il conte Valentino Gualandi del Poggio, ferrarese, mio fidanzato. —

Scena muta e inarcamento di ciglia! Il conte Gualandi, primo, credette di vedere il cielo che si apriva, per rovesciargli addosso un nembo di fiori e di profumi; il signor Prospero ricordò il polo artico e l'equatore, che gli parvero una cosa da nulla al confronto di quella volata improvvisa; il cavaliere sottoprefetto vide a dirittura un abisso, in cui si sprofondava la sua commenda e la sua prefettura.

– Mi congratulo… – balbettò egli, obbedendo alla necessità del discorso. – Avevo già avuto il piacere di trattenermi con Lei, in altre circostanze, che veramente non mi lasciavano sperare… Il signor conte è un uomo felice.

– Grazie! – esclamò il conte Gualandi, stringendo la mano del sottoprefetto. – Ella mi legge nel cuore. —

E guardò la signorina Adele, come per rivolgere a lei, in forma di ringraziamento, le parole dette al sottoprefetto. La bella birichina abbassò gli occhi e si morse le labbra, perchè aveva una gran voglia di ridere.

Prima di andarsene, il sottoprefetto trovò il modo di tirare in un angolo il signor Prospero, che tentava sempre di sfuggirgli, mettendosi al riparo dei giovani.

– Mi spiegherà poi, signor Prospero… – gli disse, fissandolo negli occhi, come se volesse conficcarlo nel muro.

– Che vuol che le spieghi? – ribattè quell'altro, annaspando. – Con la mia nepote non si sa mai quanti se n'ha in tasca. Questa, per esempio, è una tegola che cade sulla testa a me come a Lei.

– Ma lei, per tutti i diavoli… —

E stava per dire dell'altro, il nostro sottoprefetto, perchè veramente non ci vedeva più lume. Ma una voce argentina lo richiamò in carreggiata.

– Cavaliere, venga qua; – diceva la signorina Adele. – Venga a dare il suo giudizio su questo bozzetto.

– Oh, bello! – si degnò di esclamare il sottoprefetto, dopo aver dato una guardatina alla tela che stava sul cavalletto, nel vano della finestra. – Che cos'è?

– Il chiostro del convento dei matti; – rispose sorridendo il conte Valentino.

– Una particolarità del nostro circondario? – soggiunse il sottoprefetto, ridendo anche lui, ma a denti stretti.

– Ahimè! Una particolarità andata a male; – replicò il conte Valentino.

 

– Andata a male! E perchè?

– Perchè la comunità di San Bruno è sciolta.

– La ragione?

– Eh, dovrebbe immaginarsela. Una donna, penetrata là dentro, ha mandato in aria ogni cosa, incominciando dai cuori. Non le pare un bel colpo, signor cavaliere? Lei, del resto, deve esserne contento.

– Io? E come?

– Ma sì, non era forse contrario alla nostra istituzione? Il nostro convento laico era un cattivo esempio, un tradimento fatto alla società. Son sue parole; non le rammenta?

– Sì, sì, le rammento; ed anche le sue risposte… che le parevano di trionfo, l'altro dì. —

Il conte Valentino chinò la testa in atto di contrizione.

– Mi parevano; – rispose. – E in questo verbo è detta ogni cosa. Ma infine, io e lei si disputava di principii, si rimaneva nelle alte regioni filosofiche. Una donna animosa e gentile è venuta lassù con ben altri argomenti. Si è presentata, ed ha vinto senza combattere.

– Le faccio i miei complimenti; – disse il sottoprefetto, volgendosi alla signorina Ruzzani. – Ed anche i ringraziamenti della società vendicata. —

La masticava male, il povero cavaliere. Ma ci voleva pazienza. Con la pazienza, lo ha detto Orazio Flacco, s'impara a sopportare ciò che non è dato mutare. Il guaio grosso era questo, che bisognava rimbrodolarla con due persone ad un tempo; una meno importante, ma più vicina, che era il duca di Francavilla, pasciuto fino allora di chiacchiere; l'altra più lontana, ma collocata sul vertice dell'ordine gerarchico, e dalla quale il signor cavaliere sottoprefetto s'aspettava promozione o commenda. Ahimè! commenda e promozione si allontanavano ad occhi veggenti da lui.

Da uomo savio, che sa aspettare una buona ispirazione, il sottoprefetto di Castelnuovo rimandò al giorno seguente il discorso col duca di Francavilla; ma quel medesimo giorno scrisse al ministro, accettando l'idea che gli aveva ispirata in buon punto il fortunato priore di San Bruno. Salutem ex inimicis nostris, lo dice il testo latino.

Se il nostro ottimo cavaliere si apponesse, prendendo l'ispirazione dal nemico, giudicate voi, o lettori, da ciò ch'egli scrisse al ministro:

"Eccellenza,

"Il sogno più lieto della mia vita s'è dileguato; come tutti i sogni, pur troppo. E di ciò non mi dorrebbe molto, se non andasse anche in dileguo la cara speranza che io avevo concepita di aiutare secondo le mie umili forze un alto disegno della Eccellenza Vostra. Tutte le fila erano bene disposte pel matrimonio del duca; ma il destino le ha scompigliate ad un tratto, con uno di quei colpi impreveduti e imprevedibili, che entrano per tanta parte nelle umane combinazioni. Forse, considerando la cosa dal lato più ristretto, potremmo dire: meglio così! Ma questo potrà pensarlo il duca, a cui non mancheranno occasioni di illustri parentadi, e che ha tanti titoli a meritare la felicità della vita domestica, come ad ottenere i trionfi della vita pubblica. Io, frattanto, nella mala riuscita del nostro disegno, posso rallegrarmi di avere salvata la sua dignità. Il suo nome non è stato compromesso; questo è l'essenziale. Il degno gentiluomo è qui ben veduto, cercato, accarezzato da tutti. La società più ragguardevole di Castelnuovo sarebbe superba di imparentarsi con lui. Se la Eccellenza Vostra crede che io debba proseguire, mutando indirizzo, si potrebbe combinare con la famiglia Gamberini. C'è una figlia unica, degna di figurare alla capitale. Meno ricchezza di casa Ruzzani, è vero; ma quattordici generazioni di nobiltà. Sono conti da trecento e più anni. Un Gamberino fu tra i più reputati capitani di Braccio da Montone, e poscia di Francesco Sforza, come la Eccellenza Vostra potrà riscontrare nelle genealogie del Litta. I Gamberini hanno dato due cardinali alla Chiesa e un famoso colonnello all'Austria, nella guerra contro i Turchi, sotto gli ordini di quel fulmine di guerra che fu il maresciallo Laudon. Capisco che non sarà più l'alto concetto di Vostra Eccellenza; ma che farci? Io ci ho spesa tutta la mia buona volontà; se non ne sono venuto a capo, non è colpa mia. L'illustre uomo di Stato a cui ho l'onore di scrivere, mi conosce, sa il poco che valgo, e mi renderà piena giustizia.

"Sono stato assai più fortunato in un'altra faccenda, che non era tra le meno gravi di questo circondario, e che poteva riuscire di gran nocumento alla società civile, ove si fosse propagato l'esempio, come era a temersi. Un convento laico si era fondato da qualche anno a due ore di distanza da Castelnuovo, nell'antico monastero di San Bruno. Erano già sedici frati; tutti uomini di buon nome e di ragguardevole stato, che si erano dati pazzamente ad una vita claustrale di loro invenzione, sottraendo altrettante forze vive alla patria, e minacciando col loro esempio di sottrarne molte altre. Vostra Eccellenza non ignora come siano contagiose certe malattie morali, assai più delle fisiche. Persuaso di questa verità e compreso della grande malleveria che pesava su me, cercavo da oltre un anno di portar rimedio a questo gravissimo sconcio. Nella legge, non trovavo armi; nella filosofia non trovavo argomenti. Ho avuto ricorso alle astuzie, fin dove la lealtà della buona guerra consentiva; ho fatto operare in quella ostinata comunità di misantropi le forze irresistibili della natura. E il convento laico di San Bruno si è disciolto ier l'altro, senza che la dignità del governo ne scapitasse punto. Porgendo ascolto ai miei suggerimenti, i nuovi conventuali, nell'atto di sciogliersi, hanno deliberato di regalare il convento alle Opere pie di Castelnuovo; e appunto un'ora fa, parecchi di loro, venuti per ossequiare in me il rappresentante del governo, me ne hanno recato il gratissimo annunzio.

"Con ciò mi lusingo di avere interpretato un desiderio della Eccellenza Vostra, che io studio con riverente cura in tutti i suoi atti, improntati di quell'alto senno e di quella sottile preveggenza che mira alle cose lontane come alle cose presenti, per ottenere all'Italia il posto nobilissimo che le si addice al banchetto delle nazioni."

Perfino il banchetto delle nazioni! Il signor cavaliere aveva studiato sui buoni autori della giornata, e i ferri della rettorica gli erano assai familiari. Ma ohimè! questa volta la rettorica non doveva servirgli molto. Scritta la lettera confidenziale al ministro, ne aveva mandata un'altra al prefetto della provincia, suo capo immediato, magnificando l'impresa dello scioglimento che sapete e domandando abbastanza chiaramente una corona civica. Intendete la commenda, che è una corona da mettersi al collo. Ma Sua Eccellenza il ministro degli interni non reputò che, con lo scioglimento della comunità di San Bruno, il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia avesse salvata abbastanza la società, e gli decretò solamente una croce di cavaliere. Aveva già quella della Corona d'Italia; gli mandavano quella dei Santi Maurizio e Lazzaro.

Quella onorificenza che non lo alzava d'un grado nell'ordine equestre, gli venne un mese dopo le lettere su cui vi ho forse intrattenuti più a lungo del bisogno. E il signor Prospero, che non era neanche al primo scalino, ma che doveva essere almeno cavalier d'onore alle nozze della sua bella nepote, trovò il tempo per andarsi a rallegrare con lui.

– Hanno avuto torto a non mandarle la commenda; – gli disse. – Ma noi avremo se non altro la soddisfazione di chiamarlo… biscavaliere. —

Convenite, lettori umanissimi, che la celia, quantunque detta senza cattiva intenzione, era di pessimo gusto. Il cavaliere Tiraquelli andò a dirittura fuori dei gangheri.

– Sa Lei, signor Prospero, che cosa debbo dirle? – gridò. – Vada… vada… dove le sarà facile di capire che io possa mandarla. —

Il signor Prospero, che era lontano mille miglia dall'idea di averlo toccato sul vivo, spalancò tanto d'occhi a quella improvvisa sfuriata.

– O che? La piglia per male? Una croce di più non è poi una bastonata da dolersene tanto.

– La piglio come va presa. E di croci ne ho già avute abbastanza; specie, se penso a quella che m'ha dato Lei.