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L'undecimo comandamento: Romanzo

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– Dovrebbe ritirarlo senz'altro; – replicò il cherubino. – Per nessuna cosa al mondo io mi farei lecito uno scherzo di questa fatta, e sopratutto con Lei!.. —

Non era niente più d'un complimento; ma il tono con cui fu detto turbò lo spirito del padre Anacleto.

– Rimane l'altra parte del dilemma; – diss'egli, mutando registro. – Il suo sarà dunque un desiderio sincero. Ella lo afferma ed io lo credo. Ma anche un desiderio sincero può essere… di poco durata.

– Durerà, creda anche questo, durerà.

– Oggi le pare, ma chi ci assicura del domani? Io, veda, sono obbligato a distinguere, a considerare tra i possibili, se non a dirittura tra i probabili, che il suo desiderio, vivissimo oggi, si muti un giorno in avversione. E allora? Il voto pronunziato adesso, il patto conchiuso tra noi, non rincrescerebbe a Lei solamente, e farebbe anche torto alla mia previdenza, che si sarebbe mostrata assai misera. A farla breve, sono il priore di nove (e saranno presto quattordici), tutta gente posata, che vive in una quiete esemplare. Ma Ella sa come si ottenga lo stato di quiete negli animi, materia assai più delicata e gelosa che non siano le bilance dell'oro, e come un nulla possa turbare quel felice equilibrio. Se un giorno – osservò acutamente il padre Anacleto, fissando i suoi occhi scrutatori in viso al cherubino, – se un giorno dovessero dirmi: "Signor priore, siete andato un po' leggermente nella faccenda di quella ammissione," crede Lei che non ne sarebbe turbata la nostra bella armonia, unica guarentigia di pace, unico bene che renda la nostra vita preferibile a quella del mondo? – Un'aria di profonda mestizia si dipinse sul volto del giovine. Pareva uno di quegli angeli del buon tempo antico, che, tornati al paradiso, trovarono la spiacevole novità della porta chiusa.

– Orvia, – ripigliò il padre Anacleto, dolente di aver fatto pena al suo giovine interlocutore, – non ci fermiamo a guardare tutti i casi possibili, che saranno ugualmente improbabili. Ella e suo zio mi aiutino a mettere in pace la mia coscienza; accettino di entrare come ospiti, per ora, e questa ospitalità la chiamino pure un noviziato. Tra un anno… Non le piace? Diciamo adunque fra sei mesi. Neanche? Diciamo allora fra tre, riparleremo della loro vocazione. – S'intende, – osservò il priore, – che anche dopo accettati nella famiglia, il vincolo non sarebbe indissolubile. Ma c'è sempre una parola d'onore che impegna; si è ammessi per questa parola, e la parola, pei gentiluomini, è legge. Se così non fosse, mi capiranno, il convento di San Bruno si tramuterebbe facilmente in albergo, ed io ne sarei l'albergatore, o il direttore pro tempore. Ora, nè il mio carattere concentrato, nè le mie abitudini studiose, mi consentirebbero di esercitare questo ufficio.

– Ha ragione; ma noi Le giuriamo fin d'ora…

– No, non giurino, per carità. Io non accetto il giuramento, non l'ho udito. Rimangano qui, li avremo in qualità di novizi. Finora non se n'erano accettati; ma sarà una eccezione alla regola. E prima di tutto, siccome qui ognuno si dedica a qualche lavoro, vediamo un po' che cosa sanno far Loro?

– Io… veramente… – balbettò lo zio – qualche cognizione di agronomia…

– Troverà da applicar poco; – riprese il padre; – qui non abbiamo che l'orto e il frutteto. I campi mancano affatto; i boschi sono stati decimati prima che noi si comperasse il convento. Ma infine, quel poco che c'è offrirà a Lei materia di studio, e saremo lieti di avere un agronomo in famiglia, come già abbiamo il botanico. E Lei?

– Quasi nulla; – rispose il cherubino arrossendo. – Un po' di canto… il pianoforte… Frivolezze, Ella dice bene; – soggiunse tosto, notando un atto involontario di labbra, con cui il padre Anacleto aveva accolte le sue parole.

– No, non dico questo; – notò il priore.

– Lo penserà; è tutt'uno.

– Non lo penso nemmeno. Anche la musica è una bella cosa, e più seria che non si creda generalmente. È matematica applicata ai suoni e interessa una parte della fisica, che non è certo la meno importante. Helmholtz ci ha scritto un libro, il quale è tutt'altro che frivolo, poichè ci dà una dimostrazione completa dei fenomeni del suono e delle leggi musicali che ne derivano. Herschel, studiando a fondo l'arte sua, che era per l'appunto la musica, fu gradatamente condotto allo studio della geometria e quindi alla conoscenza dell'astronomia teoretica, al perfezionamento del telescopio e alla scoperta di Urano. Amo ricordare questi fatti, – soggiunse il padre Anacleto, che si sentiva alquanto impacciato a dover conversare con quello strano novizio, – per dimostrarle che apprezzo la musica anch'io. Disgraziatamente, qui mancano i mezzi di coltivarla; abbiamo volta la chiesa ad uso di biblioteca, e non c'è neanche la fortuna dell'organo.

– So disegnare un pochino; – si provò a dire il giovane.

– Ah bene! questo è il fatto nostro; – gridò il padre Anacleto. – Oh, non dubiti, non le domanderemo i cartoni di Raffaello. I soli principii del disegno basterebbero. Abbiamo in mente di fare un giornale, una specie di rassegna mensile, per registrarvi i nostri studi, e avremo appunto bisogno di tavole illustrative; segnatamente per gli scavi delle nostre caverne.

– Ahi come il duca di Francavilla! – scappò detto allo zio.

– Lo conoscono? È un bravo signore, che ha voluto farci una visita.

Egli è qui a Castelnuovo per certi suoi studi preistorici…

– Per studi, e per altro; – mormorò il cherubino, che la sapeva lunga, anche senza aver ombra di baffi.

– Non saprei; – ripigliò il padre Anacleto, che era prudente e non andava a cercare il pel nell'uovo. – È venuto a trovarci una settimana fa e non ci ha parlato d'altro che delle sue ricerche scientifiche. Anche noi avevamo già pensato a scavare le caverne ossifere di monte Acuto; ma finora ci mancava l'uomo da ciò. Ora avremo uno studioso di queste materie, tra i cinque che verranno in settimana a far vita con noi. È un valente professore. Insegnava a Torino. Gli hanno fatto torto, a quanto pare; qualcheduno si è fatto bello di una sua scoperta; il governo non lo ha tenuto nella giusta considerazione, ed egli ha abbandonata la cattedra. Come vedono, son tutti i delusi, i disgustati delle perfidie umane, che vengono ad accrescere la nostra schiera. Metteremo il professore all'archeologia, ed Ella disegnerà gli oggetti ritrovati. Va bene?

– Sì, sì! – gridò il cherubino, battendo allegramente le palme.

Ma subito si penti di mostrarsi così bambino in faccia al priore, che lo guardava tra sospettoso e ammirato; arrossì per la terza volta, chinò gli occhi e ripigliò:

– Scusi, la prego; ma gli è che son tutto felice di trovare in me un piccolo talento, che possa tornare utile alla comunità. – Stabiliti questi preliminari, il padre Anacleto si offerse ai nuovi ospiti di San Bruno, per condurli a visitare il convento, e l'offerta fu accettata con giubilo dal biondo cherubino, che vedeva così superate tutte le difficoltà della sua introduzione in quella bizzarra clausura.

Anche allo zio era parso di escirne egregiamente. A farselo apposta, un priore, non si poteva ottenerlo più pastoso di così.

– Che sia cieco? – pensava egli, mentre seguiva il padre Anacleto e il biondino, nella loro passeggiata per tutti i corridoi del convento. – Quando egli ha messo fuori quel dubbio intorno all'età, ho subito detto: ci siamo! E come lo squadrava dal capo alle piante! Ma poi, sia lode al cielo, s'è lasciato abbindolare con tanta buona grazia! È anche vero che gli è stato risposto con un certo calore!.. Non fo per dire, ma il mio signor nepote, poichè oramai bisogna chiamarlo così, ha una eloquenza che va diritta al cuore. Non si sgomenta di nulla, lui! Vi guarda nel bianco degli occhi, e vi fa fare tutto quello che vuole; anche delle pazzie come questa. Ma saranno tutti ciechi e tre volte buoni come il padre Anacleto! Qui sta il busilli. – Il nepote, frattanto, pensava anche lui, mentre andava scambiando osservazioni col priore.

– Ha capito? Temo di sì. Per lo meno, il dubbio gli è nato. Ma egli è un gentiluomo, e non è andato più in là. Questa avventura mi piace. Ci sarà qualcosa da ridire; ma infine, si servano, io non ho da render conti a nessuno. E poi, sono con mio zio. Questo priore, che uomo! Il duca di Francavilla lo ha chiamato simpatico; ma mi pare che sia più di simpatico; un bel giovane addirittura; e senza saperlo, senza averne l'aria, come dovrebbero esser tutti. È la prima faccia d'uomo che vedo. O son tutti insipidi, svenevoli, come il duca di Francavilla, o duri, arcigni, antipatici… Che orrore! —

Vi fo grazia del resto. E non mi fermo neanche a dipingervi tutto quello che videro i nuovi ospiti di San Bruno. I conventi, su per giù, si rassomigliano tutti nella loro semplicità grandiosa ed umile ad un tempo, che credo entri per molto nella tenacità del sentimento che fa perdurare gli ordini monastici, che li fa sopravvivere alle leggi da cui sono stati colpiti. C'è una virtù arcana che attrae verso le mezze solitudini del chiostro, e quella forma architettonica stabilita, quasi invariabile, salvo nei minuti particolari, esercita un fascino sullo spirito moderno, che pure ha distrutto il pensiero onde quella forma è scaturita. Sono spariti i conventini, i monasteruzzi borromineschi di due secoli fa; il largo tipo dei chiostri antichi è rimasto, e se ne ricorda volentieri perfino… indovinate chi? il nostro soldato, che è stato così spesso ad alloggio nei vecchi monasteri tramutati in caserme.

Il convento di San Bruno, come tutti quelli del medesimo ordine, aveva i suoi quartierini, in cui ogni frate potesse viver solo, con la sua stanza da letto, l'oratorio, l'anticamera e la ruota per cui introdurre il suo pasto frugale, o metter fuori la scodella vuota. Ma la ruota, oramai, serviva soltanto per le lettere e i giornali, quando giungeva il postino; la stanza da letto non era più così nuda come al tempo dei camaldolesi; quanto all'oratorio, ognuno ci teneva la sua biancheria, i suoi abiti, e all'occorrenza i suoi libri più alla mano. Fratel Giocondo, ad esempio, ci teneva il Gattinara e il Pomino, due autori di sua predilezione, tra i quali da lungo tempo aveva istituito un confronto.

 

I due novizi furono condotti alle loro stanze. Il priore non aveva chiesto i loro nomi, ma li chiese allora il converso, facendosi avanti col registro dell'ordine.

– È vero; – disse il cherubino; – avevamo dimenticato di darli. Zio, incominciate. – Il vecchio prese la penna e scrisse il nome di Prospero Gentili.

Il giovine, con meno sincerità, ma con altrettanto coraggio, vi scrisse quello di Adelindo Ruzzani.

VI

E intanto, la signorina Adele Ruzzani, dov'era?

Domandiamolo al sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia. Il degno ufficiale del governo, che ha in mano il servizio della pubblica sicurezza di tutto il circondario, dovrebbe sapere ogni cosa. "Nulla sfugge all'occhio vigile dell'autorità" era una delle sue frasi predilette.

Ora, ecco ciò che sapeva il cavalier Tiraquelli.

Due giorni dopo quella sua famosa conversazione sotto il loggiato, egli vedeva di bel nuovo il suo interlocutore ed amico, il futuro commendatore signor Prospero Gentili.

– Orbene, come vanno le cose? – gli aveva chiesto senza dargli tempo di esporre le ragioni della sua visita mattutina. – A me pare che ci sia un progresso. L'ha notata anche Lei, l'attenzione vivissima con cui la sua bella nepote ascoltava l'altra sera il duca di Francavilla? È un buon segno; che ne dice?

– Sì, un buon segno, – ripetè il signor Prospero con aria distratta.

– Che? Non le pare? – gridò il sottoprefetto, che coglieva le mosche per aria.

– Ho forse detto il contrario? – chiese il signor Prospero, prendendo una scossa improvvisa.

E dentro di sè aggiunse:

– Non ci mancherebbe altro! Dopo che quella birichina m'ha fatto giurare!..

– No; – rispondeva frattanto il sottoprefetto; – ma credevo che Ella ci avesse ancora qualche dubbio.

– Per me, niente affatto; – ripigliò il signor Prospero. – Quantunque, per esser sicuri, sarà utile di parlare con lei.

– Lo faccia una volta, al nome di Dio. Se non lo fa Lei, chi ha da farlo?

– È giusto; – disse il signor Prospero, – è giusto. Gliene parlerò, appena saremo tornati da questo viaggio.

– Questo viaggio! – esclamò il sottoprefetto. – O dove?

– Come? Non gliel ho ancor detto? Ero venuto a bella posta per prendere congedo. Veda un poco dove ho la testa!

– E dove va? – tornò a chiedere il sottoprefetto, senza curarsi più che tanto di vedere dove avesse la testa il signor Prospero.

– A Milano, con mia nepote. Sì, pare che ciò sia necessario; – soggiunse il signor Gentili, notando un atto di stupore del sottoprefetto. – La mia Adelina ha certe spesucce da fare… —

Il cavalier Tiraquelli era visibilmente sconcertato dall'annunzio di quella gita.

– E dica… staranno molto? – domandò.

– Oh, non credo. Si tratta di una visita alla modista… Come sa, la mia nepote si serve d'ogni cosa a Milano. Ci sarà anche una conferenza col gioielliere, per rinnovare la legatura di tutte le gioie di famiglia. Anche per le gioie la moda è cambiata, e la mia nepote vuol tutte legature a giorno. —

La faccia del sottoprefetto si rasserenò.

– Potrebb'essere un indizio; – diss'egli.

– Indizio, di che?

– Non vede? Questa cura di rimettere a nuovo le sue gioie. Signor Prospero mio, non ha mai posto mente che, quando si avvicina il tempo della cova, la cingallegra si mette al grave, e va attorno pel bosco a beccar le pagliuzze, per comporre il suo nido? —

Il signor Prospero spalancò gli occhi e la bocca ad un tempo; gli occhi per ammirare e la bocca per ridere.

– Ah ah! – esclamò egli. – Ed io, bestia, non ci aveva pensato. Ella ha una grande penetrazione, signor cavaliere! —

Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia assunse un'aria conveniente all'ammirazione ond'era fatto argomento.

– Oh, guarda! – aggiungeva mentalmente il signor Prospero. – Quella birichina m'ha consigliato di metter fuori il pretesto delle gioie, ed io non ci ho scoperto il baco. Ma già, le donne hanno un punto più del diavolo.

– Benissimo, dunque, tutto va a gonfie vele; – disse il sottoprefetto. – Mi rincresce, per verità, che abbiano a stare lontani una settimana… Voglio credere che la loro assenza non durerà di più. Ad ogni modo, Ella mi scriverà, non è vero? Avrò così un buon argomento per consolare quel povero duca. Poveretto, è innamorato morto. Confessi, signor Prospero mio arcicarissimo, che una coppia così bella non si potrebbe immaginare, anche se non si trattasse di secondare un alto concetto politico di Sua Eccellenza.

– Eh, eh! – rispose il signor Prospero, seguitando a ridere. – Sono del suo parere.

– Ella, dunque, tasterà il terreno.

– Tasterò, non dubiti, tasterò. Quantunque…

– Quantunque, che cosa?

– Quantunque, dopo la spiegazione che Lei mi ha data sulle gioie e sui nidi, sarebbe quasi inutile; non le pare?

– Sì, ma, anche a prevedere una risposta, è chiaro che bisogna provocarla. E oramai, più presto si fa, meglio è. Io la consiglierei di parlarne a dirittura in viaggio. E mi scriva, sa? Appena ha qualche cosa di nuovo, me ne avverta. Se c'è un sì chiaro e tondo, lo mando per telegrafo al ministro. E la commenda vien subito. —

Il signor Prospero sospirò. Quella benedetta commenda, egli non l'aveva mai veduta così lontana come in quel punto.

Il mercoledì seguente fu freddo, almeno nel salotto della sottoprefettura. Il duca di Francavilla, che per solito era così gentile, così premuroso, con tutte le dame, giovani e vecchie, belle e brutte di Castelnuovo, per modo che non si sapeva quali fossero le sue preferenze, il duca di Francavilla scoperse quasi il suo giuoco, mostrandosi distratto nella conversazione, svogliato nel ballo, infastidito d'ogni cosa. La contessina Berta ebbe un bel tormentare il cembalo; non le toccò neppure un complimento. Ed anche lei fu noiosa parecchio. Le amiche trovarono che i suoi nervi erano più aristocratici del solito. E il ricevimento della sottoprefettura risentì di quella diversità d'umori; se non fosse stato il ricevitore del registro, che era sempre uguale a sè stesso, sarebbe parso un mortorio.

– Dunque, la bella Ruzzani è partita? – chiese la contessa Gamberini alla sottoprefettessa, su quel canapè di damasco rosso che i lettori conoscono.

– Sì, è andata a Milano per certe spese.

– Un matrimonio alle viste?

– Eh! – rispose la sottoprefettessa, non dicendo nè sì nè no.

– Qui non c'è nessun partito per lei, ch'io mi sappia; – ripigliò la contessa, cercando di scoprir terreno.

– Pare anche a me; – replicò la sottoprefettessa. – Ma forse ci sarà qualche domanda di fuori. —

La signora sottoprefettessa non era nel segreto di suo marito, o era d'una fintaggine a tutta prova. La contessa Gamberini non potè cavarne altro.

Intanto il sottoprefetto, sicuro del fatto suo, aspettava la lettera del Prospero. Il giorno stesso in cui il futuro commendatore era stato a prender congedo, per accompagnare la sua bella nepote a Milano, egli scriveva al ministro questa lettera confidenziale:

"Ho l'onore di annunziare a Vostra Eccellenza che la faccenda procede benissimo. Il duca di Francavilla ha fatto il viaggio di Cesare: veni, vidi, vici. Quest'oggi la ragazza è partita per Milano, dove rimarrà otto giorni, al più. Le mie informazioni particolari, e sicurissime, mi pongono in grado di dirle che essa è andata a far rilegare a nuovo le gioie di famiglia. Questo è, come vede l'Eccellenza Vostra, un indizio eccellente delle sue inclinazioni. Del resto, lo zio e tutore della signorina è felicissimo di aiutare a questa unione, ed io confido che Vostra Eccellenza vorrà premiare lo zelo di questo egregio cittadino, il quale è entrato con tanta facilità nelle idee del primo ministro (lo dico senza adulazione, e con la mia usata schiettezza) che abbia mai avuto l'Italia. Frattanto, io gli ho lasciata intravvedere la commenda. I motivi, per i due primi gradi, ci sarebbero: dieci anni di grado nella guardia nazionale, in qualità di capitano, per la croce di cavaliere; l'opera prestata nel comizio agrario, e le analoghe cognizioni, per quello di ufficiale. Quanto all'esito dei nostri negoziati, spero di poterle mandare qualche ragguaglio tra breve e di mostrarmi degno dei favori che la Eccellenza Vostra si è degnata di promettermi."

Tre giorni dopo, il ministro rispondeva di suo pugno:

"Cavaliere carissimo. – Non dubiti, provvederò pel Gentili, com'Ella giustamente propone. Ella faccia il suo dovere, come sempre. Lavoriamo per un nobile intento. In questa faccenda, a prima vista di così poco rilievo, c'è più importanza che Ella, già tanto perspicace, non veda. Perseveri, stringa le fila, e mi mandi buone notizie; io farò altrettanto con Lei."

– Sono commendatore e prefetto! – gridò il cavaliere Tiraquelli, appena ebbe finito di leggere.

La sottoprefettessa, che era presente a quello sfogo di onesta soddisfazione, inarcò tosto le ciglia.

– Che? come? Si lascia Castelnuovo?

– Sì, Erminia; sì, Erminiuccia mia, ma non per ora. Ci vuole ad ogni cosa il suo tempo. Non dubitare, sarai prefettessa entro l'anno. E senatrice, per giunta. Perchè, si sa, una ciliegia tira l'altra. Esser prefetto e non senatore, mi parrebbe una sconcordanza. Che cosa sono i prefetti, se non le colonne amministrative del regno? E i senatori che cosa sono? Le colonne legislative. Ora, non può esser buon legislatore se non chi ha dato prova di esser buon amministratore. Donde la conseguenza… mi pare… Oh le dirò io, le ragioni di questa necessaria connessione; – proseguì il sottoprefetto di Castelnuovo, quando fu solo nel suo ufficio. – L'amministrazione, o signori… una saggia amministrazione è una legislazione applicata, come la legislazione… una saggia legislazione, è una amministrazione pensata. E perchè l'opera amministrativa proceda regolarmente, è necessario… porro unum est necessarium, che l'opera legislativa sia informata ad un concetto pratico, eminentemente pratico. Non si è mai badato a questa necessità; ed è stato l'errore, da cui son proceduti tutti gli altri. L'organismo di uno stato… Bello, quest'organismo dello stato! – osservò il sottoprefetto, fermandosi, come per ammirare l'opera sua. – Dev'essere anche nuovo. L'organismo dello stato, o signori, è come un ben inteso sistema di distribuzione d'acque, che, attinte alla sorgente donde emanano tutti i poteri, si dividono in cento canali, per recare a tutte le parti del campo i benefizi della vita. Et uda mobilibus pomaria rivis. Questa è la chiave, questo è il problema. —Hoc opus, hic labor.That is the question.– Anche l'inglese ci sta bene, in un discorso, quasi più del latino. Già, le citazioni fanno sempre buon giuoco. E le frasi, anche. Il prestigio delle istituzioni, l'era dei sacrifizi, la servitù secolare, il trionfo delle idee, la forza del diritto che si contrappone al diritto della forza, il vasto campo delle ipotesi e la severa scuola dei fatti… Vedete come le trovo! Come mi fioriscono sulla lingua! Ed anche questo fioriscono! Non l'ho mica cercato. Tiraquelli, amico mio, siamo nati oratori; dobbiamo andare in Senato. —

Qui il signor sottoprefetto si fermò di schianto.

– Ma quando? – pensò egli. – Prima di tutto la promozione a prefetto, e un po' di fortuna per saltare una classe. Ma prima di tutto, ancora, il matrimonio Francavilla Ruzzani. E questo diavolo del signor Prospero, che non mi ha scritto ancora! È capace di non esser forte in ortografia, e di vergognarsi. Se sapessi dov'è alloggiato, gli manderei un telegramma. —

Quest'idea del telegramma, passata a caso per la mente del sottoprefetto, ci tornò il giorno dopo. Il signor Prospero non si era fatto vivo, e il cavalier Tiraquelli era sulle spine.

– Ah, lo accomodo io! Non mi ha detto a che albergo voleva scendere; ma io gli farò vedere che posso saperlo ugualmente. Nulla sfugge all'occhio vigile dell'autorità. —

E quel giorno, per l'appunto, il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia batteva il telegrafo per domandare al questore di Milano in quale albergo si trovasse ad alloggio un signor Prospero Gentili, di cui dava tutte le indicazioni necessarie.

– Sarà maravigliato, domattina, di ricevere un mio telegramma, prima di alzarsi da letto. Caro signor Prospero! Sarà pure obbligato a rispondermi. —

Per intanto, capitò la risposta del questore di Milano. In nessun albergo, secondo che appariva dai rispettivi elenchi dei viaggiatori, esisteva un Prospero Gentili, od altro di somigliante, con nepote o senza.

 

Se aveste veduto il muso del sottoprefetto di Castelnuovo, dopo la lettura di quel telegramma! L'usciere, che aveva portato il foglio e lo aveva veduto accogliere con tanto allegra sollecitudine, dovette svignarsela in fretta, per non ricevere il calamaio, od altro arnese dello scrittoio, nella testa. Il segretario venne per la firma, e fu mandato al diavolo. Entrò la sottoprefettessa e fu mandata col segretario. Insomma, il nostro uomo schiattava dalla rabbia, e finì col chiudersi nel suo ufficio, dichiarando che per tutto quel giorno non voleva vedere nessuno.

Il signor Prospero non era andato a Milano! Che cosa voleva dire quella novità? Peggio ancora, che cosa voleva dire quella bugia? Perchè, infatti, si trattava d'una bugia, e detta con animo deliberato. Era il "mentire sapendo di mentire" di cui si è fatto tanto spreco in politica. La bugia del signor Prospero sarebbe stata perdonabile, se egli fosse partito solo. Un ripesco amoroso, Dio buono, chi non l'ha? Ed è forse necessario che un uomo dica chiaro e tondo: badate, io vo da questa parte, anzi che da un'altra? Ma il signor Gentili era partito con la sua nepote, e dopo aver preso formalmente congedo. La cosa era grave; rasentava lo sfregio. Uno sfregio all'autorità? Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia non era uomo da tollerarlo.

E frattanto, nessuno si presentava. Lo lasciavano solo co' suoi dubbi, senza offrirgli l'occasione d'un piccolo sfogo. Il signor cavaliere si rammentò allora di aver detto che non voleva vedere nessuno.

E afferrato il campanello, suonò furiosamente.

L'usciere comparve sull'ingresso.

– Che cosa comanda il signor cavaliere?

– Chiamatemi il signor Borgnetti. —

Il signor Borgnetti era il delegato di pubblica sicurezza del circondario di Castelnuovo Bedonia.

Un pensiero venne in mente al sottoprefetto, poichè l'usciere fu andato. Se il questore di Milano si fosse ingannato, negando l'arrivo del signor Gentili in quella città? Ma no; come poteva ingannarsi, se aveva veduto l'elenco dei viaggiatori? O forse il signor Prospero, andando a Milano, aveva creduto opportuno di cangiar nome? Perchè? Ma, lo avesse pur fatto, il telegramma del cavalier Tiraquelli al questore di Milano dava chiaramente i connotati della persona, e il telegramma del questore rispondeva con uguale chiarezza intorno ai due casi.

Il sottoprefetto di Castelnuovo non ci vedeva più lume. – Oh, devo saperlo! – borbottava. – Lo saprò, dovesse costarmi… È un'azionaccia che mi fa il signor Prospero. Ma è possibile? No, non può essere, qui c'è di sicuro un equivoco. Ah sciocco petulante! Asino calzato e vestito! T'hanno a far commendatore! Te lo darò io, il collare! Ma che cosa può essere accaduto, che questo signor Prospero… Non vorrei che gli fosse capitata qualche disgrazia per istrada. Ma, in questo caso, perchè non mandarmelo a dire?

Il sottoprefetto ripigliò il campanello e suonò da capo. L'usciere ricomparve sull'ingresso.

– Il signor Borgnetti?

– S'è mandato a chiamare. Era a letto, e si veste.

– A letto! a quest'ora? E il governo non dirà che gli si mangia il pane a tradimento? —

Il Borgnetti capitò finalmente. Era un coso secco allampanato, colore e fibra di stoccafisso, con baffi arroncigliati e mosca ripiegata in fuori, gli occhi grigi e mobilissimi, una gran smania di parere un hidalgo spagnuolo, col solo guadagno di poter essere paragonato a Don Chisciotte della Mancia. Le sue grandi imprese si restringevano a qualche articolo su pei giornali, buttato giù a tempo avanzato. In confidenza, era una vittima della sua grande schiettezza; i governanti lo avevano in uggia, perchè in altri tempi un suo scritto aveva risicato di far nascere una quistione europea. Come avrete capito, era un buon diavolo, incapace di quelle brutte cose che con tanta grandezza d'animo voleva appiopparsi, e aggiungerò incapace di far male ad una mosca, se non avesse avuto il vizio di tormentare ad ogni momento la sua.

– Ella dormiva! – notò severamente il sottoprefetto.

– Cavaliere… – mormorò il delegato; – quando l'ufficio è chiuso… quando non c'è niente da fare…

– C'è sempre da fare, nel suo ministero, come nel mio; – replicò il superiore. – Sieda; dobbiamo parlare a lungo. Sono scontento di Lei.

– Di me?

– Di Lei.

– Ma… il motivo?..

– I motivi, vorrà dire? Sono parecchi, i motivi. Le parlo franco, perchè Lei ama la franchezza.

– È il mio difetto; – rispose l'hidalgo con enfasi.

– Bene; si senta dunque dire che la polizia in Castelnuovo Bedonia è mal fatta; sì, molto mal fatta. Ho lagnanze continue del governo, sempre e solamente per questo. I tre banditi, perchè non si prendono? perchè si lasciano ad infestare la campagna, con gran pericolo della…

– Banditi! – interruppe il delegato. – Dica renitenti alla leva. È male, non dico di no; ma non si tratta punto di uomini pericolosi. Non hanno rubato nulla, finora; i contadini li proteggono, li sottraggono a tutte le ricerche della forza. Un servizio per le forre di monte Acuto, tra quelle selve di faggi e di cerri, non è mica la cosa più agevole del mondo. Un po' di tempo, e saranno presi anche i tre renitenti; un po' di tempo e non altro.

– Il sindaco di Trigallo, – proseguì implacato il sottoprefetto, – continua a fare orecchi da mercante alle nostre ingiunzioni.

– Quello non è affar mio; – rispose il delegato; – è affar suo.

– Per le questioni che avvengono, o che possono avvenire in paese, tocca alla pubblica sicurezza, ed Ella ci deve pensare; – ribattè il sottoprefetto. – Ma già, secondo Lei, niente ha attinenza con la pubblica sicurezza. Questo spetta ai carabinieri, quello agli uscieri, quell'altro ai doganieri; le guardie di questura debbono stare al corpo di guardia, e il signor delegato deve spartire il suo tempo tra il letto e la letteratura. Le parlo franco, perchè Lei ama la franchezza. Da Lei, dal suo ufficio, non si può neanche sapere donde vengono, e dove vanno tante persone… che vengono e che se ne vanno.

– Si spieghi; – disse il signor Borgnetti, che quella volta aveva dimenticato di vantarsi del suo difetto, rammemoratogli con patente ironia dal superiore imbizzito. – Si spieghi!

– La servo subito; – ripigliò il sottoprefetto, che era giunto dove voleva. – Ella non tiene neanche un elenco quotidiano di chi giunge e di chi parte dal circondario.

– Ella non me lo ha mai domandato.

– Si domandano, queste cose? Sono i principii, i rudimenti del mestiere.

– Mestiere!.. – osservò il signor Borgnetti, impermalito.

– Bene, dica sacerdozio e mi lasci tranquillo. Io le ripeto che certe cose si debbono sapere. Perchè, poi, succede che…

– Che cosa? A buon conto, da una settimana in qua non è venuto un forestiero che abbia dato sospetto di nulla. E quanto a partenze, nessuno si è mosso di qui.

– Nessuno! Proprio nessuno! E il Gentili, che è andato con la nepote, è dunque nessuno? —

Qui il Borgnetti ebbe l'aria di cascar dalle nuvole.

– Scusi, signor cavaliere, – diss'egli, – non mettevo il Gentili tra le persone che vanno osservate…

– Tutte, tutte egualmente, e il signor Gentili non dee sfuggire alla legge comune; – rispose il sottoprefetto. – Che cos'è la partenza? Un fatto. Orbene, Lei deve prendere nota del fatto, e delle ragioni del fatto, perchè il suo superiore le sappia.

– Voglio sperare, almeno, – si provò a dire il povero delegato, – che le ragioni del viaggio del signor Gentili le avrà sapute, senza bisogno delle mie indagini.

– Io so quel che so; – rispose il sottoprefetto, – ma Lei deve metterle in carta, come tutte le altre informazioni d'ugual genere. Io debbo averle sott'occhi, come un maestro di musica ha lo spartito di un'opera, dove sono notate tutte le parti. L'amministrazione è un'orchestra. Guai se manca l'accordo fra due istrumenti; ogni cosa va a rotoli. Dov'eravamo rimasti? Ah, ecco, al caso del signor Gentili. Saprebbe dirmi Lei dov'è andato il signor Gentili con la sua nepote? È l'esempio che mi viene a taglio per la dimostrazione del mio assunto, ed io me ne servo. Ella vedrà poi con che frutto. Suvvia, mi dica dunque dov'è andato il Gentili?