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La notte del Commendatore

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CAPITOLO XX

Dove il mio eroe incomincia a dar giù.

Il collegio elettorale dell'onorevole Ariberti non era molto disposto a confermargli il mandato. Il nostro eroe se ne avvide alla prima, e dovette conferire più volte co' suoi pochi ma fedeli partigiani, per ordinare le acconcie difese intorno alla posizione minacciata. Egli era nato bensì nel paese ma non ci abitava da un pezzo, e troppo di rado si lasciava vedere da' suoi bravi elettori. Era un facondo oratore; lo dicevano i giornali, ma la sua eloquenza non aveva mai voluto adattarsi a far l'ufficio delle frutte al pranzo magno di un sindaco, o a molcer l'orecchio d'un segretario comunale. E questi erano gravi peccati. Sta bene che se n'era pentito, e che aveva risoluto di parlare un po' da per tutto, perfino ai monelli di piazza, da una finestra di locanda; ma queste tarde rappezzature sarebbero giovate? Qui stava il busilli; e gli amici dell'onorevole Ariberti ne erano impensieriti non poco. Neanche il ministero lo sosteneva come avrebbe potuto e dovuto. Erano al potere gli amici suoi, amici che lo vedevano volentieri come il fumo negli occhi, e che si fecero un merito di moralità politica, lasciando l'amico in balìa del suo fato. «Non più candidature ufficiali» era il precetto del ministero, che lo messe fedelmente in pratica, nel collegio di Ariberto Ariberti.

Per fortuna del candidato pericolante, vegliava e lavorava Filippo Bertone. Qualche anno addietro aveva comperato un vasto podere di là da Mondovì la marchesa di San Ginesio, e ci andava a passare l'estate, facendo maternamente le vacanze col secondo dei suoi figli, che era nel collegio di Carcare, riputatissimo e degno della sua fama, com'erano in Piemonte, per bontà di studi e per larghezza d'opinioni, tutti i collegi tenuti dai padri Scolopii. Frati, sicuramente, frati, ed oggi è di moda bastonarli senza misericordia, come senza distinzione. Io pago un debito, dicendo de' miei maestri tutto il bene che so; anzi, mi affretto a correggere la frase impropria, perchè, volendo esser giusto, io non mi sdebiterò mai con quella brava gente, che m'hanno forse lasciato ignorante (e questo per colpa della mia cocciutaggine) ma che non si sono attentati mai di violare la coscienza adolescente del mio signor me, e non ne hanno poi fatto un codino. Il che avrebbero facilmente potuto, penserà qualche maligno, perchè la stoffa c'era. Donde, ribatto io, maggior lode a' quei poveri vecchi che io non involgerò mai nell'ostracismo comune. E chiudo la parentesi.

Grazie agli aiuti di quell'amico sincero e di chi gli voleva bene, la candidatura, che già pericolava, si raddrizzò. Filippo Bertone diceva a tutti: è un galantuomo, che non v'ha ingannati mai; eleggetelo. E l'autorità di Filippo era tale che vinse i più riottosi, cominciando dal medico condotto, che pizzicava di volteriano, e avrebbe voluto un uomo da mandar tutto a rotoli in quattro e quattr'otto, per giungere fino al farmacista, che voleva aboliti tutti i privilegi, tutti i monopolî, salvo, s'intende, quello di esser solo in paese a spacciar le sue droghe.

–È un uomo d'ingegno, ne convengo;—diceva il medico condotto;—ma al Parlamento, con tutta la sua eloquenza, che cosa ha fatto fin qui nella quistione religiosa?

–Niente, pur troppo; ma di grazia, ascoltate; era forse lui che dovesse metterla all'ordine del giorno? Dipenderà forse da lui che non ci siano più vescovi nelle città, nè parroci nelle campagne? Quando un imperatore romano ebbe abolito per decreto il gentilesimo, sapete voi dove andò a rifugio il dio Pane, e quanti secoli vi durò ancora il suo regno?—

Il medico battè le labbra, crollò le spalle, e non rispose parola.

Filippo Bertone diceva poi al farmacista:

–Togliamo i privilegi d'ogni genere; sta bene. Ma incominciamo a toglierli dal nostro paesello. Perchè non si abolisce il titolo e la umilissima riverenza al signor conte di Montiglio? È candidato alla deputazione, mi direte, e un titolo e una riverenza non guastano. Ma il suo programma politico, lo conoscete voi? Ci si legge egli proprio il paragrafo che il signor conte parlerà e voterà contro tutti i privilegi, da quello di re a quello di farmacista patentato?—

La lotta veniva diritta, ma era così amichevolmente data, e poi Filippo Bertone era un uomo di tal levatura (privilegio naturale, pur troppo, e a cui nessuna legge potrà mai dare lo sfratto) che il signor farmacista si messe a ridere. Cionondimeno, quell'ostinato non volea darsi per vinto.

–Capisco;—diss'egli;—capisco tutto… Ma una lezioncina al cavaliere Ariberti, a questo liberale che fa l'aristocratico…

–Eh via! signor Prospero; queste… cose lasciamole dire ad altri, o sciocchi, o cattivi, o l'una cosa e l'altra appaiate. Ariberti non è un aristocratico; o piuttosto lo è, sì, ma come voi e me, che non andiamo dal Pinta, a trincare e bestemmiare col primo che capita, ma ce ne stiamo in casa nostra a studiare, per tenerci al fatto di tutto ciò che esce di nuovo, per me in materia di fisiologia e di patologia, per voi in materia di chimica farmaceutica.—

Il signor Prospero non si dolse del paragone e non isgradì quello studio di chimica farmaceutica, che per lui si ristringeva a qualche partita a tarocchi, nella parte più riposta della sua dotta bottega.

Perciò si rimise in tasca la lezioncina che avrebbe voluto dare all'onorevole Ariberti, non senza ridere ancora una volta d'un grazioso paragone del signor Filippo, al quale il voler cambiare da Ariberti a Montiglio, per vendicarsi del primo di loro, o per dargli una toccatina, facea ricordare la bella impresa di quel brav'uomo che s'impiccò per far dispetto a sua moglie.

Venuto il giorno della prova solenne, Ariberto Ariberti uscì eletto al primo scrutinio, senz'altro aiuto fuor quello delle buone ragioni. Per molti elettori, poichè si ha a dir tutto sinceramente, le buone ragioni erano il meno, e la condiscendenza al desiderio di casa San Ginesio era il più; ma siccome da quella casa non erano usciti ordini, nè raccomandazioni che arieggiassero il comando, può ammettersi il ragionevole ossequio degli elettori campagnoli tra le cose lecite ed oneste, e gabellare la rielezione dell'onorevole Ariberti tra le più nette di quella nuova legislatura.

Proclamato vincitore, il nostro Ariberti avrebbe dovuto, secondo ogni norma di convenienza, recarsi a visitare la marchesa di San Ginesio e ringraziarla in pari tempo dell'aiuto liberalmente dato alla sua candidatura. Ma quantunque ci pensasse due o tre giorni su, e fosse convinto che tale era l'obbligo suo, pure non gli diè l'animo di farlo.

–Scusami, e trova il modo di scusarmi presso la signora marchesa;—disse Ariberti a Filippo Bertone;—io l'ho troppo amata in illo tempore e mi sentirei oggi troppo ridicolo, presentandomi a lei. Già, con te, vecchio amico, si può parlare alla libera e col cuore in mano…

–Ma sì, certamente.

–Or bene, dunque, Filippo mio, lasciatelo dire; io t'invidio.—

Filippo Bertone, a quelle parole del suo amico d'adolescenza, si fece in volto del colore che sapete. E non volendo ammettere, e non sapendo negare, tentò di sviare il discorso.

–Uomo debole!—diss'egli, mettendo amorevolmente le mani sulle spalle di Ariberti.—Non hai la tua stella polare a Torino?

–Sì, è vero;—rispose Ariberti con impeto, ma reprimendo in pari tempo un sospiro.

Il suo pensiero, infatti, ricorrendo a Clementina, tornava altresì alle lettere che aveva aspettato e che non aveva ricevuto. Che cosa importava di lui alla bella marchesa di Rocca Vignale? Lontano dagli occhi, lontano dal cuore; il proverbio aveva proprio ragione. Inoltre, Clementina avrebbe potuto avvicinarsi anche lei, in quella occasione, al teatro della lotta elettorale, poichè possedeva per l'appunto un castello nelle Langhe, dov'egli avrebbe anche potuto dare una scappata, senza allontanarsi troppo dal suo collegio. Ma la signora marchesa, mentendo al suo casato, amava assai poco la campagna. Il suo castello era una bicocca, diceva lei: senza nessuna comodità per andarci e nessuna per abitarci; poi, quella gente zotica sempre dattorno; i dialoghi obbligati col castaldo e col parroco; la civiltà rappresentata solamente da un brigadiere dei reali carabinieri… no, no, la marchesa di Rocca Vignale amava meglio restarsene a Torino, a cantare nella vuota città i treni di Geremia, e ad aspettarvi l'occasione di qualche gita a Parigi, o ad una delle tante città di bagni (e di seccature) che sono le oasi estive dei viaggiatori, nel gran deserto d'Europa.

S'intende che, per questo capriccio della marchesa, anco Ariberti aveva rinunziato alla vita dei campi, che amava pur tanto e che gli sarebbe tornata così utile, per ristorarlo dalle fatiche e dalle molestie di tutto l'anno. Quid foemina possit! Già, per una donna amata si fa volentieri ogni sorta di sacrifici; ma il nostro Ariberti non potea rattenersi dal pensare talvolta, che qualche sacrificio scambievole non avrebbe mica guastato.

Quella considerazione, inedita sempre, unita ai dubbi, alle gelosie che ho già detto, era un assiduo rammarico, un cruccio implacabile, che bastava ad avvelenare tutte le gioie del nostro innamorato. Il quale, riconfermato onorevole, tornò finalmente a Torino, augurandosi una lieta accoglienza, a conforto di tante noiose giornate. E l'ebbe, infatti, più lieta e più affettuosa che egli non ardisse sperare, per modo che fu ad un pelo di caderle a' piedi e domandarle perdono di tutti i suoi vani timori, di tutti i suoi ingiuriosi sospetti.

Quanto al carteggio, che era stato così poco vivo da parte sua, la marchesa ci aveva un sacco di ragioni e sette sporte. «Del resto (conchiudeva, dopo averle sciorinate tutte), che cosa volete farvi de' miei scarabocchi? Non sapete voi l'essenziale?»

«E vada per l'essenziale!» pensò Ariberti che non l'aveva mai veduta così tenera, neanche nei primi giorni dell'amor suo.

 

Il lettore vecchio e scaltrito fiuta già un piccolo tradimento in queste tenerezze della marchesa. Ma io debbo affrettarmi a disingannarlo. Qualcosa veramente c'era, e questo qualcosa assediava la piazza coll'ardore dei venticinque anni e col luccichio d'un paio di spalline d'oro. Ma la piazza, quantunque avesse a che fare coll'artiglieria, non aveva capitolato; la dama si era contentata di lasciar dire, di stare a sentire, e ci si era divertita un mondo. Piacere d'odalisca, o di monaca, che dalle grate del suo serraglio sogna i romanzetti di fuori via, senza mettersi alla prova di tesserli!

Una cosa, per altro, è da ammettersi: che ad Ariberti un pochino d'assenza giova molto, nell'animo della marchesa. Egli veramente credeva l'opposto; ma non era così, e le tenere accoglienze di Clementina glielo avevano dimostrato. Chiederete come andasse la cosa; ma il dirvela come la sento mi condurrebbe troppo in lungo, e con danno della mia riputazione, perchè anzitutto dovrei esporvi la teorica della giusta misura dei cibi che vengono a noia, anche quando siano pernici, e dei necessarii riposi che dobbiamo, concedere al cuore come al palato; tutta roba da tirarmi addosso le maledizioni delle anime sensitive, le quali non vogliono vedere nell'amore un fatto fisiologico, soggetto alle medesime leggi che governano tutte le manifestazioni della vita in questo povero mondo.

Dirò invece, andando per la più spiccia, che il mio Ariberti era opprimente in amore, e che la donna amata da lui poteva di tanto in tanto sentire il bisogno di rifiatare. La società non vuol più saperne dei Werther; anzi soggiungo, pensando alla signorina Carlotta, che la società non li ha amati mai, e c'è voluto tutto l'ingegno di qualche scrittore coi fiocchi per farli piacere dopo morti. Ragazzi, badate a me, non vi gettate alle esagerazioni; siate misurati nelle cose del cuore e padroni di voi medesimi: cansate le dimostrazioni d'un amore eccessivo, come il diavolo, secondo si narra, suol cansare l'acqua santa.

So bene che il mio consiglio piacerà poco, anzi non piacerà affatto a nessuno, e segnatamente alle donne. Sono esse difatti che interrogate lì per lì, vi diranno di voler tutto, o nulla. Ma queste son chiacchiere, e se volete, anco galanterie; ma guai a pigliarle in parola; si ama con furia, come il cuore vorrebbe, e si diventa stucchevoli. Misura, dunque; calor di parole, non dico di no; anzi, chi più ne ha ne metta, perchè fa in amore l'ufficio medesimo delle carote tostate nel brodo, che gli danno buon colore, e non gli mutano il gusto. Essendo, com'io v'auguro, più padroni di voi medesimi, non commetterete tante di quelle corbellerie che vi fanno diventar noiosi, o ridicoli, e non vi guasterete coi bollori quella cara vernice di gentilezza, che entra per due terzi nel pregio della maiolica umana. Son chinesaggini, lo so; anche a me parvero brutte, quando avevo vent'anni; ma ora ho capito che tutto è fragile quaggiù, e che il «posa piano» di rigore potrebbe scriversi a lettere di scatola su tutta la crosta del globo.

Se mi sente Filippo Bertone sono un uomo spacciato. Ma Filippo fa eccezione, perchè… volete saperlo? perchè ha trovato un'altra eccezione. S'incontrano di questi uomini e di quelle donne pel mondo, come trifogli di quattro foglioline pei prati. Ma dite, non le vi paiono stranezze? I Greci, quando s'abbattevano in alcuna di tali figure, la mettevano subito nel Pantheon e le rendevano onori divini, ma dopo averle assottigliate ben bene le estremità; perchè, secondo loro, gli Dei radevano qualche volta il suolo co' piedi, non lo premevano mai.

Lasciamo dunque Filippo Bertone e la marchesa di San Ginesio nel loro Olimpo, e parliamo di cose terrene.

Il nuovo Parlamento era fatto. Ma le elezioni erano tornate fatali al ministero riparatore, un po' perchè non aveva riparato a niente, e molto perchè gli avversarii suoi avevano dalla loro quasi tutte le autorità provinciali, sempre più tenere del vecchio che del nuovo gabinetto, il quale era venuto su d'improvviso e non affidava nessuno della propria stabilità. L'onorevole Ariberti veniva per tal modo a trovarsi in un bivio curioso, tra un ministero pencolante di amici suoi, che non lo potevano patire, e che lo avevano in più modi offeso, ed una numerosa schiera di vecchi avversarii, che, disponendosi a rovesciare il ministero, incominciavano a lisciar lui, per farsene un alleato.

C'era, come i lettori ben vedono, da aver occhio alla penna. Ma il nostro Ariberti non doveva impensierirsene troppo, perchè, una settimana dopo il suo ritorno in Torino, già aveva altro per il capo. Ad una delle prime veglie della marchesa di Rocca Vignale, si era veduto tra i piedi un nemico, quel tale ufficialino che sapete, e che pareva esser là in casa sua. Forse era effetto di giovanile jattanza, fors'anco la gelosia faceva travedere Ariberti; ma così parve al nostro onorevole, e la sua pace andò in fumo.

L'ufficialino era biondo, bello, e tutto l'altro come il re Manfredi, salvo la cicatrice sulla fronte. Non era un'aquila, ma aveva ingegno quanto basta per vivere nel bel mondo e di quella tal qualità che piace meglio alla gente. Era di belle maniere e tratto tratto sapeva anche dire una cosa spiritosa, o sua o d'altri, spiegare una sciarada, suonare una polka sul cembalo, e dirigere una contraddanza.

All'occorrenza, cantava anche, con una vocina da tenore e con garbo veramente singolare. Per giunta, lo dicevano un prode soldato, e il generale comandante dell'arma ne teneva di conto.

O perchè non se ne stava egli tra i suoi? La signora generala non aveva dunque più occhi, da lasciarlo andare randagio a quel modo, come il leone in busca? Sicut leo rugiens quaerens quem devoret, dice la Scrittura. Imperocchè, così doveva essere, non altrimenti. Quel biondo e bello artigliere «che pareva Gabriel che dicesse: ave» scorreva la campagna per provare i tiri di rimbalzo, radenti e ficcanti, del suo repertorio.

Immaginate che rabbia fosse quella di Ariberti, quando si vide quel giovinetto per la seconda volta tra' piedi; rabbia tanto più concentrata, in quanto che il nostro innamorato doveva, come suol dirsi, inghiottire amaro e sputare dolce. Difatti l'esperienza gli aveva insegnato, sebbene un po' tardi, a dissimulare la gelosia, brutto male, peggio dell'itterizia, la quale vi tinge il volto di giallo, mentre la gelosia, ve lo tinge di scimunito. E doveva starsene lì fermo impassibile, sereno, e sapere anche all'occorrenza negare l'interno struggimento come il fanciullo spartano, a cui la volpe rubata stracciava le carni coi morsi. Un brutto impiccio, non è egli vero? Ma già, con quel maledetto viscere tra le due ali del polmone, che non vuol mai obbedire al cervello, come si fa? Bisogna recarsi in santa pace i tormenti ed augurarsi che non diventino insopportabili addirittura. E frattanto, addio severa allegrezza delle opere forti; addio estasi dei concepimenti sublimi; si va a far le pazzie del cuore, si torna ragazzi, ma pur troppo senza averci più le inconsapevoli attrattive e le facili risorse dell'età giovanile.

Or dunque l'onorevole Ariberti era costretto a godersi quella cara compagnia, o concorrenza, come la chiamerebbe un mercante, o ridosso, come la direbbe un bottegaio. E il gentile alunno di Marte appariva così tenero, cascante e vezzoso, che la stessa marchesa di Rocca Vignale, assuefatta a simili svenevolezze, e donna da non disdegnarle, ne era impacciata non poco. Ella non riusciva ad intendere se Ariberti si fosse avveduto e ingelosito di quelle adorazioni; lo sospettava, vedendolo così rattenuto, ilare in vista e cortese, ma sempre in guardia contro sè stesso; ed era naturale che volesse sincerarsene, temendo che da un momento all'altro gli morisse sulle labbra quel sorriso sforzato e che egli ne facesse qualcuna delle sue.

Per altro, non c'era pericolo che il nostro eroe uscisse per allora dai gangheri. Certo con vent'anni di meno, avrebbe dato nei lumi, tirato verbigrazia in disparte il suo uomo per dirgli chiaro e tondo: Signore, qui non c'è posto per due: vogliamo giuocarcelo? Ma a quarant'anni, e con tutta l'esperienza di questa rispettabile età, gli era un altro paio di maniche. Il sangue ribolliva nella caldaia, ma la ragione invigilava al coperchio, ricordandogli ad ogni istante com'egli non dovesse, con imprudenti sfuriate, far torto al buon nome della marchesa, nè alla sua propria dignità, e come egli fosse invece il caso di stare in cervello, di avere un occhio al cane e l'altro alla macchia.

E studiava, il pover uomo; oh, se studiava! sulla leggerezza delle donne e sulla melensaggine degli uomini. Nè io starò a ripetervi tutti i pensieri che si succedettero nella sua mente, perchè voi già li indovinate, e perchè essi non sono necessarii allo svolgimento della mia storia. Tutti questi monologhi si rassomigliano in cotesto, che non concludono mai e non cavano un ragno da un buco.

Ora siccome la tranquillità dello spirito non si può fingere a lungo, e spesso avviene che la maschera pesi sul volto, l'onorevole Ariberti incominciò ad amare la solitudine, e trovava sempre qualche pretesto per vedovare della sua presenza le conversazioni della marchesa. Per contro, nessun mutamento essenziale nelle consuetudini di lei, che era sempre quella di prima, un po' vana, ma contenta, di possedere il suo schiavo e di vedere come l'impero della propria bellezza su lui non fosse scemato. E in quelle ore di cielo, in mezzo a quelle estasi che egli avrebbe voluto eterne, il povero schiavo si sentiva qualche volta arcanamente turbato; e la guardava fisso negli occhi, come per rintracciarvi un'immagine diversa dalla sua; e lo assaliva un fiero desiderio di stringerla, di soffocarla quasi, perchè avesse a confessare… Che cosa? Non era egli per avventura un po' matto?

CAPITOLO XXI

In cui si sciorina la teorica delle lune.

Così voleva e disvoleva, dubitava, credeva e tornava a dubitare, amando quella donna con una veemenza che sentiva del feroce. Gli amori in cui entrano i sensi per la massima parte, son tutti così. Lo spirito ci avverte di stare in guardia, e si affanna a trovar sempre nuove cagioni di sospetto, che disgraziatamente nessuna logica è più buona a distruggere; ma la bellezza ci attrae, c'involge, ci penetra fino al midollo, nè troviamo più modo di riaverci, di esser padroni di noi. Ed era così bella costei, con quella testolina briosa, quel collo di cigno, e quelle forme flessuose! La serpe lo aveva chiuso nelle sue spire ed egli ne sentiva il fascino; si dibatteva impaurito, e non avrebbe osato spiccarsene. Pure, non era mica la donna sognata da lui a mente libera, la donna amante ed austera, nella cui dignità potesse giurare e nel cui affetto fidarsi come in cosa di cielo. Dio immortale! Ma perchè si era egli abbattuto in costei? E innamorato pazzamente, sdegnoso e raumiliato ad un tempo, fremeva dentro di sè, non volendo confessare la sua debolezza, che pure gli traspariva dagli occhi.

Povero martire di sè medesimo! Io che non gli voglio un bene sviscerato e non lo adulo punto, come avete veduto, ma che mi curo di lui come il medico dell'ammalato, a cagione della malattia, lo compiango sinceramente e dal profondo dell'anima.

La tortura andava per verità un po' troppo in lungo. Il rivale gli era sempre tra' piedi. Inoltre, un nuovo dubbio si aggiungeva, per dar noia ad Ariberti. Giudicatene voi. Che il biondino si trovasse in tutte le feste a cui andava la marchesa Clementina, si capiva, perchè non erano molte e il bel mondo torinese non era così ricco di numero, da potersi rinnovare ogni volta, come l'uditorio di un teatro di Parigi o di Londra. E a proposito di teatri, era anche naturale che l'ufficialino si trovasse al Regio, in quelle sere che la marchesa di Rocca Vignale soleva essere nel suo palchetto. La cosa poteva piacer poco ad Ariberti, che doveva vederselo ogni volta da fianco, visitatore importuno, ma in quel fatto non c'era niente d'insolito, e il nostro geloso doveva portarselo in pazienza. Ma qualche volta la marchesa Clementina andava al D'Angennes, al Gerbino, o ad altro teatro di prosa, non pigliando norma che da un capriccio passeggero, o da un invito di Ariberti, che aveva l'arte di non farne mai un giorno prima. E andava col cuor contento, il nostro eroe, in quei teatri di second'ordine, perchè là, grazie al cielo, non li avrebbe seguiti quell'altro. Ma no; finiva il second'atto, e una mano traditora apriva discretamente l'usciolino del palco. Chi era? Lo indovinate alla prima; il biondino, sorridente, amabile, e carico per soprappiù di notizie del mondo elegante, che piacevano tanto alla marchesa Clementina; mentre lui, Ariberti, non ci aveva che i ragguagli della Camera, e la marchesa da qualche tempo non s'occupava più di politica.

Una, due, e andiamo là, fino a tre volte, pensò che quelle apparizioni fossero opera del caso. Per altre due o tre, immaginò che il giovinotto, non vedendo la marchesa al Regio, facesse la ronda in tutti gli altri teatri. Da ultimo sospettò che ci fosse un'intesa tra i due. Il proverbio gli diceva che a pensare il peggio ci s'indovina di sicuro. E allora soggiungeva tra sè: la donna è fatta così; di due uomini ne inganna sempre uno. Io sono il primo per ordine di tempo; di certo inganna me. Saranno scherzi, ammettiamolo; ma sono scherzi pericolosi. Ah, qui ci vuole un rimedio, e bisognerà giocare d'astuzia.

 

Ne aveva pensata una da maestro; ma era un poco grossa, e il nostro Ariberti, che amava il giuoco onesto, non poteva risolversi a mandarla ad effetto. Intanto, alla Camera si preparava una battaglia campale, ed egli ci si buttò a capo fitto, sperando di trovarci qualche giorno di oblio.

Il Ministero non si reggeva; troppi erano e compatti gli avversari; gli amici, parte disanimati, parte titubanti e si temeva che avessero a girare nel manico. Ariberti ebbe pietà degl'ingrati, e, colta l'occasione a volo, improvvisò un discorso, in cui versò a piene mani la passione, l'ironia, il sarcasmo, la veemenza, il calore ond'era tutto compreso. Rianimò i timidi, fulminò i traditori e gli ambigui, rinfacciò agli avversarî la loro politica fiacca e la loro amministrazione partigiana, opponendovi quella del ministero liberale, che non aveva dato un passo sulla via dell'arbitrio, che non aveva rimosso un pubblico ufficiale, anche sapendolo ligio ai suoi nemici e loro fido strumento nelle elezioni generali, bastandogli il conforto della sua coscienza, unico usbergo contro le male arti avversarie ed unica sicurtà che amasse dare delle sue intenzioni al paese. Efficacissimo nel dipingere i mali che l'amministrazione cessata aveva cagionati, fu semplice e schietto nello esporre quel po' di bene che il ministero s'era ingegnato di fare; virile nelle accuse, e femmineo nel movimento degli affetti, ebbe lampi di meravigliosa eloquenza nella sua perorazione, scosse l'assemblea, infiammò le tribune, e la maggioranza dei voti suggellò il suo trionfo nella vittoria del ministero, che ancora il giorno avanti si riteneva spacciato da tutti.

Per qualche giorno l'onorevole Ariberti tornò ad esser l'eroe del campo parlamentare. I ministri, che egli aveva così efficacemente sostenuti, sentirono l'obbligo di mostrarsi cortesi verso colui che poteva ben dirsi il loro salvatore. La gratitudine, si sa, non è la prima, nè la più coltivata, tra le virtù degli uomini, e segnatamente degli uomini politici. Ariberti non lo ignorava, egli che in un punto notevole del suo discorso si era anzi affrettato a chiarire la sua posizione di aiutatore spontaneo e senza secondi fini. «Io non sono (aveva detto) l'amico dei ministri; odio gli ingrati, odio gli immemori dei servigi che questi uomini hanno reso, in tempi difficili come i nostri, alla patria. Se fossero forti e sicuri del vostro voto, come lo sono della bontà della causa loro, tacerei, lasciando agli amici della ventura il gradevole ufficio di appoggiarli senza fatica; ma li vedo assaliti da una parte, mal difesi dall'altra, e sento rivoltarsi qua dentro la mia coscienza di uomo e di cittadino».

Queste parole, che avevano sapore «di forte agrume» e per gli avversari dichiarati e per gli amici tiepidi del ministero, non dovevano nemmeno riuscire troppo dolci per quest'ultimo. Sopratutto la frase «odio gli ingrati» era un'arma a due tagli, da cui i vecchi amici di Ariberti toccarono anch'essi la loro brava scalfittura. Donde la necessità riconosciuta di fargli carezze allora, e non solamente per lo aiuto inatteso che egli aveva recato, ma eziandio per quello che se ne potevano ancora ripromettere. E tutto questo egli faceva per bontà d'animo insigne, senza chieder nulla in compenso. Nessuna preghiera gli era stata fatta, nessun concerto era stato preso, nessun portafoglio offerto in extremis. Per dire la verità, non avrebbero neanche potuto farlo, senza aver l'aria di offrire a lui ciò che eglino stessi erano già in procinto di perdere.

–Ecco una buona pasta d'uomo;—dissero i ministri tra loro;—anzi una stupenda macchina da parole. Ci serve egregiamente per fulminare i nostri avversarii, e non ci domanda nulla per sè. Il meno che possiamo fare è di dargli un po' d'unto.

Perciò gli furono attorno a ringraziarlo, a fargli un subisso di proteste amorevoli; lo avevano sempre stimato un grande oratore; riconoscevano ora in lui un amico sincero; dicesse quel che voleva, consigliasse quel che credeva più acconcio; essi niente desideravano di più, che di seguire i suoi consigli, di fare il piacer suo in ogni cosa.

Ariberti parò modestamente quella raffica di complimenti, assaporò dietro di sè la sua gloria, ringraziò, promise che avrebbe fatto altrettanto alla prima occasione, e se ne andò, disprezzando un pochino di più i suoi vecchi amici in particolare e gli uomini in generale, ma con quel filosofico disprezzo, scevro d'ogni amarezza, che si concilia così bene colla soddisfazione interna dell'uomo ossequiato.

Quel giorno ed altri parecchi, il trionfo oratorio di Ariberti e la vittoria del ministero furono il tema di tutti i discorsi. Nel salotto della marchesa Clementina si andava a gara per inchinare il Demostene, il Marco Tullio redivivo. La signora evidentemente godeva di quelle incensate che si davano al suo onorevole amico, e per tutta una sera non ammise che si parlasse d'altro fuorchè di politica.

Così voleva la moda. Anche il cembalo tacque, e l'alunno di Marte dovette rassegnarsi a far la figura di un satellite di Giove.

Il trionfo di Ariberti era pieno; dopo gli evviva delle moltitudini, ci aveva ancora il sacrifizio in Campidoglio, e la vittima.

Quando la marchesa Clementina ebbe modo di trovarsi a quattr'occhi con lui, gli disse:

–Cattivo! Non dovrei volervi più bene. Come va che non mi avete avvertita che facevate un discorso?

–Vi giuro, Clementina,—rispose egli prontamente,—che non sapevo di dover parlare. Il desiderio ci era da qualche giorno, e le idee mi brulicavano in mente, non lo nego; ma quanto a risoluzioni, non ne avevo fatto nessuna, e preparativi anche meno.

–Sì, sì!—ripiglio la marchesa;—crediamolo Ora capisco perchè da un mese in qua eravate sempre così concentrato e senza parole.—

Questa osservazione della marchesa innocente per sè stessa, e tale in ogni altra occasione da non essere avvertita quasi, fu un colpo crudele pel cuore di Ariberti. Come? pensò egli: e può ancora ingannarsi in tal modo? non avere intese le ragioni che mi facevano soffrire? E da questo po' di fumo, che qualcheduno mi invidia di certo, io ci avrò dunque guadagnato ch'ella non penserà mai a levarsi quel noioso aspirante d'attorno?

L'aspirante, dopo quella sera, in cui era rimasto ecclissato, non si lasciò vedere per due o tre giorni. Ma ricomparve pur troppo, e fu festeggiato, e se non gli si domandò il perchè di quella lunga assenza, Ariberti potè argomentare che non occorresse davvero; essendo come sottinteso in quelle graziose accoglienze.

La marchesa fu per tutta la sera amabilissima coll'ufficiale; se per umanità verso un frequentatore della sua casa, che era stato assente più del consueto, o per capriccio donnesco, non importa cercare. Del resto, il giovinetto portava un rotolo di musica, fatta venire a bella posta da Vienna.

Cosa innocente, lo so. Inoltre, alla marchesa premeva molto, ed anche questo va da sè. Ma il nostro Ariberti in quella materia era stato licenziato dottore, ed intendeva benissimo e ricordava per propria esperienza che cosiffatti servizioli fanno parte di quella servitù galante, che, una volta accettata, porta obbligo di ricompensa. O perchè quella musica, di cui Clementina aveva tanto bisogno, non era stata chiesta a lui, o direttamente commessa al venditore? Innocente finchè si vuole; ma intanto, una cosa era certa, che quel servizio musicale non sarebbe stato profferto da una parte ed accettato dall'altra, quando Ariberti e la marchesa erano nella luna di miele. Imperocchè, bisogna riconoscerlo, anche l'amore ci ha le sue lune.