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Tra cielo e terra: Romanzo

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Capitolo IV.
La disputa filosofica

Un giorno che Maurizio faceva la solita strada del bosco per salire alla Balma, gli venne veduta la gran novità di un abito talare che appariva e spariva a intervalli lungo i tigli del gran viale. L’abito talare scendeva; e Maurizio, fermandosi alquanto ad una svolta del sentiero, riconobbe il suo uomo. Don Martino che veniva di lassù! Era un caso strano, inaudito. Il signor di Vaussana non aveva saputo mai che l’arciprete di San Giorgio bazzicasse alla Balma; e vedendo per la prima volta don Martino ritornare da quella eminenza, pensò involontariamente al signor Camillo, il miscredente.

Infatti, quell’anima buona di sua sorella Albertina poteva dir tutto quel che voleva, per coprire la verità, ma il primogenito dei Matignon era vissuto tutt’altro che in concetto di buon cristiano. In chiesa non lo aveva mai visto andare nessuno, nello spazio di trent’anni. Si diceva dal vicinato che fosse un libero pensatore, che leggesse il Voltaire, il Rousseau e gli altri Enciclopedisti; desolazione della abominazione. Quella, s’intende, era la chiacchiera d’altri tempi, dei tempi in cui si voleva dar colpa di tutta la miscredenza moderna al Voltaire, al Rousseau; nè poteva indurre in errore Maurizio, che conosceva benissimo le opinioni spiritualistiche del Ginevrino, e quanto all’altro rammentava benissimo la storia del tempietto di Ferney con la famosa epigrafe: «Deo erexit Voltaire»; un po’ orgogliosa, per dire la verità, ma non atea. Comunque fosse, avessero torto o ragione le coscienze timorate del luogo a veder così neri gli Enciclopedisti, restava sempre il fatto che il primogenito dei Matignon non era vissuto praticando la religione dei padri; e l’essere andato don Martino, arciprete di San Giorgio, al suo letto di morte, non provava punto che si fosse riconciliato all’ultim’ora. Se ciò fosse avvenuto, l’arciprete non avrebbe tralasciato di dirlo: in quella vece, quando gli si toccava quel tasto, don Martino cambiava discorso. Dunque… la conseguenza era facile a trarsi; don Martino era andato per moto spontaneo dell’anima, fors’anche giungendo tardi, e ad ogni modo non salvando che le apparenze, per chi voleva contentarsene.

Quanto al generale, egli doveva essere la seconda edizione del suo fratello maggiore; salvo, s’intende, lo studio sugli enciclopedisti. S’impacciano poco con la filosofia, i militari. Così pensava Maurizio; e così pensando, la presenza inaspettata dell’arciprete di San Giorgio al castello della Balma doveva parergli una cosa strana, inaudita. Ma non era affar suo: da uomo educato, non poteva domandare; da uomo senza curiosità, non ne sentiva il bisogno; si era già dimenticato dell’abito talare, giungendo alla presenza del castellano della Balma.

Il generale era col suo inseparabile Dutolet, ambedue seduti al fresco, su certi sedili di ferro, disposti a semicerchio fuori dell’ingresso, accanto alla gradinata di marmo.

– Venite qua voi a consolarci; – disse il generale, com’ebbe veduto Maurizio. – Venite a riconfortarci lo stomaco. Non lo sentite, l’odore di scarafaggio? —

Maurizio ebbe l’aria di non intendere a che cosa volesse alludere il suo interlocutore.

– Già, – ripigliò il generale, – voi venite sempre dalle scorciatoie; se foste venuto dal gran viale, avreste incontrato l’uomo nero che ci ha regalato un’ora del suo tempo; e ne avremmo fatto volentieri di meno. Con che scopo, domando io, con che scopo il signor arciprete di San Giorgio viene una volta al mese quassù? Per vedere quando si fa conto di lasciargli queste quattr’ossa?.. Ma non ne abbiamo nessuna voglia; non è vero, Dutolet?

– Per quello che mi riguarda, – disse il capitano, senza neanche sorridere, – ci sarebbe troppo poco da rosicare.

– Non dimentichiamo i diritti dell’ospite; – notò il generale, osservando che Maurizio era rimasto silenzioso. – Nè di politica nè di religione si deve ragionare tra uomini. A questo ci ha ridotti la civiltà; e le sue leggi van rispettate. —

Maurizio vide allora la necessità di parlare.

– Se è per me, generale, non vi date pensiero; – rispose. – Non mi fanno paura i discorsi di politica, nè quelli di religione. Credo ancor io che la civiltà abbia delle leggi false, come ne ha delle puerili. A mio avviso si può discutere di tutto; basta che nella discussione si porti della misura, della buona volontà, del rispetto.

– Ah, mi levate un peso dal cuore! – gridò il generale. – In fede mia, non ne potevo più. Immaginate che non posso soffrire i preti.

– Scusate, generale, ma allora…

– Volete domandarmi perchè li ricevo? In verità, non sono io che li invito a venir quassù. Già, non so se debbo ridere o andare in collera, quando me li vedo davanti. Non sanno che esser umili coi potenti e coi ricchi. È dunque una umiliazione che vogliono.

– Ed io, perdonate, non la infliggerei loro; mi darei piuttosto ammalato d’emicrania.

– È quello che dice mia moglie. V’intendereste benissimo con lei, almeno nel fatto di dispensarli da una visita inutile. Neanch’essa li può soffrire. Mio fratello l’ha educata bene, ed io non ho avuto da consigliare mutamenti nella sua educazione. Niente preti, miei giovani amici, specie con le donne. Infatti, è ancora per mezzo delle donne che essi comandano nel mondo; sono essi che le hanno educate alla superstizione, e con la confessione, col perdono periodico, le hanno educate alla colpa.

– Ma il perdono è di Cristo.

– Cristo fu un uomo. Come uomo, lo venero, ho un gran rispetto per lui; non senza riconoscere, per altro, che avrebbe fatto meglio ad essere più severo, insegnando per esempio a non fallire con tanta facilità. Ma che si fa la burletta? Col dirci che il giusto cade sette volte al giorno, non si dà la licenza a tutti di cascar quattordici, o ventotto? Per me, dicano quel che vogliono con la teorica del perdono; non conosco che il dovere, io, e so che il dovere è buono.

– Debbo io dirvi tutto quello che penso, generale?

– Ma sì, per bacco. Non lo dico io liberamente, approfittando della vostra licenza?

– Ebbene, – rispose Maurizio, – vi dirò che il dovere è buono, perchè scende diritto diritto dalla legge morale; e la legge morale è Dio.

– Ah, il gran cavallo di battaglia! Ma siete voi persuaso, caro amico, che Dio non sia una creazione dell’uomo?

– Anche la morale, allora.

– La morale, – sentenziò il castellano della Balma, – è l’utilità bene intesa, per cui solamente si conserva questa povera specie umana. Non fare ad altri quel che non vorresti che fosse fatto a te; fare ad altri quello che vorresti che fosse fatto a te.

– Già, per dare il buon esempio, – replicò Maurizio, sorridendo; – ma gli altri lo seguiranno? ecco il busilli.

– Seguano o non seguano, c’è tutta la morale umana in queste due massime. Conosco degli atei che vi conformano i loro atti assai meglio di tanti credenti.

– Pur troppo, generale, pur troppo. Ma permettete, non scendiamo alle applicazioni; stiamo nel campo dei principii. Fare o non fare, secondo quelle due massime, è facile, ed anche può essere piacevole all’uomo incivilito. Ma come potete voi credere che l’uomo primitivo, l’uomo della selva, facesse ad altri quello che avrebbe voluto che si facesse a sè? —

La domanda piaceva poco al generale; e dalla breve pausa che egli fece prima di rispondere, Maurizio potè credere che l’avversario si trovasse impacciato. Ma non era così; proprio allora il generale metteva in posizione le artiglierie.

– Io non vi parlo dell’uomo primitivo; – disse egli, non potendo trattenere un’alzata di spalle. – Che c’entra qui l’uomo della selva? Buon padrone di aver fatto come gli sarà piaciuto, o tornato più comodo. L’uomo primitivo, per vostra norma e regola, era un antropopitèco. Vi maravigliate di sentirmi parlare con tanta asseveranza di quel grazioso animale? Nel fatto, io non ne so nulla; vi parlo con la scienza alla mano. Ho letto Darwin, mio caro; ho letto Huxley, Buchner, Mortillet, Spencer, tutta la scuola dei liberatori. L’antropopitèco non si è ancora trovato negli strati del terreno terziario; ma si troverà, non dubitate. E una necessità in terra, come certi corpi in cielo, per l’equilibrio del sistema planetario. Nella scala progressiva degli esseri, l’antropopitèco ha il suo posto: animale d’istinti maravigliosi, già dotato di qualche intelligenza, come sono del resto tanti animali meno progrediti di lui, egli ha fatta la sua strada, e nessun calendario gli ha misurato il tempo necessario alla sua legittima evoluzione. Il bisogno lo ha fatto industrioso; l’industria lo ha fatto civile; la civiltà lo ha fatto morale. Vi capacita?

– Eh! – disse Maurizio, stringendosi nelle spalle, mentre in cuor suo si maravigliava forte di trovare sotto la spoglia di quell’uomo d’armi un lettore dei moderni evoluzionisti; – vuol esser dunque morale indipendente, la nostra?

– Non mi spaventano i nomi; – replicò il generale.

– Ebbene, – ripetè Maurizio, – non vi spaventino dunque le mie povere argomentazioni.

– No davvero, sentiamole. —

Qui fu una piccola interruzione nel dialogo. Dall’alto della gradinata, appariva la contessa Gisella, col suo cappellino di paglia in capo, l’ombrello da sole in mano e una borsa ad armacollo, che le dava un’aria graziosissima di pellegrina. La bella signora dagli occhi fosforescenti vide Maurizio, e scese lesta i gradini per venirlo a salutare.

– Vado per affari, – diss’ella, porgendogli la mano. – Spero di ritrovarvi ancora al ritorno.

– Oh, lo troverai; – gridò il generale. – Siamo affondati in una disputa che non finirà tanto presto.

– Di che si tratta? – chiese ella, nell’atto di aprire il suo ombrellino.

– Dell’antropopitèco; – rispose Maurizio, che in verità lo masticava male. – M’immagino che vi sarà noto, questo grazioso tipo di progenitore.

– Ah sì, – diss’ella, sorridendo, – l’unica cosa brutta nella teorica di mio marito.

 

– Ma necessaria; – soggiunse il generale; – necessaria come un anello nella catena. Se tu mi levi quell’anello, dov’è la continuità dell’evoluzione? dov’è la dottrina? —

Maurizio non aveva da rispondere ad una argomentazione che non pareva fatta per lui. Nondimeno, ne prese appiglio per rivolgere una frase alla contessa Gisella.

– Fortunatamente, – diss’egli, – nessuna dottrina mi farà credere che la contessa derivi da un antropopitèco. Passi per noi ominacci!

– Ed ecco, ora puoi andare, bambina; – ripigliò il generale, mezzo burbero e mezzo faceto. – Il vicino è cavaliere, e il tuo complimento l’hai avuto. Accettalo come premio anticipato all’opera buona che fai.

– Vado, vado; – rispose la bella signora, avviandosi. – E voi, conte, lasciatevi persuadere. La teorica della evoluzione richiede quell’anello. Ammasso quello, tutto il resto va da sè. —

Ciò detto, si mosse leggera, lasciando la luce del suo sguardo celestiale e la fragranza della sua maravigliosa persona nell’aria. Un istante dopo, era sparita alla svolta del sentiero campestre, per cui soleva venire ogni giorno il signor di Vaussana.

– Vedete quella donna, Maurizio; – disse il generale, continuando ad alta voce un discorso che era venuto facendo tra sè. – Ella è tutta bontà, tutta previdenza per la povera gente. Non c’è tugurio per queste montagne, dov’ella non porti una buona parola, e qualcosa di più, se bisogna. Ha sentito quest’oggi dal prete che è ammalata la moglie del pastore, lassù al Martinetto; e sùbito ha deciso di mettersi in campagna. Il prete non è andato; non andrà che chiamato, per portare tant’olio quanto ne sta sul polpastrello dell’indice, o del medio. Lei porta dell’altro; se le riesce, farà risparmiare al prete la sua trottata, alla chiesa la sua ditata d’olio. E notate, non crede alla morale dei vostri uomini neri. —

Quel «vostri» non era un po’ troppo? Maurizio si sentì toccato sul vivo.

– Che importa? – diss’egli, contenendosi ancora. – Crede alla santità del dovere, alla divinità della compassione, alla immortalità dell’anima umana.

– No, sapete, crede semplicemente alla bontà della vita; obbedisce ad una legge di natura, intendendola un po’ meglio di tanti e tanti. E notate ch’io non ho avuto da istruirla. Era così, quando divenne mia moglie. È una testa forte.

– Permettete ad una testa debole d’inchinarsi; – replicò Maurizio, facendo l’atto per l’appunto.

Ma il generale era avviato, e non voleva fermarsi così presto.

– Ecco, – diss’egli, – ora v’inalberate.

– No, generale.

– Allora, perchè vi tirate da banda, come se voleste uscire dal giuoco? Mi avevate pure promesso una argomentazione serrata!

– Vero, ma siamo stati fortunatamente interrotti; ed ora che ho perso il filo… Nondimeno, per non parervi battuto e contento, vi dirò brevemente ciò che penso. Voi considerate la morale come l’effetto di una convenzione. Ora la morale per convenzione, dato che possano giungere a stabilirne una dei figli o nipoti di antropopitèchi, sarebbe una morale senza ragione in sè stessa. Vedetene la conseguenza. Se io so che la legge morale non ha nessuna sanzione, che non c’è nessun premio a chi segue, nessun castigo a chi viola la legge, non me ne farò più nè di qua nè di là, baderò al mio interesse, e buona notte al prossimaccio mio.

– Signor Maurizio, i miei complimenti. Fate voi dunque il bene per un premio che ne sperate? vi astenete dal male per un castigo che ne temete?

– No, generale, per dovere; per un dovere che la mia coscienza intuisce. Del resto, ecco già un certo numero di volte che voi mi venite dicendo: il bene. Il vocabolo induce la cosa; la cosa induce l’idea. Perchè si dice il bene? che cosa s’intende di dire, dicendo: il bene? chi mi assicura, se non c’è sanzione alla legge del bene e del male, chi mi assicura che il bene non è il male, e il male non è il bene?

– Il bene è un concetto ereditario; – sentenziò il generale. – Si è visto e riconosciuto a poco a poco l’utile generale, e questo è stato chiamato il bene.

– Sia pure; ma quanto più leggero, sulla bilancia del nostro raziocinio, quanto più debole dell’utile particolare! Infatti, il bene degli altri, ne sia pure ereditario quanto si vuole il concetto, non è in molti casi il mio bene, è spesso il mio danno, il mio pericolo, il mio sacrifizio: e di questo sacrifizio, di questo pericolo, di questo danno io non vorrò a nessun patto saperne. —

Il generale stette un istante sopra pensiero.

– Sentite, – diss’egli poscia, – io non la intendo così: senza badare a questi danni, a questi pericoli, io ho sempre fatto il mio dovere.

– Lo credo, e lo so, – si affrettò a rispondere Maurizio. – Ma questo, con vostra buona pace, non lo avrete fatto per omaggio alla morale indipendente.

– E per che cosa, secondo voi?

– Per avanzo di vecchie idee, generale. Qui davvero il principio di eredità vi soccorre. Avete infatti la eredità di un complesso di conseguenze legittime che l’umanità ha tratte via via da parecchie religioni e da parecchi sistemi filosofici, di cui è vissuta, con cui e per cui è progredita. Ecco perchè uno spirito forte dei nostri giorni può andare avanti, più avanti di molti altri nel sentiero della filantropia, del disinteresse, del sacrificio di sè, immaginando di aver spogliata per sempre la morale della sua antica sanzione. Ma non si andrà molto lontano, io ve ne avverto, non si andrà molto lontano, con questo piccolo viatico. Anche le eredità più vistose si consumano. E la morale indipendente andrà fin che potrà senza Dio; poi, di attrito in attrito, vi sfumerà tra le mani. Temete, mio generale, temete che quando ne avranno assai meno le classi civili, non ne abbiano più affatto le rozze.

– Già, l’argomento politico! Ma non è filosofico.

– Lo so; m’è venuto alla mente, e l’ho aggiunto alla mia dimostrazione. Dopo tutto, la vostra doppia massima del non fare e del fare, è frutto della morale all’antica, non già della morale indipendente che oggi si predica. Tutte le religioni l’hanno per canone indiscusso.

– È di tutte, e perciò non appartiene in proprio a nessuna; – osservò il generale.

– Che importa? Le religioni son sante.

– Tutte? Da parte vostra è una dichiarazione ben grave, signor Maurizio. Per caso, le ammettereste voi tutte per buone?

– Storicamente, perchè no? Nella vicenda delle cose umane sono i varii modi di cercar Dio; e come io credo fermamente che il progresso umano sia a questa condizione di cercar Dio nella vita, così credo che Dio si sia in tutte riconosciuto. —

Il generale diede in uno scoppio così fragoroso di risa da far rizzare la testa al capitano Dutolet, che involontariamente cominciava ad appisolarsi sul canapeino di ferro.

– Che larghezza di comprensione! Lasciatevi ammirare, caro mio. Vi avverto per altro che l’arciprete di San Giorgio non vi assolverebbe.

– Lui no, forse; ma un altro, di qui a cent’anni, sicuramente.

– Possiate voi campar tanto! E credete poi che quell’arciprete del ventesimo secolo riconoscerà l’elemento del divino anche nella religione di Moloch?

– No, egli troverà che quella non era una religione, ma un pervertimento di religione. Le religioni, tra i popoli rozzi, girano facilmente alla superstizione, e la superstizione alla ferocia o alla stupidità sua compagna. Ma questi pervertimenti uccidono una religione nel tempo, come l’edera sgretola il muro a cui si abbarbica; Dio si allontana, e passa in un’altra.

– Chi può saper quando, e come? – esclamò il generale. – Io dico invece: fare il bene, qualunque cosa ne avvenga.

– È da stoici; – rispose Maurizio. – Ma presuppone almeno l’imperativo morale. Perchè faccio io il bene? Per appagare la mia coscienza. Perchè la mia coscienza sceglie la sua felicità nel bene? Per averne un piacere. Ma è un piacere ideale, se il più delle volte porta danno, sofferenza, pericolo, sacrificio e morte. È dunque un ideale. L’ideale suppone l’idea, l’idea suppone un mondo intellettuale che non è quello della cieca natura. Cercate, generale, indagate, troverete Dio necessario.

– Dove? non si è mai visto, ch’io sappia. Nel roveto, forse?

– Nella coscienza, generale. Se ci trovate la contentezza, perchè non ci trovereste la sanzione dell’opera buona?

– Ci penserò; ve lo saprò dire domani. —

Evidentemente, il generale era stanco; e nessuno vorrà dargli torto. Quanto al capitano Dutolet, egli si era addormentato del tutto. Diamo ragione anche a lui.

Capitolo V.
Si viene alle grosse

Maurizio era rimasto un po’ male. Quella improvvisa stanchezza del suo interlocutore poteva significare due cose: o che egli, Maurizio, avesse ecceduto nella difesa delle proprie opinioni, o che il suo avversario, usato al comando in ogni cosa, fosse noiato di sentirsi contraddire.

Che stranezza, del resto, e come Maurizio si era lasciato ingannare dalle apparenze! Egli non avrebbe immaginato mai che quel vecchio soldato fosse un filosofo, che quel moderno gentiluomo campagnuolo avesse voluto ingombrarsi il cervello, asserragliare il suo grosso ateismo con tanto bagaglio di dottrina. Dall’alto di quella barricata il castellano della Balma aveva scaraventato sulla testa di Maurizio i suoi duri sarcasmi, le sue pungenti ironie. Son pure prepotenti questi spiriti forti, come amano gabellarsi da sè! Quando si degnano di disputare con voi, hanno sempre l’aria di compatirvi. – Ma come? anche voi, con queste idee di cent’anni fa? Ma questo è risaputo; ma questo è fritto e rifritto; ma questo è già stato ribattuto, polverizzato, annientato. Il mondo cammina, che diamine! In che grotta a mezza strada vi siete fermato a dormire? lasciatele al volgo, queste anticaglie; lasciatele alle donnicciuole, per bacco! —

Il volgo, si sa, è tutta quella gente che non importa istruire, che è bene lasciare nell’ignoranza, per utile suo, e nostro, per non accrescere il numero degli spostati, come oggi si dice, o degli spostatori, come forse si pensa. Le donnicciuole, poi, sono le loro madri, e le loro mogli; se occorre, saranno anche le loro figliuole e le loro nipoti. Gli spiriti forti non si abbassano; deridono o sorridono, secondo i casi e gli umori; ma passano sopra, gloriosi della loro dottrina, o di quella del sapiente di rimpetto; il quale sarà vissuto magari nel sereno disprezzo di ogni ubbìa metafisica, di ogni «concrezione ereditaria», ma poi sarà morto ascritto, per via di transazione, a qualche chiesa protestante, oppure, senza mezzi termini, col prete al capezzale e con al collo la medaglia benedetta dal papa. «Rammolliti», si capisce; tutti rammolliti, gli spiriti forti che non durano tali fino all’ultimo. Perciò vien di moda il premunirsi contro queste defezioni dell’ultim’ora, dichiarandole anticipatamente debolezze della nostra povera fibra.

E questo è poco male, finalmente; anzi non lo sarebbe affatto, a considerare le cose con ispirito di libertà. Ma il guaio è che questa divisione di spiriti forti e di spiriti deboli ha ridotto il nostro mondo civile ad una ben malinconica convivenza di due società, tra le quali è stretta unione d’interessi, di affetti, di consuetudini, e un gran vuoto per tutto il resto, che è poi la vita intellettuale, la vita morale delle anime. Donde avviene che questo povero mondo civile vada così barcollando alla sua meta misteriosa, come gli ubbriachi a casa loro, non indovinando più l’uscio, e tante volte neanche la strada.

Tra il signor Maurizio e il castellano della Balma si era fatta la pausa un po’ lunga. Il terzo, che sonnecchiava così bene sul piccolo canapè di ferro, ne era stato svegliato in soprassalto, come avviene in istrada ferrata al fermarsi improvviso del treno. Il capitano Dutolet aveva aperto un occhio, poi l’altro, ed era rimasto lì trasognato a guardare, mezzo intirizzito, mentre Maurizio si tormentava i baffi, e il generale, per occupare in qualche modo il silenzioso intermezzo, cercava di accendersi un sigaro.

Il signor di Vaussana se ne sarebbe andato assai volentieri, levando anche d’impiccio il suo avversario. Ma un pensiero lo tratteneva. La contessa Gisella gli aveva detto di aspettarla. E forse aspettarla era male. Ritornando, la signora avrebbe trovato il marito di cattivo umore, tanto nervoso da non lasciar passare il menomo complimento, da veder tenerumi, smancerie, svenevolezze in ogni discorso. I mariti in collera son tutti così, bestie feroci; e guai ad essere graziosi, cortesi, galanti, quando essi hanno le sopracciglia aggrondate.

Andarsene, dunque, scegliendo tra i due mali il minore? Sì, ma per qual via? Anche nella scelta della via c’era il pericolo, per un verso o per l’altro, di urtare i nervi al signor generale. Se andava per il gran viale, non poteva il castellano domandare che novità fosse quella? Le novità dànno sempre materia a pensare. Se andava per la strada del bosco, non si poteva credere che l’avesse scelta per combinar laggiù la contessa Gisella, che appunto di là era andata e di là sarebbe tornata?

 

Noiosa condizione di un uomo messo lì a dibattersi tra la stizza e le convenienze sociali! Ed ecco i bei resultati delle discussioni. Ma egli, in fin dei conti, se era stato vivace nella espressione del suo pensiero, non aveva neanche trasmodato, e a quella vivacità era stato spinto dal tono sarcastico del signor generale. Dal fondo dell’anima non gli traluceva forse il pensiero di canzonare Maurizio per la sua fede? Ora uno spiritualista, un credente, deve esser tanto più sincero, in quanto che troppa gente, che crede, par quasi che si vergogni di confessarlo davanti agli spiriti forti. Egli non aveva da parlare come un teologo, non avendo studiato teologia; ma da filosofo non materialista, nè scettico, doveva egli, per ottener grazia dal suo contradditore sarcastico, dare addosso a quelle credenze in cui sono stati educati i nostri padri, e in cui saranno ancora educati i nostri figliuoli?

Più ci pensava, e più si persuadeva di non aver niente a rimproverarsi. Quanto al generale, facesse il broncio fin che voleva. A un certo punto, se il silenzio fosse durato dell’altro, Maurizio avrebbe guardato l’orologio, fatto un gesto di terrore e parlato del solito appuntamento che cava gli uomini da una posizione difficile. Ma grazie al cielo non fu mestieri di bugie; la contessa Gisella appariva dal sentiero del bosco. Era un pochino affannata dalla corsa, e accesa in volto più dell’usato; ma il color delle rose le tornava bene come quello dei gigli. Venne innanzi leggera, saltellante come una bambina, sorridente come l’aurora. Non era un complimento, non una esagerazione il dire che con lei ritornava la luce. Che bella cosa una bella donna! C’è chi la preferisce al telegrafo e alle strade ferrate. Io all’invenzione della stampa. E voi?

Il generale parve gradir molto l’arrivo di sua moglie. La contessa giungeva opportuna a rompere quella scena muta.

– Già finita la discussione? – domandò ella, avvicinandosi al crocchio, che per verità non appariva troppo animato.

– Sì, – rispose Maurizio, inchinandosi.

– E siete battuto?

– Non so; forse… e senza esserne persuaso. Tutti i vinti sono così; – soggiunse egli, sorridendo; – non vogliono mai convenire della loro disfatta.

– Ti avverto, mia cara, – entrò a dire il generale, con la sua grossa voce ancora gonfia di stizza, – che il signor di Vaussana ha finora il vantaggio. Questo sia detto per la verità. —

Non era molto; ma era già qualche cosa. Maurizio colse il buon punto per esser cortese a sua volta.

– In omaggio alla verità, – riprese egli, – diciamo che voi mi avete promesso di pensare a certi argomenti miei. Potete vincermi ancora; le sorti della battaglia sono dunque indecise. E la vostra ammalata, contessa?

– Ah, la povera Biancolina? Febbre, signor Maurizio, gran febbre, e complicata di miseria. Le disgrazie piovono addosso ai Feraudi con un accanimento strano. Son già debitori di un semestre al Pinaia, il potentissimo fornaio e pastaio di San Giorgio, un proprietario con cui non si scherza, a quanto pare; e una mucca è morta improvvisamente nella settimana scorsa, e l’altra ha il latte cattivo. Il marito è filosofo, e pensa, guardando in aria; la moglie, rovinata dallo stento, ha dovuto mettersi a letto. Sapete voi, quando una povera donna dei campi si mette a letto, che cosa vuol dire? che la casa resta senza governo, i piccini senza zuppa, le bestie senza strame, e tutto il resto in conseguenza. Vedete che compassione! Ho aiutato come ho potuto; ma finora, più che altro, con le buone parole. Intanto ci vorrà il medico, e manderò subito a cercarlo.

– Permettete che lo cerchi io, discendendo in paese; – disse Maurizio, con accento premuroso. – Tra mezz’ora egli potrà essere lassù al Martinetto.

– Grazie, accetto l’offerta; – rispose la contessa. – Io penserò invece a mandar brodo e qualcos’altro a quella poveretta. —

Maurizio non la conosceva neanche di vista, l’ammalata del Martinetto. Il Feraudi, marito filosofo, lo aveva appena veduto qualche volta pascolar le sue bestie sui greppi, tra il Martinetto e la Balma. Pure, si mostrò addolorato per le disgrazie di quella povera gente: ed anche ne fu consolato, pensando che la sua conversazione andava lontana le mille miglia da ogni pericolo di galanteria. Il generale, del resto, a poco a poco aveva spianate le rughe, e si degnava di mettere qualche parola nel dialogo. Maurizio gli rivolse il discorso, temperatamente, placidamente, come se nulla fosse avvenuto.

Frattanto doveva prendere commiato, avendo fretta di andare pel medico.

– Bravo, correte; – gli disse Gisella con quella stessa amabile sollecitudine che avrebbe usata in altre occasioni per trattenerlo ancora un poco alla Balma. – Immagino che il dottore conosca la strada.

– Se non la conoscerà gliela insegnerò io, che ho i miei monti… sulla punta delle dita. —

Gisella gli porse la mano. La stretta era sempre stata amichevole, come dev’essere lo shake hand, dal giorno che l’Inghilterra lo ha diffuso per tutto il mondo civile. Ma quella volta fu confidente, fraterna, come di due persone che hanno conchiuso un patto. Non erano essi associati oramai da un’opera di carità?

– Se avete notizie, ce le porterete domani, non è vero? – disse Gisella.

Anche il generale brontolò un arrivederci. Il capitano Dutolet, detto il buon ragno, ed anche, aiutando il suo nome di battesimo, Guglielmo il taciturno, abbozzò un sorriso ed una parola di due sillabe almeno. Maurizio si avviò spedito, e scese quella volta dal gran viale. Per quella novità ci era una ragione evidente: il medico abitava per l’appunto in principio del paese, cioè verso le falde del poggio su cui sorgeva il castello della Balma.

Il medico fu presto ritrovato, e con le più calde esortazioni spedito, subito al Martinetto, di cui fortunatamente conosceva il sentiero. Maurizio lo accompagnò per un tratto, facendo raccomandazioni. Quando il discepolo d’Esculapio fu di ritorno, lo trovò ancora sulla sua strada, desideroso di notizie. Aveva trovata la febbre, difatti, e piuttosto forte, più vicina ai quaranta gradi che ai trentanove. Ma egli si era trovato in caso di dare il rimedio, senza il bisogno di scendere alla farmacia per la ricetta: preveduto il bisogno, la contessa aveva lasciata lassù una parte della sua cassettina di medicinali, ed egli aveva potuto somministrar subito una dose della inevitabile antipirina. Più tardi avrebbe somministrato il chinino, se quella febbre si fosse mostrata ribelle. Ma che febbre era? Reumatica, diceva il dottore, e colpiva un organismo intaccato dalla grama vita; occorreva riposo, per intanto, ed una miglior nutrizione: due cose che al solito non sono alla mano dei poveri.

Più tranquillo da quel lato, Maurizio ripigliò la via del paese. Sulla piazza gli venne veduto il Pinaia, che stava seduto a prendere il fresco sull’uscio della sua bottega. Mentre il fornaio si alzava a mezzo, per fargli di berretto, un’idea passò veloce per la testa a Maurizio. Sì, certo, bisognava associarsi alle buone opere della contessa Gisella. Chiamò il fornaio e lo condusse in disparte, entrandogli subito del caso di quella povera gente. Ah, sì, povera gente! rispondeva il Pinaia, che da quell’orecchio era un po’ duro. Gli erano debitori d’un semestre, e maturato da un pezzo; ancora un po’ che aspettasse, gli sarebbero stati debitori di tutta l’annata, cinquecento lire, a non contare l’interesse della moneta. E non c’era verso di spillar loro un centesimo. Ma quella povera mucca morta! ribatteva Maurizio; l’altra col latte guasto, che non si poteva farne nulla; e la moglie ammalata! Tutte scuse, tutti pretesti. La mucca era morta da cinque giorni, se mai, e il semestre lo dovevano da due mesi. L’altra mucca aveva il latte guasto, ma si aspettava un vitello. Quanto alla moglie ammalata, vecchia storia! Già altre volte s’era ammalata, la bella Biancolina; e sempre alla scadenza del semestre, per impietosire il padrone. Ma lui non ci cascava più, no davvero. Una morte, aver terra al sole; d’allora in poi, quando avesse quattro soldi di costa, voleva metterli in rendita dello Stato; e calasse poi quanto voleva; ci avrebbe sempre risparmiato di più, che a farsi mangiar vivo dai contadini. Brutta razza, i contadini; astuti, furfanti di tre cotte, sempre lì a piangere miseria, coi gruzzoli di marenghi nel saccone.