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Tra cielo e terra: Romanzo

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– È ben fresca, questa bambola! – disse Maurizio, per dar sulla voce a Biancolina, che voleva ringraziare. – Pare comperata ieri.

– Infatti, l’ha portata ieri a Rosina la buona fata della Balma, insieme con le pallottoline per Vittorio. Voi la vedrete fra poco, la buona fata, l’angelo di questa casa. —

Maurizio guardò l’orologio. Erano appena le otto, ed egli respirò. Tra due ore sarebbe venuta la buona fata, ed egli non sarebbe stato più di mezz’ora lassù.

Intanto la donna proseguiva:

– Per oggi mi ha promesso di venir prima del solito. Non istarà più molto a comparire laggiù, tra quelle due piante di rovere. —

Maurizio fremette. Si era affrettato troppo a respirare. Stette ancora due o tre minuti, ma proprio sulle spine. Ed era per alzarsi, col pretesto di aver molto da fare; quando i bambini, che poc’anzi erano tornati sull’aia a guardar la belle monete d’argento al sole, accorsero gridando:

– La signora! la signora! —

Un ombrellino rosso apparve laggiù, fra mezzo ai due roveri. Non c’era più tempo a pretesti; era impossibile la fuga.

Capitolo VII.
L’idillio del Martinetto

Profondamente turbato, Maurizio rimase là, con gli occhi fissi in quel punto luminoso che gli appariva nel vano dell’uscio, e con un sorriso impresso, suggellato sulle labbra.

Un grido di gioia infantile, scoppiato a mezzo dell’aia, lo salutò. Gisella aveva riconosciuto Maurizio. Affrettando il passo, la grande bambina ebbe l’aria di accingersi a spiccare un volo verso di lui, come se volesse gettarsi nelle braccia d’un fratello non più veduto da lungo tempo.

– Ah, lo dicevo ben io, che m’aspettava una novità al Martinetto; – gridò ella, stendendo la mano a Maurizio e fissando in lui i suoi belli occhi incantati. – Poc’anzi, di là dal Fontan, ho incontrato un bel serpente, che se ne stava arrotolato come un braccialetto intorno alla punta di un masso e mi guardava coi suoi occhietti maliziosi. Non aveva paura di me; ed io non l’ho avuta di lui.

– Signora… – mormorò Maurizio sgomentato.

– Perchè avrei dovuto averne? – ripigliò la contessa. – Vedere un serpente è di buon augurio; significa incontro inaspettato. —

Maurizio aveva vinto quel primo sentimento di paura, e sorrideva, tentennando la testa.

– Ecco, – diss’ella, – io so bene che cosa significhi il vostro sorriso. Se fosse stato un boa, o un serpente a sonagli, non è vero? Ma qui non ci sono serpenti a sonagli, nè boa; non si tratta che di povere bisce inoffensive, e il buon augurio rimane. Del resto, non si è avverato? Ma vediamo prima di tutto questa buona Biancolina. Come va?

– Bene, signora; di bene in meglio: ho dormito tutto d’un sonno.

– E mangiato?

– No, per aspettarvi. Non mi avete detto ieri che volevate far colazione al Martinetto?

– Certamente ed ecco qua il mio tributo di provvigioni; il poco che ho potuto portare nella mia bisaccia, che non è quella dei frati cappuccini. —

Così dicendo, si toglieva d’armacollo una borsa e l’apriva sulla tavola, cavandone dei piccoli panini dorati, un cartoccio di biscottini, e un secchiolino di legno ermeticamente chiuso alla bocca.

I ragazzi si erano appiccicati agli orli della tavola, per essere ai primi posti; ed anche allungavano le mani, per carezzare, se non a dirittura per prendere.

– Vedere e non toccare, bambini; almeno per ora; – disse Gisella. – Ma che cosa vedo, signor Vittorio? che cosa vi ho raccomandato ancora ieri mattina? —

Il ragazzo si fece rosso in volto come una fragola, e scappò via lesto lesto. Due minuti dopo ritornava con la faccia umida, ma, a Dio piacendo, abbastanza pulita.

– Va bene, così; la faccia ha da esser sempre netta e tersa come uno specchio, mi capite? – riprese la signora, mescolando gli ammonimenti alle lodi. – Prendete esempio dalla vostra sorellina, che è sempre così linda.

– Ah, non tanto, signora, non tanto! – esclamò Biancolina.

– Eh, dico in paragone di suo fratello; – rispose Gisella. – Del resto, a quell’età non si può e non si deve pretender troppo. L’essenziale è di non lasciar mancare gli avvertimenti. Che cosa avete preparato, Biancolina?

– Le uova fresche, il latte, il burro, tutto quel poco che abbiamo.

– E il resto l’ho portato io, compreso il caffè fresco e lo zucchero. Ora a noi; il fuoco è già acceso, come vedo. Signor Maurizio aiutatemi. Prendete il latte; è laggiù nella madia, in quel mastello coperto; e riempitene il bricco che è là sulla cappa del cammino. Il più grande, intendiamoci; l’altro lo metterete al fuoco, dopo averlo riempito d’acqua. No, no, Biancolina, state lì, voi; – soggiunse Gisella, non permettendo che la convalescente si occupasse di nulla. – Vogliamo far tutto noi altri. —

Maurizio era entrato con molta gravità, ed anche con bastante intelligenza, nelle sue funzioni di sottocuoco. Gisella, frattanto, con la diligenza e la sveltezza delle buone massaie, apparecchiava la tavola. Sapeva, o indovinava, dove fosse ogni cosa. Presa una tovaglia, la spiegava e la stendeva sul piano, mettendovi poi su i tovagliuoli, rozzi come la tovaglia, ma bianchi e freschi di bucato com’essa. Poscia accanto ai tovagliuoli dispose piatti e bicchieri, aggiungendo i panini che aveva portati con sè.

– Ho fatto bene a largheggiare nel numero, – diss’ella, lodandosi un poco. – Presentivo ancor io che avremmo avuto una bocca di più. Ora alle posate; saran qui nel cassetto. Bene, è anche qui il pan bigio, che mi piace tanto. Lo faremo a fette, per istenderci il miele. A voi, Maurizio; un coltello, e apritemi questa secchiolina.

– Non farò schizzare il miele? – domandò Maurizio, introducendo la punta del coltello sotto l’orlo del coperchio.

– Eh via, con un po’ di grazia! Del resto, mi pare che diciate per celia. Vedo bene che faremo di voi qualche cosa. —

Appena il bricco dell’acqua calda levò il bollore, Gisella andò a versarci dentro il suo caffè in polvere. Un buon odore aromatico si diffuse per la cucina, che era sala da pranzo, anticamera e salotto ad un tempo.

– Riuscirà un caffè alla turca; – notò Gisella, ridendo. – Piace a voi, Mau… signor Maurizio?

– Certamente, è migliore; – rispose il signor Maurizio, dolcemente solleticato da quel Mau… senza signore. Gisella si era pentita, ma tardi; già due minuti prima, senza avvedersene, lo aveva chiamato Maurizio senz’altro.

Cinque o sei minuti dopo, era ogni cosa, all’ordine, perfino le uova, gittate nel paiuolo dell’acqua bollente. Quelle uova a bere furono il principio della colazione; fresche, eccellenti, sorbite con grande facilità da Maurizio e Gisella, con un po’ più di lentezza da Biancolina, non senza guai per la tovaglia da Rosina e da Vittorio, che riuscirono anche ad impiastricciarsi la faccia. Fu un’impresa non lieve per Gisella il ripulirli a dovere. I due bambini tendevano per altro di buona voglia il musino a quella graziosa mamma improvvisata, ben sapendo che non voleva veder volti insudiciati.

– Ah, la buona menagère! – esclamò Biancolina. – Peccato che non ne abbiate dei vostri.

– Che! non è forse meglio così? – rispose Gisella. – Per amare i bambini non è necessario averne dei proprii, ed ogni opinione contraria non muove che da un inavvertito sentimento di egoismo. Io li amo, perchè son creature innocenti, e non perchè mi debbano appartenere. Quando vedo una bella aurora, l’amerò forse meno, perchè non è mia? l’amerei più, se fosse mia? Idee false, mia cara Biancolina, idee false, quando crediamo che per amar bene i bambini dobbiamo averne dei nostri. False almeno – soggiunse Gisella, – per una certa classe di persone; ad esempio per me. So bene che per voi, se non ne aveste, sarebbe una pena, non potendo amare e proteggere i miei. Ma io posso, come vedete, amare i vostri, proteggerli anche, ed averne il diritto, solo che io sappia metterci un pochino di buona grazia.

– Un pochino! – esclamò Biancolina, ridendo.

– Ebbene, diciamo anche molto, – replicò Gisella, – purchè mi vogliate bene. Son felice di essere amata; solo a questo patto è buona la vita. —

Maurizio stava a sentire, attonito, sbalordito, ma non da quelle parole, a cui del resto prestava poca attenzione, contentandosi di gustarne la musica. Non poteva credere a sè stesso, non riusciva a capacitarsi com’ella fosse là, davanti a lui, come egli si trovasse a tanta festa, che non s’era aspettata, e che non intendeva per qual miracolo gli fosse venuta: In che modo aveva potuto la contessa Gisella capitare a quell’ora mattutina sulla montagna? e come poteva con tanta facilità rimanere lassù, accanto a lui? Ma non era ancor tutto; e d’altro doveva maravigliarsi tra poco.

– Signor Maurizio, – gli diss’ella ad un tratto, rivolgendosi a lui, – sono contenta di avervi trovato, perchè facevo conto di venirvi a cercare, questa mattina per l’appunto. Già, non mi fate quel viso… appena bevuto il latte e sorbite le uova del Martinetto, volevo calare al Castèu, che è così bello… tanto bello, che me ne è rimasto un gran desiderio negli occhi.

– Signora… – balbettò Maurizio, – ci potete venir sempre.

– E infatti così farò. Avevo bisogno di voi, per una faccenda che mi preme moltissimo; e si tratterà d’un discorso un po’ lungo. Ma non vi spaventate, ve ne prego; altrimenti non saprò più da dove incominciare. Sarei venuta sola, per un sentiero che non conosco. Voi siete qui, per fortuna; verrò dunque al Castèu in vostra compagnia, e avrò il vantaggio d’imparare la strada.

– Sono ai vostri ordini, – disse Maurizio.

La colazione era finita, e Gisella si alzò.

– Te ne vai, madama? – gridò Rosina, aggrappandosi alla gonna di Gisella.

– No, cara; cioè, sì, ma per ritornare fra poco. Infatti, – soggiunse ella, – non voglio attraversare il paese, su quei lastroni sconnessi. Anche quassù ci sono dei brutti passi, ma non tanti; e poi non c’è pericolo d’ingoiar polvere, come laggiù. Ritornerò dunque per di qua, e vedrò ancora la mia Biancolina, coi suoi cari ragazzi. Non partirò per altro, senza aver bevuto un sorso d’acqua fresca. Animo, signor Maurizio; prendete quella secchia; si va alla fontana: io porto il bicchiere. —

 

Maurizio si armò della secchia di rame, che era stato pronto a spiccar dall’arpione. In verità, si poteva farne qualche cosa, di quell’uomo, sebbene in quel giorno capisse poco. Ed anche si avviò difilato alla fontana, specie di fossatello scavato al piede d’un masso e mezzo coperto da un arco di fabbrica, che era facile di vedere da un lato del piazzale, dalla parte della montagna. Quell’acqua doveva essere una derivazione della grande cascata, che rumoreggiava un cinquecento passi più in là. Maurizio attinse l’acqua; Gisella mise il bicchiere nella secchia, e bevve a larghe sorsate il fresco umor cristallino, mentre egli stava immobile contemplando la candida gola tesa della sua graziosa vicina. Gisella era un fior di bellezza, di salute, di buon umore, di astuzia garbata. Come lo guatava, infatti, come lo guatava di sbieco, con la coda dell’occhio malizioso, mentre teneva alto il mento e quella bianca gola scoperta! Ma ad un certo punto le venne da ridere, e fu lì lì per ispruzzar l’acqua in aria.

– Badate! – diss’ella. – Mi farete far la figura di un mascherone da fontana.

– In che modo? – chiese Maurizio trasognato.

– Ma sì, con quella vostra faccia d’uomo che non capisce…

– Infatti, signora…

– Ebbene, se non capite ora, capirete poi. Perchè tanta fretta? Non sarò mica tanto crudele da ricusarvi i miei lumi superiori. —

Maurizio intese che il meglio era di non lambiccarsi il cervello. Perchè almanaccar tanto, e fantasticare intorno alle cose che si dovranno conoscer poi appuntino? Prese il bicchiere che Gisella gli offriva, e bevve a sua volta, ma senza aver l’aria di notare la cortesia grande e di farne le meraviglie; poi riportò tranquillamente ogni cosa in cucina. Poco stante, salutata la Biancolina e accarezzati i bambini, si avviò con Gisella verso il balzo dell’Aiga; la stessa strada per cui era venuto.

Andarono per un tratto in silenzio. Gisella, passava di là per la prima volta, e guardava la rovina del lungo fabbricato con curiosa attenzione.

– Che cos’era tutto ciò? – chiese ella a Maurizio.

– Un martinetto, signora; una grande fucina per raffinare il ferro. Qui, per l’appunto, era la ruota che metteva in movimento il maglio.

– La ruota! ma l’acqua è ancora molto lontana.

– Sì, la cascata è un trecento passi più in là. Ma l’acqua da far girare una ruota dev’essere di un volume determinato; bisogna dunque derivarne la quantità necessaria. Vedete infatti quel canale, mezzo coperto di sterpi; quello portava l’acqua. Lassù, dietro quella balza, era la presa dell’acqua. Volete che andiamo a vedere?

– Perchè no? è un luogo tanto bello! —

Risalirono la costiera, andando egli innanzi, per metterla in istrada. Non era quello il sentiero che doveva avvicinarli al Castèu: ma il signor Maurizio non pensava più affatto al Castèu. Così risalendo, giunsero davanti alla macchia dei nocciuoli.

– Che bell’angolo di mondo è mai questo! – esclamò Gisella, fermandosi in contemplazione. – Si sente anche lo strepito della cascata. Ma l’acqua non si vede.

– Se vi fidate di entrare in questa macchia, c’è là dietro un buon posto e molto sicuro per ammirar la cascata, forse nel suo punto più bello.

– Perchè non mi fiderei, col signor Maurizio per guida? – diss’ella, avanzandosi risoluta.

Maurizio abbrancò i rami che gli vennero primi alle mani, e fece largo alla signora in mezzo a quel folto, dove ambedue si ritrovarono chiusi. Ella s’inoltrava quanto permettevano via via le bracciate del suo compagno, e rideva.

– Siamo prigionieri nella selva incantata; – diceva.

– Un po’ di pazienza, signora; – rispondeva Maurizio. – Ancora una ventina di passi, e riusciremo alla luce. —

Egli intanto si lodava in cuor suo di aver fatta quella strada due ore prima. Se nella mattina non avesse ceduto al primo impulso di rivedere il torrione dei suoi ricordi infantili, certamente non avrebbe osato allora di condurre la contessa Gisella a metter piede in quella fratta. Ed ebbe a parerle di sicuro la più esperta delle guide di montagna, poichè per l’appunto una ventina di passi più in là finiva la macchia dei nocciuoli, e davanti alla contessa si schiudeva l’ingresso di una piattaforma merlata.

– Nuovo! che cos’è?

– Un belvedere, signora. Di laggiù si presenta come un torrione, di quassù come un terrazzo. —

Gisella seguì Maurizio sulla piattaforma, guardandosi intorno ammirata.

– Bello, bello, questo nido nel verde! Buon giorno, cardellini, lucherini, o che altro vi siate; – gridò ella ad uno sciame di uccelletti, che spulezzavano dalla frappa. – E questo bel sedile a cerchio? vedete che idea meravigliosa! —

Il fragore delle acque cadenti era un po’ forte, per verità; pareva che dovesse spegnere le parole in bocca. Gisella si affacciò alla merlata per vedere l’abisso; ma subito si trasse indietro. Lo spettacolo era stupendo, ma dava anche il capogiro.

– Sediamo; – diss’ella; – tanto, abbiamo da discorrere.

– Sediamo; – rispose Maurizio; – sarà meglio qui che al Castèu. Ma proprio sareste venuta questa mattina laggiù?

– Certamente. Avevo da chiedervi un favore.

– Potevate scrivermi.

– E voi rispondermi una bella lettera, compassata, cortese, ma fredda, non è vero? Ci avrei fatto un bel guadagno! No, niente lettera, andiamo noi. Non c’era che un pericolo: che foste partito nella mattina.

– Oh, non ho più occasione di muovermi, – disse Maurizio, – dopo il viaggio che ho fatto… il giorno che avevo annunziato.

– Il gran viaggio di tre giorni! – esclamò ella, sorridendo maliziosamente. – E ne siete ritornato di nottetempo, come un malfattore, per chiudervi in casa, per nascondervi ad ogni vivente. Ma non così bene, che io non lo sapessi. Uscivate soltanto per prendere il sentiero dei monti; anche questo sapevo. Che vi pare? che io non ci abbia una buona polizia? Molte cose ho saputo, signor Maurizio; e per una tra tante posso e voglio dirvi: siatemi amico; qua la mano, che io vi esprima in una stretta buona e fraterna tutta la mia gratitudine.

– Gratitudine! di che?

– Di aver pagato ad un padrone esoso il semestre di quella povera gente laggiù.

– Io?.. – balbettò Maurizio, confuso.

– Sì, ditemi ancora che non è vero.

– E non lo negherò. Ma come lo sapete voi?

– Ah! – gridò ella, battendo allegramente le palme. – Non lo sapevo, quantunque mi paresse di averlo indovinato; non lo sapevo ancora, e adesso lo so. Già, non potevate essere che voi; ed io quasi mi vergogno di essere stata in dubbio un momento. Figuratevi, l’altro giorno ero andata in paese… sperando anche un pochettino d’incontrarvi; ma siamo giusti, non ero scesa per voi; volevo vedere il signor Pinaia, indegnissimo proprietario del Martinetto, e probabilmente di questo bel nido nel verde; volevo vederlo, dico, per ottener da lui che aspettasse ancora qualche settimana a rientrare nel suo avere. Il povero Feraudi, gli soggiungevo, avrebbe venduta la sua ultima mucca, per soddisfarlo. Non occorre, mi rispose il Pinaia, sono stato pagato; serbi la mucca per un altro semestre, se non riuscirà neanche allora ad avere la somma necessaria. Ora, vedete, signor Maurizio, quella povera gente s’immagina che sia stata io, la benefattrice, ed io non posso lasciarle credere quel che non è; vi chiedo dunque il permesso di dire chi è stato.

– No, non ve lo posso concedere.

– E se me lo prendessi… per caso, non mi guardereste più in viso?

– No, vi scongiuro, non dite nulla. Più tardi, se mai; ci sarà sempre tempo. I ringraziamenti mi opprimono. Notate che quel giorno ero andato ancor io dal Pinaia coll’idea di ottenere una proroga. Il Pinaia mi rispose male, ed io allora, stizzito, pagai; ma invitandolo a non dire il mio nome.

– E non lo ha detto, signor Maurizio. «Sono stato pagato»; furono queste le sue precise parole, e non volle aggiungere di più. Dunque, signor Maurizio, voi siete stato tanto buono; e non mi dite che i ringraziamenti vi opprimono, perchè voglio esservi grata io, che avrei pagato tanto volentieri il signor Pinaia. Ma io non avevo quella somma; avrei dovuto domandarla, essendo en puissance de mari, e non potendo disporre di nulla, neanche del mio, senza farne richiesta, senza darne notizia. So bene che avrei ottenuto; ma per tante ragioni non mi piaceva di chiedere. Quante cose che una donna non può fare! E come sarei insorta, come mi sarei ribellata, quel giorno che voi siete partito da casa nostra! Perchè avevate ragione, Maurizio, e niente giustificava quella mala risposta.

– Non parliamo di ciò, ve ne prego; – diss’egli. – Io ho inghiottita l’offesa: se ho dovuto in qualche modo provvedere alla mia dignità, credete che ciò non fu senza mia pena, e grandissima. Io piuttosto credevo che quella sfuriata a proposito di opinioni filosofiche dissimulasse un altro sentimento, la noia di vedermi in casa sua.

– Qui v’ingannate, non c’è nulla di questo. Lo avete contradetto nelle sue opinioni scientifiche, e ciò lo ha fatto andar fuori. È il suo tallone d’Achille. Egli si chiama Ettore, per verità; ma non ha meno, per questo, il suo punto vulnerabile. Guai a toccarlo sulla filosofia positiva. Ora, di aver passato il segno è convinto anche lui. Il primo giorno stette grosso con tutti; il secondo parlò a monosillabi; il terzo, non so più a qual proposito, uscì in questa confessione: «Ho il vizio di lasciarmi portare dall’impeto della passione, e il sentir troppo non è scusa valevole: un giorno o l’altro mi schiaffeggerò». —

Maurizio non ebbe neanche la forza di sorridere alla frase che esprimeva in forma così comica un pentimento. L’immagine di quell’uomo gli tornava incresciosa; e da parecchie ore l’aveva costantemente negli occhi.

– Come avete potuto, – diss’egli, – uscir così presto di casa?

– Ah, se ci fosse lui, mi sarebbe stato impossibile; – rispose candidamente Gisella. – Non già perchè egli m’impedisca di andar fuori; ma perchè si fa colazione insieme alle dieci. Egli è partito ieri, e rimarrà fuori una settimana. La passione per l’esercito è ancora forte in lui; ha voluto assistere a certe prove d’artiglieria che si fanno a Vincennes; frattanto ha accompagnato il suo amico Dutolet, che finiva la sua licenza di quaranta giorni. Ecco perchè ho detto ieri a Biancolina che molto probabilmente sarei venuta a far colazione da lei. Ho la mia settimana di libertà; voglio andare attorno, per monti e per valli. E verrò anche al Castèu.

– Il Castèu sarà felice di accogliervi. Ma badate; egli saprà della visita, e non gradirà che da parte vostra si sia fatto un passo simile.

– Perchè? Non siamo sempre in relazione con vostra sorella? E l’aver annunziato voi di dover partire da San Giorgio, per quanto se ne potessero indovinar le ragioni, non sarebbe bastante a farci trascurare un obbligo di cortesia. Diciamo piuttosto – soggiunse Gisella, con la sua graziosa malizietta, – che la montagna è assai bella, che qui si sta bene, e ci si chiacchiera meglio. Avrò dunque il piacere di vedervi in alto. E poi, e poi, spero bene che appianeremo tutto, non è vero?

– Ah! impossibile; – proruppe Maurizio. – Impossibile che ci rivediamo alla Balma… E forse, anche qui…

– Che cosa dite, signor Maurizio? perchè?

– Perchè… Me lo chiedete, signora? Voi mi avete parlato testè di un’amicizia fraterna; ed io… io non vi posso esser fratello.

– Lo so bene; ma allora, non ci si ha più da vedere come amici? Voi non ragionate, signor Maurizio. E come? mi fate conoscere la vostra bontà di cavaliere, la vostra cortesia, la vostra gentilezza squisita; mi conducete qua, dove io sto così bene a discorrere con voi, dimenticando ogni cosa, e poi mi mandate via?

– Ma io non posso dimenticare… debbo dirvelo? è in fine un debito di lealtà: non posso dimenticare… che vi amo. —

Maurizio pensava che a quelle parole la terra gli si dovesse sprofondare sotto i piedi. Era una grande audacia, la sua: ma era meglio parlar chiaro, e dire a quella donna a quale aspra battaglia si sarebbe esposto il suo cuore, accettando il partito da lei candidamente profferto.

Gisella non si adontò, non rise: calma, se non tranquilla, perchè ella pure doveva fargli una confessione solenne, rispose:

– Ebbene, anch’io, signor Maurizio, vi amo. Zitto, non mi dite più nulla. Non guastiamo il valore delle nostre parole; viviamo profondamente il silenzio di quest’ora. Qua, la vostra mano nella mia! Ma come arde la vostra, mio povero amico! —