Tasuta

Tra cielo e terra: Romanzo

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

Capitolo VIII.
Celeste oblìo

Ci sono parole nei vocabolarî; costrutti e locuzioni nelle grammatiche; ci stanno a guisa di forme morte o dormenti, che si ravvivano o si ridestano al suono della voce da cui son richiamate. Ma il risuonar loro è nulla, o ben piccola cosa. Ognuno può leggere, ognuno può dire, poichè la favella è proprio carattere dell’uomo; ma il sentire, il far sentire ciò che la voce esprime, tutto ciò che una parola, una frase può contenere di pensiero, è dono di pochi, fortuna di rari momenti solenni. Con le stesse parole si può riuscir vuoti, molesti a chi ascolta, a chi legge; ed anche scrivere un canto di Dante, o una scena dello Shakspeare. Il momento solenne che suscita le forme dormenti, la collocazione che le atteggia, l’impeto che le muove, l’accento che le anima, il gesto che le sostiene, ecco la vita; per cui ciò che era piano risalta, ciò ch’era umile diventa sublime, ciò che si sarebbe a mala pena ascoltato inebria, commuove, rapisce.

Maurizio non s’aspettava quella risposta di Gisella, non l’aveva immaginata possibile, non aveva parlato per provocarla; aveva parlato dell’amor suo per onesta sincerità, per risoluto disegno, per ragionevole speranza, fosse pur doloroso parlare, fosse pur dannoso scoprirsi, amaro dover rinunziare alla vista di quella divina creatura. Voleva fuggire, non rimanere, il poveretto; perciò aveva parlato in quel modo. Ma gli era avvenuto di sceglier male il momento, e forse peggio la frase. Del resto, a che sofisticar sulla frase? Tutto ciò che noi diciamo ha il colore dell’ora, triste o lieta, benedetta o maledetta, in cui l’animo nostro ha trovato modo di esprimersi. Quando non è più tempo, le frasi che dovrebbero ritrarci indietro son quelle che ci travolgono; le parole che vorrebbero salvare son quelle che pèrdono.

Intendiamo lo stato di Maurizio. Quella mano che lo aveva già fatto tremare una volta, stringendo la sua un po’ più dell’usato, quella mano lo fece fremere, riardere per tutte le vene. Ed anche Gisella, innocente creatura, non sapeva in quel punto che cosa si dicesse o facesse, nè dove potesse condurla quel moto di sincerità. Dote o sventura dell’amor vero è il non veder nulla davanti a sè, nè d’intorno, quando il cuore ha parlato, cedendo alla sublime follìa che lo invade. Ma infine, per questa follìa siamo nati, e chi se ne parte dalla vita senza averla provata, può dire di non esser vissuto. È ben vero, per contro, che porta le sue tristi conseguenze il provare: qualche volta chi l’ha provata ne muore; qualche volta sopravvive, ma come un sognatore, come un sonnambulo, come un’ombra di sè stesso: il morto che cammina, secondo il detto comune.

Ne avrete veduti anche voi, di questi uomini strani, che vi stanno là come incantati. Parlate, ed hanno l’aria di ascoltarvi; li invitate a guardare questa o quell’altra cosa che vi abbia colpito, o che attragga l’attenzione universale, ed anch’essi guarderanno dove voi dite. Ma interrogateli, e vedrete: vi parranno tornati allora allora dall’altro mondo. Costoro pensavano ad un loro momento vitale, quello a cui mirano e per cui respirano tuttavia; lo richiamavano, il bell’attimo fuggito; felici un istante nella memoria, lo rivivevano ancora. In quelle maravigliose ricostruzioni del desiderio si sente la vanità di tante cose miserabili, per cui gli uomini mediocri si struggono, i deboli ammattiscono, i vili strisciano, i cattivi schizzan veleno. Comandare ai proprii simili essendone schiavi; figurarsi di trascinarli essendone trascinati; credere d’ingannarli essendone ingannati; è questo il gran fine della vita?

Maurizio si risvegliò dal suo momento di ebbrezza. Era lui, lui ancora, o non forse un altro, il vittorioso, il felice, il signore dell’universo? Anche lei, la divina creatura, gli appariva trasfigurata, per miracolo d’amore. Nuovo mondo era quello, altra regione, ignota sfera per lui; e ci viveva così bene! come in una di quelle nubi, luminose e fragranti, dove la fantasia dei pochi ha finito o indovinato che si celino, trascorrendo sulla terra, gli spiriti puri, gli abitatori del cielo. Maurizio visse estasiato in quel mondo, delle cose dell’esistenza lasciando ogni cura alla consuetudine, esperta guida che non ha sempre mestieri del raziocinio. Non fa altrimenti il sonnambulo; va diritto e sicuro, adempiendo a tutti gli uffici dell’uomo desto; per una cosa sola, che è la sua meta, il suo pensiero dominante, continua il sonno ed il sogno.

Vederla apparire ogni giorno, lassù, nel verde aereo nido accanto alla cascata dell’Aiga, che momento per lui! E come volavano inavvertite le ore, mentre la montagna custodiva il suo dolce segreto! Gli uccellini della macchia non fuggivano più, vedendo appressarsi quei due fortunati, immemori, inconsapevoli d’ogni altra cosa che non fosse il loro affetto scambievole. Erano due amici, oramai, per la gaia famiglia del bosco. Spensierati come voi, scriccioli della siepe, come voi, cardellini del prato, si amavano senza badarsi d’attorno, s’inebriavano della stessa fragranza silvestre, della medesima freschezza, della medesima gioventù del creato; unica immagine l’ora presente, unico pensiero il fido colloquio, unica legge l’amore.

Gisella era calma nella intensità della sua gioia, piena della sua felicità di dea, vera figlia della natura, come l’avevano voluta i suoi educatori. Sentiva allora, per la prima volta, tutta l’ebbrezza del vivere; quasi per effetto di rivelazione subitanea, vedeva più addentro negli arcani delle cose; una lingua fin allora sconosciuta dischiudeva i suoi misteri per lei. Le pareva d’intendere le voci degli uccelli nella frappa, e si fermava estatica ad ascoltarli. – Sentite, Maurizio: questo qua dice alla sua compagna che la mattinata è splendida, e che si potrebbe fare una volata fin lassù, da quei ginepri. E quest’altro… ma no, diciamo quest’altra… Sapete di chi parla? Di voi, signorino; dice che siete buono, e gli piacete a quel modo. Cara, ma brutta! ragiona bene, e non mi va. Che cosa deve importare a voi, signorina, che il mio Maurizio sia buono? Non ha mica da esser tale per voi. —

Maurizio rideva, partecipando con tutta l’anima a quei giuochi infantili della divina creatura. Ma non c’era sempre da ridere. Quello stesso giorno, ad esempio, volendo forse prender consiglio dagli uccellini, Gisella s’inerpicava sulle alture, alla volta dei ginepri. Lassù, presso un cespuglio, aveva veduto due serpi avviticchiate, che davano sembianza del caducèo di Mercurio. Si era avvicinata, al solito, da vera figlia d’Eva, con molta curiosità e senza ribrezzo, mostrando a Maurizio, che invano cercava di tirarla via, come una di quelle serpi avesse la testa quietamente posata tra le fauci dell’altra, ammiccando di là sotto con gli occhietti astuti, mentre all’altra, che la teneva stretta tra i denti, si vedeva palpitare con ritmo accelerato la gola gialliccia. Stranezza di voluttà in quelle due care bestiuole!

– Andiamo, via, – diceva Maurizio, – potrebbero essere due vipere.

– Ebbene che importa? – rispondeva Gisella, senza volersi spiccare di là. – Esse si amano e non badano a noi; si lascerebbero uccidere, piuttosto che muoversi. Guardate che ingegno, se sono velenose come voi dite; amandosi come fanno, si nascondono a vicenda il veleno. —

Maurizio non ebbe pace, finchè non l’ebbe allontanata dalle serpi.

– Lasciamole amare a modo loro; – diss’egli; – chi ama non vuol testimoni. —

Gisella sorrideva, socchiudendo i grandi occhi d’indaco e sprigionandone lampi «di faville d’oro» come avrebbe detto il Chiabrera; quindi arrovesciata la bionda testa sull’omero, porgeva la bianca gola ai baci del suo sgridatore, per cui era tanto lieta, tanto superba di esser bella.

Qualche volta vedevano in lontananza il Feraudi, piantato a guardia del suo armento su qualche rialto della montagna. Il contadino vedeva loro aggirarsi più spesso all’aperto, per far le scorribande, che non per andare al Martinetto, dov’era la sua convalescente, tacito pretesto a tutti quegli incontri quotidiani. Vedeva, dico, ma non dava segno di ravvisare, e lento nei gesti si voltava a guardare da un’altra parte.

– Si è avveduto; – mormorava Maurizio.

– Non dirà nulla, amico mio; – rispondeva Gisella.

– Perchè?

– Perchè ci è riconoscente e ci ama.

– Pure, bisognerà esser cauti.

– Sì, sì, siamo cauti, mio bel gesuita. —

A Maurizio non piacevano i titoli; non gli piaceva nemmeno che per dargli del furbo o dell’ipocrita fosse usato quel nome. Sentiva del resto in quella locuzioni l’effetto naturale, inavvertito, della scuola a cui aveva imparato Gisella. Quello era di certo il linguaggio del conte Camillo, soprannominato il miscredente. Gl’insegnamenti sono come le inondazioni, che si sovrappongono e fanno sedimento; essi lasciano sempre un deposito di frasi negli orecchi più delicati. Quelle frasi riappaiono qualche volta, senza che però ci si pensi, o si dia loro importanza veruna; riapparendo, dimostrano quale sia stata la scuola. E andasse pur gesuita per ipocrita; perchè ipocrita, poi? forse era sinonimo di cauto? C’era nell’applicazione del vocabolo un’accusa di viltà ch’egli non credeva di meritare. Il sentimento che Maurizio provava era ben altro, se mai; sentimento di pena sorda ma profonda, ch’egli provava di tanto in tanto, quante volte per brevi intervalli, quasi lampi nel buio, gli tornava a mente il suo stato.

Al silenzio del suo compagno, Gisella si avvide di averlo ferito.

– Ma se dico per ridere! – esclamò. – Ti amo tanto! Abbracciami, Maurizio, abbracciami qui, al sereno del cielo. Il pastore ha gli occhi da quell’altra parte. —

Un bacio scoccato, una risata argentina, e la pace era fatta. Ma se le paci erano facili, erano anche facili le guerre; e queste, per brevi che fossero, bisognava abolirle. È il sogno di tutti i filantropi. Per abolire quelle piccole guerre, Maurizio vedeva la necessità di ravviare, di educare a modo suo la mirabile selvaggia. Una così bella creatura doveva esser perfetta; la figlia della natura era degna di ricevere qualche insegnamento dall’arte.

 

– Perchè non credi? – le domandava Maurizio.

– Io? – rispondeva ella, stupita. – Non credo io dunque? Ma se credo all’amor vostro, Maurizio! Ma già, – soggiungeva, ridendo, – il mio buon amico è un bel discorritore; bisogna lasciarlo discorrere. Eccomi qua, vi sento, vi ascolto, son tutt’orecchi.

– Oh, questo, poi!

– Dico per modo di dire. So bene che son piccini; fin troppo piccini.

– Un’altra! Ma con voi non si può ragionare, mia bella prepotente. E siete bella, troppo bella per me, troppo bella per ogni povero mortale. Perchè di questa bellezza meravigliosa non essere grata a Dio? Vorreste voi dunque persuadervi di esser nata così per un caso, per un capriccioso incontro di cellule? Guardatevi in uno specchio, bambina miracolosa, e poi ditemi voi se è possibile di credere una cosa simile.

– Ma io non credo niente di ciò che voi dite. Maurizio. Voi mi accusate, io dubito, di aver letto certi libracci di scienza moderna. Nè moderna nè antica, mio bel cavaliere. Vivo, amo, son contenta di vivere e di amare; ecco tutto.

– No, non può esser tutto; – s’impuntava a sostenere Maurizio. – Dovete essere riconoscente.

– Ebbene, sia, sono riconoscente.

– A chi?

– A te… che mi trovi bella; – rispondeva la pazza canzonatrice, dando in uno scoppio di risa. —

Non era ciò che voleva Maurizio.

– Vediamo di ragionare; – diss’egli. – Siete un fiore, un bel fiore, un fiore stupendo. E potete non darvi pensiero del come un tal fiore sia nato? Potete immaginare che sia nato così, per un caso, per un capriccio di natura?

– Leva il capriccio e metti il destino; metti la necessità, l’utilità, quel che vorrai; – rispose ella, alzando le spalle.

– Utilità! – disse Maurizio. – Passi per il frutto; lo capirei ancora. Il frutto è utile, infatti; possiamo credere che sia una necessaria produzione dell’albero, come l’albero una necessaria produzione del suolo…

– Come il suolo una necessaria…

– Sì, canzonatemi ancora. Mi mettevo a ragionar come voi, signorina. Ma il fiore non è necessario, è superfluo; sopra tutto è inutile che sia bello. E come potrebbe essere un prodotto della necessità, la bellezza? Come si potrebbe ammettere che si fosse formata la bellezza per cieca e sorda opera di selezione, di adattamento, di evoluzione? E l’ideale, che è il fior dello spirito, si sarebbe egli fatto per necessità di battaglia? Badate, mia dolce amica; per negare un intelletto creatore, noi siamo costretti a distribuire troppa intelligenza in ispiccioli a troppe miriadi d’organismi, a troppi miliardi di miriadi di cellule.

– E dàlli con le cellule! Ma io non ne so nulla, di tutte queste malinconie. So una cosa sola, Maurizio; – conchiudeva la bella birichina; – che noi spendiamo troppo tempo a discutere di filosofia. Questa è filosofia, non è vero?

– Quasi; – disse Maurizio, smettendo.

Un triste pensiero gli era passato allora per la mente.

– Povere nostre giornate serene! – riprese egli, sospirando. – Son per finire, o non le avremo più così lunghe.

– Le avremo ancora; – rispose Gisella, con la breviloquenza che bisognava usare per certi argomenti. – C’è una proroga al ritorno.

– Ah!

– Sì, una lettera di questa mattina; avevo dimenticato di dirvelo. Le esperienze di laggiù durano ancora, e sono molto interessanti; – soggiunse ella, respirando.

Al respiro di Gisella rispose il cuore di Maurizio con un sobbalzo d’allegrezza. Ma quel sobbalzo fu tosto represso dal ritorno di un brutto pensiero; dal brutto pensiero che opprimeva da più giorni la mente del signor di Vaussana. Perchè infine, lontano o vicino quell’uomo, ciò che Maurizio faceva, egli gentiluomo di stampo antico, egli cavaliere senza macchia… Ma no, no, no, non voleva pensarci.

Capitolo IX.
Sull’orlo dell’abisso

E andava innanzi così, alla ventura, come si va pur troppo in tante circostanze della vita, quando non siamo noi che scegliamo il sentiero o regoliamo i nostri passi, ma è la nostra passione, il caso, il destino. Pure, come gli era concesso dallo stato suo, andava abbastanza guardingo, e in certi casi perfino sospettoso. Egli sentiva istintivamente che all’effetto di quelle forze cieche non bisognasse aggiungere quello dei nostri piccoli errori, delle nostre facili dimenticanze, delle nostre naturali spensieratezze; perciò s’impensieriva di tutto, e almeno nelle cose minute, non potendo più nelle maggiori, nelle essenziali, voleva andar cauto. Di uno temeva, ad esempio, di uno dubitava, e quest’uno era il Feraudi, il contadino del Martinetto, il povero pastore che troppe volte gli accadeva di trovare sulla sua strada, o di veder da lontano, ma anche là in atto di guardare alla sfuggita, e certamente in condizione di notare quella assiduità di passeggiate al deserto. La gratitudine, a cui aveva accennato Gisella, era sicuramente una bella cosa, ma anche rara, molto rara nel mondo, come tutte le cose belle, e tale da non doverci fare un grande assegnamento.

Maurizio trovò il modo di combinare quell’uomo ad altre ore, da solo, e d’intrattenersi a ragionare con lui. Gli faceva larghe dimostrazioni di benevolenza, lo trattava con molta dimestichezza, quasi con amicizia, aiutando benissimo a colorire la cosa il ricordo di qualche servizio reso, e destramente conduceva il discorso sulla signora della Balma, affinchè quell’altro dovesse dirgliene tutto quello che ne pensava, ed egli, dal canto suo, potesse giustificare con qualche buona ragione quella frequenza d’incontri e di gite.

– Che bell’anima, la signora della Balma! – diceva Maurizio. – Come vuol bene a voialtri! Senza orgoglio, senza pregiudizi di sangue, non è vero? E semplice, poi! Par quasi una bambina. Come si diverte a correre per questi bei monti!

– Già, – rispondeva il Feraudi, – in questo è tutta la buon’anima di sua madre, la contessa Ippolita. Ma era più timida, la vecchia; non si fidava mica tanto; più in qua del Martinetto non si arrischiava mai, nelle sue passeggiate.

– Aveva ragione, perbacco; – ripigliava Maurizio, felice di aver condotta la conversazione a quel punto. – La montagna è sicura; non si ricorda che ci abbiano mai torto un capello ad anima nata; ma dopo tutto siamo vicini al confine; gente di fuori, d’una parte e dell’altra, disertori, pezzenti, non ne mancheranno di certo; un brutto incontro non sarebbe neanche impossibile. Ed è per questo che mi faccio un dovere di accompagnarla nelle sue escursioni, così lunghe e frequenti.

– Lei è savio, signor conte; – replicava il contadino; – e nessuno troverà da ridire intorno a queste precauzioni. Del resto, male non fare, paura non avere; ha ragione il proverbio. —

Questi discorsi calmavano e turbavano Maurizio: lo calmavano per un verso, lo turbavano per l’altro. Ed egli andava più guardingo che mai; voleva studiare, governare i suoi atti più che non avesse fatto fin allora. Per fortuna, dacchè era tornato a San Giorgio, non aveva avuto l’uso di farsi vedere in paese a diporto, salvo nei giorni di festa, e la sua mancanza non doveva esser notata come un fatto singolare, come un cambiamento improvviso di consuetudini. Uscendo sempre di casa dalla parte dei campi, non poteva neanche esser veduto dalle case più vicine al Castèu. Davanti al mulino non passava mai, e risaliva sempre e discendeva dall’Aiga facendo un giro assai largo. In casa, poi, inventava ogni giorno qualche pretesto di gite lontane sui monti, portando il fucile, come un gran cacciatore nel cospetto di Dio. Quel povero fucile riposava spesso appoggiato a qualche tronco d’albero, o contro i merli del torrione, dove non metteva paura di certo ai garruli abitatori della macchia. Ma egli così faceva per eccesso di precauzioni, volendo essere giustificato più che potesse delle sue lunghe escursioni agli occhi delle persone di casa.

Gisella era più forte, più serena, più franca. Di che cosa doveva ella temere? Usciva per i suoi malati, per suo diporto, per suo capriccio, e nelle sue gite non si era mai trovato niente a ridire. Non aveva fatto sempre così, anche da fanciulla, vivendo suo padre? Niente era mutato per lei, nè il casato, nè le consuetudini di vita. Si sentiva sempre la contessina dei tempi andati; tutti i servi della Balma l’avevano sempre veduta andare e tornare liberamente, scorrazzare a quel modo.

– Di che temete, Maurizio? – chiedeva ella, con la sua bell’aria di sicurezza, donde traspariva anche un lampo di celia amorevole. – Voi v’immaginate che tutti vogliano occuparsi dei fatti miei, e mi date più importanza che io non ho. Vi dispiace che parli così? Ebbene, diciamo che ne ho molta… per te. Ma non per altri, sai, non per altri. —

Maurizio non voleva dir tutto. Le sue inquietudini si tenevano sempre a mezz’aria, vagavano di qua e di là, senza posarsi mai sopra un certo argomento. Ma se le sue parole non lo accennavano, il suo pensiero non sapeva allontanarsene, e negli occhi spaventati di Maurizio stava fissa una immagine molesta, l’immagine che lo rendeva cupo, che lo faceva fremere e tremar d’improvviso, anche negli impeti più caldi della passione. Non fremeva già, non tremava per sè; fremeva e tremava per la divina creatura, per l’amor suo così grande, così intenso, così vivo, e così minacciato di morte imminente, sospeso com’era ad un filo. Gli innamorati conoscono questi falsi equilibrii, e troppo spesso ne vivono. Del resto, c’è la sua voluttà anche in questo vivere di spasimi.

– Sapete, – disse un giorno Gisella, cogliendo a volo negli occhi di Maurizio uno di quei lampi che parevano illuminare di tetra luce il fondo del cuore, – sapete che alle volte, stando qui accanto a me, mi avete l’aria d’un condannato?

– E non lo sono io forse? – rispondeva egli sospirando. – So bene quel che mi aspetta. Non dovrò perdervi io, e tra poco, forse domani? Perdervi, sì; non sarà forse un perdervi, il vedervi appena qualche momento, e di rado, quando egli sarà ritornato? —

L’immagine prendeva un nome; dagli occhi passava alle labbra. Dal giorno che Maurizio aveva incontrata Gisella al Martinetto, ne erano passati almeno diciotto, e ancora un accenno a lui non gli era uscito di bocca. Ma il tempo stringeva; il ritorno temuto non incominciava a sentirsi nell’aria?

– Vero, – rispose Gisella, – non sarò più così libera. Triste cosa, amico mio, triste cosa! – soggiunse, traendo un profondo sospiro e reclinando la bionda testa sul petto di Maurizio. – Tu lo vedi, dunque? Bisognerà pensare al rimedio; ed io non ne vedo che uno… ritornare alla Balma. —

A quella proposta improvvisa, Maurizio ebbe un sussulto per tutte le fibre.

– No, no; – diss’egli, tremante; – come sarebbe possibile?

– Nel modo più naturale; – rispose candidamente Gisella. – Egli vi scriverà, pregandovi di ritornare.

– No, alla Balma, no, mai.

– Perchè? – chiese Gisella, non intendendo quella ripugnanza.

– Perchè!.. mi domandate il perchè? Ma egli… egli ha dei diritti, dei diritti che il mondo riconosce per sacri. Dio mio! – esclamò il giovane, abbassando confuso la fronte. – Come oserei ritornare lassù, ora?.. L’ospitalità… la fiducia ch’egli mostrerebbe di avere in me… C’è una legge, infine, una legge che io sento di avere violata.

– Maurizio! Maurizio! – gridò ella, spaventata, afferrandolo per le mani e costringendolo a guardarla negli occhi. – Ma no, che follia! – riprese tosto, sforzandosi di sorridere. – Perchè farmi paura così? La legge! la legge! Io ne conosco una; è quella dell’amore. Non lo credi tu, Maurizio, che questa legge vada innanzi a tutte le altre? Infine, ragioniamo; che cosa sono io per lui, se non una bambina, un ornamento della casa, una compagna della sua solitudine? e una compagna che non basta neanche a fargliela sentire un po’ meno, questa sua solitudine! Il suo cuore… lo sai, dove lo ha egli il suo cuore? Nella testa, nella testa che gli ribolle sempre d’idee bellicose. Era un soldato, ed è rimasto un soldato; l’amor suo è il servizio, la disciplina, la manovra, la guerra. Vedi bene che t’inganni. Doveva restare otto giorni; ha scritto una lettera per prolungarsi la sua licenza; ed ecco, siamo quasi ai venti; potremo giungere ai trenta, ai quaranta. E perchè? per una serie di esperimenti importantissimi, che lo interessano tanto, laggiù, nel suo campo, nel suo poligono. Amico mio, è l’odor della polvere che inebria questi uomini. Che cosa vuoi che si faccia di me? Ed io, frattanto, io ho un cuore, non è vero? E te ne ho date le prove, Maurizio, di essere una buona bambina, che non ha voluto farvi disperare, come avrebbe fatto tanto volentieri una sciocca, una civetta, una donna cattiva. Vi ho detto: ti amo; non mi son fatta strappare la mia dolce confessione di bocca: e tu mi hai intesa, non è vero, mi hai bene intesa? —

 

Maurizio tentò di parlare. Quell’onda di passione, sollevata, ingrossata da tutti gl’inconscii sofismi del cuore, incominciava a soverchiarlo. Infine, egli amava quella donna, l’amava pazzamente; e non era colpa sua, ma di un perverso destino, se due uomini erano in lui, se ragione e sentimento cozzavano troppo spesso nell’anima sua, se quella, già usata a soccombere, voleva ad ogni costo farsi ascoltare, prima di oscurarsi e di spegnersi. Queste contradizioni sono frequenti nell’uomo moderno: la natura e il sangue, antichissime forze, comandano una cosa; il pensiero e la educazione morale ne persuadono, o ne intravvedono un’altra. Ma allora, non più: che cosa pretendeva da lui la ragione, se in tempo opportuno non aveva saputo parlare? Intendeva ella forse di ottenere alla legge del dovere una troppo tarda vittoria, che sarebbe stata un’ingiuria? e un’ingiuria a cui la delicatezza del sentimento e un’altra specie di educazione, la cavalleresca, non avrebbe mai consentito? Maurizio tentò di parlare: e le idee che gli si affollavano alla mente voleva esprimerle a lei, stringendola nelle sue braccia, bisbigliandole in sommesse parole all’orecchio della divina creatura. Son quelle che valgono, infatti, quelle che persuadono meglio.

Ma Gisella non volle ascoltarlo. Concitata dalla progressione del suo stesso ragionamento, voleva andar oltre, e non solamente a parole. Come mai una argomentazione così falsa, così contraria agli imprescrittibili diritti del cuore, si era affacciata tra i dubbî di Maurizio? Con quei dubbî era necessario di finirla una volta per sempre. Nel candore del suo peccato, trascinata da quell’impeto di passione che non sente più freno, si alzò, spiccandosi da lui, per andare verso la merlata del torrione, del dolce nido in cui erano raccolti; si affacciò, si spenzolò fuori con la testa e col petto, tanto che Maurizio atterrito si slanciò con le braccia tese per afferrarla. Gisella lo trattenne con un gesto, pur ritraendosi e volgendosi a lui sorridente; poi con un altro lo trasse accanto a sè, additandogli l’abisso che si schiudeva buio e rumoreggiante sotto i suoi occhi.

– Guarda! – gli disse solenne. – Guardate, Maurizio; – ripigliò, con uno dei suoi trapassi consueti dalla confidenza alla cerimonia, – guardate bene, ma bene, là dentro. C’è la natura in tutta la libera furia delle sue forze meravigliose. C’è il vuoto con tutte le sue paurose oscurità. Ma c’è ancora chi vuol leggere nel buio, chi vuol dettar legge alla natura. Ebbene voi che sapete tante cose, Maurizio, guardate, scrutate, indagate. Se c’è in quel buio altra cosa che il vostro amore ed il mio, se c’è una legge che li condanni, se c’è… se ne siete ben certo… gettiamoci nell’abisso, e puniamoci da per noi del nostro delitto, della nostra vergogna. Vi piace? a me piace… Voi siete un uomo leale, ed io vi crederò ciecamente; la vostra parola sarà la mia legge. —

Maurizio fu per un istante affascinato; e istintivamente obbedendo, guardò nel vuoto. Rumoreggiava l’abisso, e nel tumulto assordante delle sue mille voci pareva chiamarlo.

Sì, c’era, la legge; c’erano anzi mille leggi, tutte derivate da quell’una, primitiva, ond’erano state mosse ad un cenno del creatore le forze cieche della natura. Anche quell’arco di sette colori vagamente disegnato a tenui gradazioni nell’aria, incurvato leggermente sul baratro, nello strato vaporoso dove migliaia e migliaia di gocce diffuse in sottilissima polvere d’acqua si offrivano in mobile superficie di prisma ai raggi del sole, anche quell’arco pareva una rappresentazione, lievissima, a mala pena sensibile, ma pur vera, innegabile, della eternità della legge. E non ci avevano veduto, gli uomini primitivi, il segno istesso della alleanza antichissima della natura con Dio, del conosciuto coll’inconoscibile? Attratto da quel ragionamento interiore, imperioso, prepotente, Maurizio levò gli occhi a guardare Gisella. Gisella guardava lui, con gli occhi fissi e le labbra tese, come per bere nelle prime parole di Maurizio la sentenza d’entrambi. Egli rabbrividì involontariamente, tremò tutto di aver forse indugiato troppo a rispondere.

– No, no, – diss’egli concitato, – no, no! —

E così gridando, l’afferrò per la vita, traendola a viva forza indietro, per modo ch’essa gli cadde resupina tra le braccia convulse.

– No, no; – ripeteva frattanto, – non guardare laggiù. Non sai che il vuoto attira, bambina? Anch’io sono stato sul punto di cedere. Gisella, Gisella, anima mia, vita mia, che è mai questo pazzo giuoco? Mi avete fatto paura. Ma è possibile, una follìa come la nostra? No, cara, no, adorata, non c’è niente laggiù; non ha leggi il vuoto. L’amore, hai ragione, l’amore è tutto. Non è l’anima del mondo, l’amore? E noi lo vorremmo sacrificare a quattro leggi umane, nate dal fatto materiale della occupazione della terra, e condotte di sofisma in sofisma a giustificare la servitù delle anime? lo vorremmo sacrificare a quattro leggi, che passano e mutano, oggi più spesso e più facilmente d’un tempo, tanto che noi medesimi le disfacciamo anche prima di vederle cadere in disuso per virtù di costumi? No, no, viviamo, Gisella, ed amiamo; il resto è nulla, nulla, davanti all’amore, a questa sublime visione dell’eternità, concessa alle creature da una misericordia suprema ed arcana. —

Gisella ascoltava, dolcemente cullata nelle braccia di lui da quella musica di voci interrotte e di sublimi follìe. Anch’ella, poi che tacque Maurizio, parlò; ed erano voci più sommesse, le sue, come versi di canzone mormorata tra la veglia ed il sonno.

– Vorrei essere… sì, vorrei essere la serpicina che posava confidente la sua bella testina elegante tra le fauci ardenti d’amore del suo damo selvaggio; e così dolcemente stretta, dal mio caro spiraglio, vorrei ammiccare con la pupilla lucente di felicità al verde della macchia. Ma perchè Maurizio, il mio dolce e sapiente signore, ha una così ingiusta antipatia per il serpe? Lo so, è un animale troppo distante oramai dal tipo delle altre creature viventi; ma forse perchè egli è il più antico tra gli esseri. E striscia, il poveretto; striscia, perchè il mondo è freddo, freddo, troppo freddo al paragone dei suoi bei tempi. Ma allora, chi sa quante migliaia d’anni addietro, il sangue gli scorreva più caldo nelle vene; e il serpe andava più glorioso, con la testa eretta sul suo bel collo di cigno, e per tanti specchi quante erano le sue nitide squamme rinfrangeva in vivaci colori la bella luce di un sole più ardente. Egli era il signore del mondo, allora; oggi lo ha abbattuto la viltà delle cose. Le antiche leggende, trovandolo ancora padrone della terra, ne fecero il gran seduttore… Seduttore! – ripeteva Gisella, sorridendo placidamente al vocabolo. – Bel signore di Vaussana, non siete un gran seduttore anche voi? Oh, senza volerlo, quasi senza saperlo… Povero il mio Maurizio tanto caro!.. Ma dimmi, dimmi ancora una volta che son io l’anima tua. —

Maurizio si era mosso in soprassalto. Anch’ella si scosse e rizzò la testa. Una voce si udiva, voce di canzone alta, squillante, di là dalla macchia dei nocciuoli. Ambedue riconobbero la voce del pastore, e sorrisero.

– Strano! – disse Maurizio. – Non l’ho mai sentito cantare.

– Tutti i pastori cantano, quando son soli; – rispose Gisella. – Ma per essere venuto da questa parte, dove non ci son prati da pascolo, bisognerà ch’egli abbia pensato di farsi sentire da qualcheduno.

– Per dare un avvertimento? – chiese Maurizio, turbato.