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La plebe, parte I

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«Unico suo desiderio, sul letto di morte, fu di vedere ancora Gian-Luigi che allora trovavasi a Torino. Mandato a chiamare in fretta in fretta, il giovane venne ad assistere all'agonia del suo benefattore. A quello che ne udii, fu uno spettacolo fatto per addolorare un credente, ma non per ammollire l'anima di un incredulo. Il medico materialista, malgrado tutti i tentativi di Don Venanzio, morì nell'interezza delle sue opinioni antireligiose. Gian-Luigi assistette al desolante spettacolo di un'anima che lotta fisicamente contro la morte e giace vinta da questa senza recare seco pure un barlume di speranza. La vita conchiusa tutta in questo breve periodo di tempo, per un'anima nata dal nulla e che torna nel nulla, gli apparve sempre più una lotta in cui bisognava sopravanzare, un giuoco in cui bisognava vincere. Si confermò nella sua credenza: la soddisfazione dei proprii istinti, l'appagamento dei desiderii, essere legittima e suprema regola di vita.

«Il buon parroco non rifiutò le preghiere della Chiesa a quell'incredulo impenitente che ne avea rifiutato i sacramenti.

« – Preghiamo sempre, egli soleva dire in ogni occasione. La preghiera non può dirsi inutile mai, e dirla proibita mi par quasi un'eresia. D'altronde chi può porre un limite alla misericordia di Dio?

«Gian-Luigi accompagnò sino al cimitero la bara del suo benefattore. Credevo di vederlo piangere. Invece l'occhio suo era asciutto e quasi più vivace del solito; aveva le guancie un po' pallide. Stette muto, e non fece il menomo atto che svelasse il suo dolore. Quando la bara fu coperta di terra, egli si volse indietro tranquillo, senza pronunziare una parola e se ne partì lentamente.

«Il cane del povero medico morto aveva seguito ancor egli il funebre corteo, ed ora, sdraiatosi sul cumulo di terra smossa sotto cui giaceva il cadavere del suo padrone, guaiva dolorosamente.

«Io mi affrettai dietro Gian-Luigi, e lo raggiunsi che camminava col medesimo passo lento, a capo chino.

« – Povero dottore! Io cominciai per dire a Gian-Luigi. Come presto egli ti fu tolto! Ti compiango, e sento il tuo danno e il tuo dolore, come se fossero miei.

«Egli non mi rispose tosto, ma continuò a camminare di quella guisa, quasi che non prestasse la menoma attenzione alla mia presenza nè alle mie parole.

«Dopo un poco mi disse:

« – Sì, povero dottore! Che vita fu la sua? Aveva studiato assai, sapeva molto e la sua esistenza rimase rinserrata in questa misera tomba di vivi che è il villaggio! A che cosa gli valse avere ingegno? Passò come un'ombra nel mondo, come passano tutti gli stupidi che riempiono di loro inutil persona quelle brutte casipole laggiù per soffrir di stenti, d'ogni privazione, procreare altri stupidi ed altri infelici al pari di loro e venire poi colla loro putredine ad ingrassare le alte erbe del cimitero che abbiamo or ora lasciato. Forse quell'uomo si meritava di meglio.

«Tacque un istante, e poi crollando le spalle con un certo suo atto pieno di orgoglio, soggiunse:

« – Oppur no; ebbe la sorte che seppe o che volle acquistarsi. D'altronde oramai la sua vita era conchiusa. Ne aveva egli tratto tutto quello che poteva o sapeva. Per lui tutto era finito. La decrepitezza è un prolungato tormento; è stato avventurato che la sorte volle risparmiarglielo.

«Le fredde parole di Gian-Luigi mi facevano pena, e non sapevo pure come ripigliarnelo, e non osavo, perchè allora ancor io sottostava a quell'ascendente che la ricca di lui natura esercita sopra chi lo accosti. Ma conoscevo allora per la prima volta con precisione quanto il mio amico mancasse di cuore, e sentivo il mio invaso come da un gelo, e ne provavo entro di me irritazione e dolore.

«Proseguimmo per alcuni passi, senza parlare e l'uno e l'altro.

«Nella campagna, silenziosa a quel momento, suonavano lamentosissimi gli ululati del povero cane che piangeva sulla fossa del suo padrone.

«Non potei trattenermi dal dire a Gian-Luigi con manifesta allusione alle sue parole ed alle sue condizioni:

« – Povera bestia! Odi come quel cane si lagna sconsolatamente. Egli sente d'aver perduto il suo benefattore, egli piange la sua mancanza.

«Gian-Luigi m'interruppe vivamente:

« – Il suo è dunque un egoismo. Incapace di procurarsi la vita da sè, rimpiange il pane perduto con quell'essere sepolto.

« – Ah no: diss'io: in quel dolore c'è anche l'affetto…

« – Un affetto, ribattè egli seccamente, regolato dall'istinto e non guidato dalla ragione.

«Io mi tacqui. Cominciai da quel momento ad esser chiaro della vera natura di Gian-Luigi, e una profonda amarezza mi scese nell'anima.

«Camminammo in silenzio fino all'entrata del villaggio; colà si separò da me con un brusco saluto, e volto a destra s'avviò di buon passo verso la campagna.

«Stetti alcuni giorni senza vederlo. Finalmente me lo vidi comparire innanzi mentre ero al pascolo, sotto i miei favoriti ontani. Aveva l'aspetto più serio dell'usato e risoluto come d'uomo che ha deciso oramai sulla sua sorte.

«Mi tese una mano e mi disse col simpatico accento della sua bella voce vibrata ed armoniosa:

« – Addio, Maurilio, io parto; abbandono questo villaggio – per sempre – e le più dolci memorie che io ne porti meco son quelle che ti riguardano, e se a questi luoghi ed a questi tempi trascorsi tornerà il mio pensiero, sarà per te soltanto, per trovarvi le traccie dei momenti che abbiamo insieme passato.

«Mi parve commosso, se pure non fingeva, se pure non era la mia commozione che mi faceva scorgere per errore la sua. Io mi sentii stringere il cuore e la gola. Lo guardai con occhi meravigliati, sgomenti, che di subito si riempirono di lagrime.

« – Tu parti! Potei dire soltanto. Per sempre?.. Gran Dio! Non ci vedremo dunque più?

«Egli sorrise compassionevolmente.

« – Qui, no certo, disse; od almeno è difficile molto; ma ciò non significa che non abbiamo ad incontrarci mai più. Verrai tu pure a Torino, e là mi ci troverai tale e quale ora sono.

«Qual probabilità v'era allora per me, di venire a Torino? Nessuna. Mi credevo condannato a vivere in quel villaggio tutta la mia vita, per allontanarmene forse soltanto alcune volte ad accompagnare Menico nelle sue gite alla città, così mattiniere che potevano dirsi notturne. Come avrei potuto vedere ancora Gian-Luigi? Ritenni per sicuro che quello era fra noi l'ultimo addio. Colla partenza di lui, mi parve da me si dipartissero tutte le belle giovanili speranze, tutto quel mondo di sogni e d'idee in cui mi piacevo cotanto far correre la mente; mi parve rimanessi allora affatto solo sulla terra e venissi chiuso inesorabilmente in quella esistenza di miseria, di abbiezione, di ignoranza che aveva per cornice il fetido tugurio di Menico. Un impeto irrefrenabile di dolore mi invase di presente; sciolsi con brusco atto la mia mano dalle sue, e coprendomi la faccia scoppiai in pianto.

«Gian-Luigi tacque per un poco. Quando, già vergognoso di quello sfogo infantile, rivolsi gli occhi verso di lui, lo vidi che mi guardava con una certa compassionosa meraviglia che quasi mi produsse l'effetto d'uno scherno, e sorpresi in lui quel suo disdegnoso crollar di spalle che ti ho detto. Codesto mi rasciugò repentinamente le lagrime entro gli occhi. Mi sentii freddo ad un tratto ancor io, e benchè avessi tuttavia il cuor grosso, le mie sembianze poterono acconciarsi all'indifferenza.

«Egli sedette presso di me e mi raccontò come e perchè partisse. Il medico aveva scritto nel suo testamento che gli eredi fossero obbligati ad una annuale provvigione verso Gian-Luigi, fino a quattro anni dopo che egli avesse preso la laurea in medicina; aveva lasciato inoltre al suo protetto, per legato, tutti i suoi libri e stromenti della scienza che voleva il giovane finisse di apprendere. L'obbligazione loro imposta pareva un gravame intollerabile agli eredi, che se ne lamentavano come di una matta ingiustizia. Gian-Luigi, sdegnoso di codesto, impaziente di dover dipendere da quei tali, propose loro per transazione: gli pagassero di subito una data somma, egli li esonererebbe da ogni obbligo nell'avvenire, gli lasciassero prendere i libri e strumenti del legato, ed egli con essi si allontanerebbe che non avrebbero mai più avuto il menomo fastidio per fatto suo. La proposta fu volentierissimo accettata.

« – Ed ora, conchiudeva Gian-Luigi, io parto e vado ad affrontare l'ignoto. Con quella somma avrò bene di che vivere un anno! In dodici mesi quante cose possono succedere! Quante ne può compire una volontà tenace!.. Che farò io? Non lo so ancora. Forse continuerò a studiare la medicina, forse no… come vedrò le circostanze, come sentirò l'interna ispirazione dettarmi. Ma ho diciannove anni soltanto! Ho qualche cosa entro questa fronte, e in questo petto. Voglio che gli uomini abbiano a conoscermi ed inchinarmi, per Dio! L'umanità mi ha rigettato fin dalla nascita… Me le imporrò colla forza di questo ingegno, colla potenza di questo volere cui nulla può piegare.

«Si drizzò in piedi, brillante lo sguardo, animato nel volto, tumide d'orgoglio le labbra; e voltosi dalla parte in cui al fondo al fondo, nel vaporoso aere della campagna, si vedevano vagamente indicate le ondulazioni della collina di Torino, tese la mano verso colà e pronunciò con indicibile accento di energia, di agognamento, di avida bramosìa:

« – A noi due, o mondo della ricchezza; mondo dei piaceri, della bellezza, dello sfarzo, dell'ambizione, della potenza, preparati ad aprirmi il varco. Lo voglio. Ci riuscirò. Voglio la mia parte de' tuoi tesori – e la mia parte ha da essere quella del leone. Nominor leo!

«Gian-Luigi partì. La brava e povera donna che gli aveva fatto da madre, ne pianse lacrime di sangue. Egli le diede l'ultimo addio, incommosso, fissando coll'occhio ardente quel punto lontano verso cui si dirigevano i suoi passi; promise con accento di leggerezza, quasi d'impazienza le avrebbe scritto, le avrebbe fatto sapere sue notizie, non l'avrebbe in niun modo dimenticata, ma ben si vedeva che le erano parole a cui non avrebbero tenuto dietro gli effetti.

 

«Fece pessima impressione in paese, ed anche in me il fatto che il giovane, della somma ricevuta dagli eredi del medico, neppure la menoma parte non offerisse a sollievo di quella donna ormai vecchia, che lo aveva allevato, la quale, rimasta vedova, era caduta in una vera miseria.

«Essa, la buona Margherita, non domandava nulla, non si lamentava di nulla, non vedeva nulla che fosse menomamente da rimproverarsi nel suo diletto Gian-Luigi; ella aveva tanta fiducia in lui, che credeva alle sue fredde parole ed alle sue leggiere promesse. Accompagnammo il giovane ella ed io soli un tratto sino al crocicchio in cui la via comunale attraversava quella reale di X… per a Torino, dove la Diligenza doveva prenderlo e portarselo seco alla capitale.

«Gian-Luigi aspettava con impaziente inquietudine questa Diligenza. Quando essa sopraggiunse, ci salutò in fretta, strinse appena a me la mano e staccatosi dalle braccia della Margherita, che si era gettata perdutamente al suo collo, si arrampicò alla svelta sull'imperiale della carrozza, e questa riprese la sua corsa pesante, avvolgendosi in dense nuvole di polvere.

«La donna ed io stemmo là piantati a seguitar collo sguardo la Diligenza; e quel crudele che con essa da noi si allontanava, mai non fu che si volgesse pure una volta a darci un ultimo sguardo, a fare un ultimo cenno di saluto.

«Seguitammo cogli occhi quel polveroso carrozzone, finchè lo potemmo scorgere. Che cosa pensava, che soffriva essa la povera Margherita? Confesso che io la dimenticai un istante, assorto nel mio particolar sentimento, che a quel punto era una segreta invidia per quel felice il quale andava a gettarsi nel vortice del mondo, vagheggiato ed abbellito dalla nostra fantasia. Io pure mi sentiva nell'animo una certa ambizione che mi pareva nobilissima – e forse era. Io pure orgogliosamente mi dicevo, e mi dico, che sotto le ossa del cranio la natura mi ha posto una forza da sopravanzare nel mondo, la forza del pensiero, una ricchezza di fosforo cerebrale da accendersi, consumarsi, ma gettar luce e brillare!..

«Quando la Diligenza fu affatto fuor dell'arrivo dei nostri sguardi, richiamò la mia attenzione verso la misera donna uno scoppio di singhiozzi che ruppero dal suo petto. Finchè essa aveva visto Gian-Luigi, finchè ancora aveva potuto vedere quel legno che seco lo portava, il dolore della infelice si era contenuto, quasi la si era fatta una pietosa illusione che la tremenda verità non fosse. Ma ora tutto era sparito ai suoi occhi: ogni coraggio ed ogni forza l'abbandonavano ad un tratto. Le lagrime che prima le colavano silenziosamente giù delle guancie arrugate irruppero con violenza irrefrenabile dai suoi occhi.

« – Me misera! Esclamò essa coll'accento straziante della disperazione. Sola! sola! rimango sola!.. E lo vedrò io ancora sulla terra?

«Si lasciò cadere sopra la sponda della stradicciuola che mena al villaggio, e là, seduta, reclinò il capo sulle ginocchia, piangendo amaramente.

«Io volli consolarla. Che la capitale non era in capo al mondo, le dissi: che Gian-Luigi sarebbe tornato a vederla, che trattandosi della ventura di lui, ella doveva rassegnarsi a non averlo più seco di continuo.

«Ma essa, cui il dolore in quel punto faceva giustamente prevedere il futuro, mi rispose crollando il capo:

« – No, no, Gian-Luigi non tornerà più a vedermi. Egli mi dimenticherà del tutto… forse mi ha già dimenticata fin d'adesso… Non lo avrò a chiudermi gli occhi quando morrò; e chi sa se potrò ancora vederlo più sulla terra!

«Si tirò sugli occhi il fazzoletto di cotone onde si copriva il capo e mi pregò la lasciassi stare colà; aver ella bisogno di essere sola, la mia vista in quel momento esserle di pena. Mi allontanai e venni solo al villaggio, stranamente commosso nell'animo. Invidiavo il mio compagno d'essere partito per quella terra dei sogni, verso cui sì acceso pure si volgeva il mio segreto desio; lo invidiavo ancora di più per essere egli amato di quella guisa, come lo amava Margherita. Se io fossi stato amato così oh certo non sarei partito, mi dicevo; ma aimè! nessuno mi amava!..

«L'idea di fuggire dal villaggio, di correr sulle traccie di Gian-Luigi, di affrontare ancor io l'incognita del destino mi venne allora subitamente e per la prima volta; e bene spesso doveva tornarmi e sempre più imperiosa, di poi. Ma come porla in esecuzione? Quali mezzi avevo? E poi, se non l'affetto, il timore mi legava a quelli che mi avevano allevato, ai quali divenuti vecchi ero oramai necessario. Non avevo tanto coraggio da abbandonarli: mi pareva che la mano adunca della Giovanna e lo staffile di Menico mi avrebbero sopraggiunto dapertutto.

«Passai un anno più tormentoso e più arrabbiato degli altri. Anche la mia benigna visione pareva mi avesse abbandonato. In capo ad un anno fui libero di me, ma in virtù d'una tremenda catastrofe.»

CAPITOLO XVII

Maurilio sospese un istante la sua narrazione, esitò visibilmente, le sue guancie pallide e smunte s'infuocarono ad un tratto di cupo rossore; prese fra le sue le mani di Giovanni, e stringendogliele con forza, curvandosi su di lui, riprese a dire con isforzo ed a voce sommessa:

– Poichè ti dico tutto in quest'ora di espansione dell'anima mia, ti dirò pure cosa che ho con infinita cura nascosta a tutti quelli che potei, ed a voi miei amici più studiosamente ancora che ad altri, e cui potete accusarmi l'avervi nascosta. Ma tu, che mi ami più di tutti, tu avrai compassione della mia vergogna, e perdonerai alla mia debolezza.

– Parla, parla: disse Giovanni con molto affetto, corrispondendo alla stretta convulsa delle mani di Maurilio.

– Odimi adunque, esclamò questi, levando il capo ed agitandolo, come per iscuoterne un peso che lo gravasse; e così continuò il suo racconto:

«Ti ho già detto e ripetuto che Menico e Giovanna erano le due creature più avare di questo mondo. A me misuravano con tanta parsimonia il pane che avevo continua compagna la fame; a se stessi rifiutavano ogni cosa che passasse il necessario, ed anco questo riducevano ai più stretti limiti che sia possibile immaginare; sola eccezione faceva Menico per sè, quando si abbandonava all'ebbrezza. Una mattina di autunno Menico ne tornava dalla città secondo l'usato, che codesto non aveva mai voluto smettere di far egli stesso, per nulla fidandosi di me, quando sull'orlo della strada trovò un bel mucchietto di funghi che parevano mangerecci ed i più belli che fossero mai. Pareva che alcuno li avesse raccolti e poscia abbandonati colà. Al vecchio avaro a cui piacevan di molto, parve una buona ventura l'impadronirsene e farsene una corpacciata senza costo di spesa. Li prese, e recatili seco a casa, la Giovanna li fece cuocere, e se li mangiarono tutti con una ghiotta esultanza che nulla più. A me, non occorre pur dirlo, non diedero nè offerirono neppure un briciolo di tanta leccornia.

«Venuta la sera, se ne andarono a dormire che erano i più soddisfatti che fossero sotto la cappa del cielo. Io mi arrampicai a mia volta sopra il tavolato nella tettoia, che era definitivamente diventato mio abituro, e sulla paglia degna del canile che ci avevo colà non tardai ad addormentarmi. Avevo allora diciassette anni, lavoravo tutto il giorno più forse che non permettessero le mie forze, onde non è a dire se il mio sonno fosse profondo, duro e tenace.

«Quella notte certo alcun rumore dovette succedere nella stanza ove dormivano i due vecchi; forse chiamarono aiuto: Menico si levò e venne fino in sulla soglia per cercarne, e là di sicuro mi avrà chiamato colla voce già arrangolata dalla morte: ma io non udii nulla.

«Mi svegliai al mattino e mi stupirono forte due cose: che il sole battesse già sopra il fumaiuolo del tetto della casa, il che indicava esser l'ora più tarda di quella in cui ero solito a levarmi, e che Menico, come tutti gli altri giorni, non m'avesse fatto saltar giù al primo romper dell'alba. Il cane di guardia mandava tratto tratto un lamentoso ululato. Discesi in tutta fretta e quando fui nel cortile un miserando spettacolo mi si offerse. Menico giaceva bocconi sulla soglia della casa, il corpo mezzo fuori e mezzo dentro, immobile, le mani contratte, livide, irrigidite; e il cane sdraiatosi presso alzava di quando in quando il capo insù e guaiva dolorosamente come avevo udito fare quello del medico sulla fossa del suo padrone.

«Accorsi di slancio verso il giacente, chiamandolo per nome. Non sapevo che cosa dirmi di codesto, non avevo neppur travista tuttavia la tremenda verità, ma le gambe mi tremavano. Mi chinai su di lui, sempre chiamandolo e stupito non rispondesse, ne toccai le carni, erano fredde d'un gelo che mi fece correre per le vene un brivido ripulsivo di ribrezzo, feci a sollevarlo e lo trovai pesante come una massa di piombo. Un alto spavento si impadronì di me; gettai un grido e lo lasciai ricadere; il mio sguardo sgomento corse nell'interno della stanzaccia; la Giovanna giaceva traverso il letto, livida ed immobile ancor essa, riversa, le braccia ed il capo abbandonati, con certi occhi spenti, immoti, ma spalancati che parevano fissarmi con minacciosa insistenza. Gettai un altro grido, e fuggii di là tremante, smarrito, dissennato, le chiome ritte per orrore sul capo. Mi fermarono domandandomi che fosse, avvisati dal mio aspetto medesimo che alcuna grave cosa era avvenuta. Io non sapeva che rispondere, non potevo che dire: – Menico e Giovanna… là… là… andate a vedere.

«Si accorse, in pochi minuti tutto il villaggio era colà, e sapeva che i due vecchi erano morti repentinamente d'una inesplicabil morte. Ora ciascuno voleva spiegarsela questa morte. Il caso aveva voluto che due giorni prima Menico e Giovanna mi maltrattassero più ancora dell'usato; ed io, che pensavo sempre più a fuggirmi di là, mi ero lasciato scappar di bocca in presenza di qualcheduno le parole, che non sempre le cose sarebbero andate di quella guisa e che avrei ben saputo un giorno o l'altro sottrarmi a quella vita da galeotto. L'occhio morto della Giovanna che mi aveva odiato e che io certo non amava, mi faceva paura; non osavo entrare in quella stanza, e per quanto mi facessero e dicessero, non lo volli mai; la mia agitazione, il mio turbamento in faccia a quella morte inaspettata erano indicibili. L'idea mi era venuta, che alcune volte, nei momenti di mio maggior dolore, io aveva pur pensato alla mia liberazione per questo modo fatale e quasi con desiderio; ora innanzi a questo fatto tremendo quel pensiero mi pareva un delitto ed io doveva aver di certo sul volto l'impronta del rimorso. Cominciai ad accorgermi che mi si guardava con sospetto, che le donne susurravano piano fra di loro, accennando verso di me, che se ne allontanavano con ribrezzo. Non capivo ancora; ma me ne sentivo inquieto. Venne la giustizia. Esaminò, interrogò anche me – che risposi il più impacciatamente e confusamente che fosse possibile. Il giudice poco accorto e poco istrutto del suo dovere eziandio, non fece procedere ad autopsia dei cadaveri nè ad altro; diede ordine i morti si seppellissero, ed iniziò contro di me processo per omicidio.

«Tutto mi accusava: le parole che avevo detto, il mio contegno, lo sgomento che provai all'udire la taccia appostami, l'antipatia stessa che ispiravano altrui la mia condizione disprezzata, la mia indole scontrosa, il mio umore superbo e vago di solitudine che mi faceva fuggir tutti e rispondere con asprezza all'oltraggio. Tutti mi credettero reo, da Don Venanzio in fuori, al quale protestai della mia innocenza, ma non seppi dar ragione del fatto.

«La casa e le sostanze di Menico e di Giovanna cadevano in mano a certi loro congiunti, i quali erano troppo lieti di succedere e di potersi sbarazzare di me senza aggravio nessuno; e quindi erano i più furibondi nell'accusarmi.

«Io fui arrestato, ammanettato e condotto in carcere a Torino. Quando n'ero uscito, infante, era d'inverno, e mi recava sobbalzando il carro d'un lattaio; ora, dopo diciasette anni, rientravo in questa città, di sera, in una fosca giornata di autunno, sopra il carro d'un conduttore di ghiaia su cui mi si era fatto salire, perchè l'emozione e la vergogna mi avevan tolta ogni forza da poter camminare, scortato da due carabinieri.

«Ero così abbattuto dell'animo che non sapevo guari come e se vivessi. Quasi non avevo più coscienza di me; direi che non sentivo più nell'interno l'anima mia. Solo un gran sentimento di vergogna mi dominava. Nessuno mi conosceva in questa città a cui mi accostavo; nessuno sapeva pur che esistessi fra quella gente in mezzo a cui passavo; e parevami che sopra ogni parete di quelle case, sopra ogni volto di quelle persone leggessi la mia condanna, il mio disprezzo.

 

«La notte era già scura quando giungemmo. I lampioni accesi mi parevano macchie sanguigne nella tenebra notturna; sentivo un'aria soffocata come sotto una volta bassa ed angusta; il rumore delle strade mi suonava doloroso nel cervello, provai ciò che descrive Dante aver provato nell'affacciarsi alla «valle dolorosa.» Il carro si fermò in una viuzza stretta e scura; fui fatto discendere, mi si fece passare per una porta, poi per diversi anditi e salire diverse scale; dinanzi e di dietro a me mi veniva accompagnando il rumore fastidioso di chiavi agitate, di serrature che si aprivano e si richiudevano ad ogni volta, di catenacci che si toglievano e rimettevano con fracasso, di porte pesanti che cigolavano sui loro cardini, schiudendo il passo, e battevano con cupo rumore risserrandosi.

«Io andava guidato da un gruppo di persone che non sapevo quali, e neppur quante fossero. Pensandoci poi mi venne ricordato che mi avevan fatto fermare in una stanzuccia, innanzi ad un tavolino a cui sedeva un uomo, che mi fu chiesto il mio nome cui non seppi nemmeno balbettare, che i carabinieri avendo risposto per me, quando pronunziarono la parola trovatello, quest'uomo seduto mi saettò in volto uno sguardo incisivo, ironico, insultante, e pronunziò un'esclamazione che pareva dire: – Me lo aspettavo; ecco un abitatore predestinato di questi luoghi; che finalmente fui spinto in uno stanzone appena se illuminato da una lucernetta appiccata in alto alla parete di faccia all'uscio e una voce mi disse: – Guardate d'aggiustarvi lì dentro: per questa notte starete senza pagliericcio che non abbiamo tempo da procurarvelo, ma alla bella meglio, o qua o colà, fate di dormire.

«E la porta pesante si chiuse alle mie spalle con un lugubre suono.

«Io rimasi là dove m'avevano spinto, immobile, coi piedi piantati su quel quadrello dove si trovavano. La lucernetta fumosa, con un lucignolo che era un carbone, rischiarava a stento il locale. Vedevo delle forme che non sapevo ben discernere a tutta prima, stese in linea ordinata appiè delle due pareti laterali. Un'afa gravosa, piena di acri vapori e di cattivi odori, qual può esser quella d'un luogo chiuso in cui gli aliti impuri di troppa gente raccoltavi, mi serrava alla gola e mi rendeva difficile e penoso il rifiato, a me che ero avvezzo alle pure aure dell'aperta campagna. Un romore di voci rauche discorrenti con accompagnatura di violente bestemmie sorgeva di qua e di là, e frammischiatovi il russare profondo di qualche addormentato.

«Alcuni dei prigionieri all'udire aperto l'uscio s'erano levati a sedere sullo strammazzo su cui giacevano ed avevano guardato curiosamente chi fosse il nuovo compagno loro dato a quel punto.

«Ben mi era apparso che parole di scherno e di schifosa fratellanza, oltraggiosi saluti di buona venuta mi accogliessero, ma la mia mente confusa e smarrita non comprendeva bene. I più, squadratomi un poco, s'eran tornati a risdraiare, non curandosi altrimenti dei fatti miei; alcuni seguitavano a guardarmi con curiosa insistenza, ed io vedeva i loro occhi accesi o grifagni a me rivolti splendere nello scuriccio di quello stanzone d'una luce sinistra e maligna.

«Dopo alquanto tempo che io era colà, dato giù alquanto il tumulto che aveva luogo nella mia testa, potei udire questo dialogo:

« – Gli è un poverino d'un piluccaborse per sicuro, quel cazzatello intormentito: diceva una voce grossa e rauca non molto da me lontana.

« – Non ho mai visto quel muso lì, io che conosco dal primo all'ultimo tutti quelli che lavorano a Torino, soggiungeva un'altra voce esile e sottile che pareva di donna, eccetto che tratto tratto usciva in qualche nota da basso profondo. Di certo quel ragazzo non ha mai posto piede nella bettola di Pelone.

« – È vestito come un paesano del contado.

« – Sta a vedere che gli è un ladro di campagna.

« – Mi ha tutta l'aria d'un rimminchionito.

« – Bisognerà farlo cantare… A me, a me che gli vo torre il filo della camicia.

«Così disse quel della voce esile e dirizzando poscia il capo verso di me, fe' con esso un cenno di richiamo:

« – Ohei, martuffino, figliuolo d'una versiera, dà un po' retta qui.

«Io lo guardai: gli occhi piccoli, irrequieti, malignamente vivaci di colui che mi parlava – un omicciattolo mingherlino, collo stampo di tutti i vizi sulla faccia degradata e i bernoccoli di tutte le più brutte passioni sul cranio raso di capelli – quegli occhi mi fecero rabbrividire. Chinai lo sguardo innanzi al lume sinistro di quegli occhietti e mi sentii tutto invaso da una penosa suggezione, da un profondo timore, da un insuperabile ribrezzo.

« – Sei tu muto o scemo, caro il mio bamboccio da forca? Riprese quel cotale. Vieni un po' qua che facciamo conoscenza, poichè siamo alloggiati alla medesima osteria.

«Io nè mi mossi, nè feci motto.

«Egli allora si levò a sedere.

« – Oh oh! esclamò: gli è un sordo e muto, nato e sputato: ma sta a vedere, Stracciaferro, che io fo il miracolo di guarirlo in un momento.

«L'omaccione della voce grossa e rauca si pose supino sul suo stramazzo, colle mani intrecciate sorreggendosi di dietro la testa, e disse ridendo sguaiatamente.

« – Vediamo un po' i tuoi miracoli, Graffigna.

«Quest'ultimo tornò a sdraiarsi, poscia strisciando come una serpe sul pavimento ed allungandosi in modo straordinario delle membra, mi sparò in uno stinco a tutta forza un calcio col suo piede armato d'un pesante zoccolo di legno, munito di chiodi di ferro.

«Il dolore che ne provai fu più forte d'ogni altro sentimento, più forte del mio orgoglio e della mia volontà. Diedi un grido, le gambe mi mancarono sotto, e caddi per terra là dove mi trovavo. Credetti per sicuro avere lo stinco spezzato. Le lagrime mi vennero agli occhi e non potei avere più tanta forza in quel momento da ricacciarle indietro o da nasconderle.

«L'omaccione sghignazzava a gola spalancata, come della più piacevole facezia che avesse visto mai; l'acuto mio grido aveva svegliato qualche dormente, il quale brontolava del sonno interrotto e mi mandava ai cento mila diavoli: Graffigna esclamava in tono trionfante colla sua voce in falsetto.

« – Ve', se l'ho saputo toccar nel debole!

«Quello scellerato, trascinandosi sempre per terra a guisa di rettile, mi si venne accostando. Sentivo una paura ed un abborrimento da non dire. Avrei dato non so che cosa per potermene allontanare. Provai ad alzarmi, e il dolore non me lo consentì.

« – Là là: diss'egli: non muoverti, non agitarti, sta buono, bell'amorino da galera. Questo non è altro che un piccolo ammonimento, che quando Graffigna ci parla bisogna rispondere. L'hai capito eh?

«Mi pose una mano sull'avambraccio; e quel contatto mi fece fremere.

« – Non toccatemi… lasciatemi stare: gridai con vero terrore tirandomi in là più che potessi.

«Ed egli trattenendomi:

« – Sta buono che non ti voglio mica mangiare; se tu fossi un pezzo di prosciutto… meno male!

«Mi cacciò impudentemente le mani addosso e mi palpò con isfacciato cinismo.

« – Sei magro come un'acciuga. Che cosa faremo di te qui dentro? Sei buono nè da questo nè da quello.

«Dirti il ribrezzo che provavo è impossibile, eppure stavo là passivamente sotto lo schifoso toccare di quelle luride mani, incapace com'ero diventato assolutamente di muovermi.

« – I birri, t'avranno frugato ben bene, continuava Graffigna, e non t'avranno lasciato neppure la croce d'un centesimo, non è vero? vediamo un po'. (E mi frugava con una destrezza insuperabile). Se lo dicevo! Asciutto come un fiasco che è passato per le mani di Stracciaferro. E tu, povero coso, non avrai saputo mettere in salvo tanto da pagarci la buona venuta… E qui dentro, in un modo o nell'altro bisogna pagarla; e se non hai denaro la pagherai colle opere… Questo te lo dico io.