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La plebe, parte I

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– O cielo! Che di' tu?.. Ah no, per amor di Dio!.. Oh vorresti tu troncar ad un colpo due vite?.. A me non pensi, crudele!.. A me che tutto ho posto in te, nell'amor tuo?.. Oh che non farei io per renderti dolce e cara la vita? Come? Il mio amore non potrebbe nulla, niente affatto per recarti pure un sollievo?.. Senti, Luigi, te lo dico dal fondo dell'anima mia, e tu devi riconoscere nel mio l'accento della verità… – Io son pronta a tutto per te. Vuoi tu che fuggiamo insieme per vivere ignorati e modesti in qualche solitudine lontana?

Luigi scosse mestamente la testa.

– Vuoi tu che chiuda l'uscio del mio salotto a tutti, che non compaia in nessun luogo più, che rinserri la mia vita qui in questa camera dei nostri ritrovi?

– No, no; ti ho già detto che forse te ne pentiresti un giorno di poi.

– Oh no, te lo giuro… purchè tu mi ami!

– Tua natura e tuo destino sono di brillare in mezzo agli sfarzi sociali fra cui sei nata. Perchè ti imporrei io il sacrifizio di sceverarti da essi? Continua nella tua carriera di luce: io ti seguirò finchè mi basteranno le forze.

Per quella volta siffatto colloquio non ebbe altra conclusione; ma la contessa si partì di colà con una spina nel cuore. Luigi per causa di lei trovavasi costretto a penosi imbarazzi finanziari, ed ella voleva ad ogni modo venire in suo soccorso. A questo intento cercò di avere a sè l'uomo che serviva il medichino: una strana faccia che a primo aspetto ti pareva da melenso, a chi lo esaminasse per bene compariva da mariuolo. Questa figura avreste potuto vedere nella bettola di Pelone, entro quella camera riservata dalle tendoline rosse ai cristalli dell'uscio, far parte di quella specie di sinedrio, in mezzo al quale ci è apparso la prima volta il compagno d'infanzia di Maurilio; ed allora non lo avreste visto verso Gian-Luigi nelle relazioni di domestico a padrone, ma di pari a pari, con alcuna deferenza però come a capo, a cui il proprio consentimento ha accordata una certa autorità.

Questo pseudo-servitore, certo d'accordo col giovane, dopo finto mille tergiversazioni e mille ritrosie, si lasciò strappare dalla contessa il segreto cui aveva una gran volontà di svelarle: che cioè Luigi era perseguitato per alcune cambiali in iscadenza da certi creditori, i quali poi facevano tutti capo ad un famoso usuraio, primo di tutti gli usurai, quel falso sant'uomo di messer Nariccia.

La contessa non rimase guari a prendere la sua decisione, volle vedere essa stessa questa tremenda arpia che, a detta di quel domestico, aveva in pugno la sorte e la libertà del suo Luigi; e siccome la non voleva che un simile personaggio entrasse nel palazzo Langosco, un dì, vestita di scuro eziandio e colla veletta fitta in sugli occhi, come quando recavasi agli amorosi convegni, ella fu a visitare l'ipocrita usuraio, la cui abitazione già conosciamo pel racconto di Maurilio.

La gita della contessa al covo di Nariccia non si rimase pur troppo ad una sola. Di quando in quando la fronte annuvolata di Luigi, la parola sarcastica, alcune maledizioni alla sua sorte, ammonivano la povera Candida che qualche nuova difficoltà finanziaria sbarrava il cammino al suo amante: ed una volta appresa la strada della casa dell'usuraio, non c'era più ragione per tenersi dall'accorrere a cercare colà il rimedio al male e la salvezza pei pericoli che minacciavano il suo diletto.

Le sostanze della figliuola del barone La Cappa consumavano intanto come un mucchio di neve al sole, assalite dall'una parte dall'amante, dall'altra dal marito, il quale non aveva bisogno di alcun diretto intervento della moglie per ispiccare e fondere al crogiuolo del giuoco, i buoni pezzi di quella fortuna, stante la procura generale ch'egli aveva ottenuta da lei nel modo che abbiam visto.

Ah! se il padre di Candida avesse mai saputo una cosa simile! Ma in ciò andavano pienamente d'accordo marito e moglie, che ogni cautela era da loro adoperata per nascondere la verità al barone, il quale viveva felice nell'orgoglio di esser padre d'una contessa il cui blasone era stato in Oriente al seguito del Conte Verde.

Fra il conte e il dottor Quercia le cose andavano di pieno accordo e il più quietamente che mai. Amedeo Filiberto aveva in realtà posto una certa affezione – l'affezione che può dare l'anima aridissima d'un vecchio libertino, tipo di perfetto egoista – in quel giovane che all'occasione era comparso così coraggioso, che mostrava in tutto che facesse tanta destrezza, che in compagnia era sempre così allegro, che si vantaggiava d'una distinzione naturale di maniere da parere poco diverso da un gentiluomo allevato sotto l'ali di una primogenitura, che aveva la squisita abilità di perder quasi sempre quando giuocasse contro il marito della contessa Candida.

E da questa buona e domestica attinenza col conte di Staffarda, il medichino tirava per intero quel vantaggio appunto che aveva avuto in mira, di fare cioè rispettare entro certi limiti dalla curiosità e dalle investigazioni della Polizia il mistero della sua vita. Quest'argo dai cento occhi, al quale è pure così facile accecarne cento e uno, aveva bensì rivolta la sua attenzione a due personaggi che in due sfere affatto diverse e così lontana l'una dall'altra, le si presentavano col velo d'una specie di enimma; e questi due personaggi erano il medichino della bettola di Pelone e l'elegante dottor Quercia del salotto della contessa Langosco. Del primo non avevansi che in nube alcune confuse nozioni che potevano lasciare in dubbio perfino sulla realtà dell'esistenza di quell'individuo, il quale appariva quasi un mito nella sua qualità di centro, ispiratore e direttore di ogni fatto di quella sorda guerra di delitti che muovono all'ordinamento sociale, alla proprietà ed alla sicurezza dei cittadini la miseria, il vizio e l'ignoranza della canaglia. Per quanto accortamente e con lusinghiere promesse si fossero interrogati tutti i soldati di quell'esercito di reietti che cascassero nelle mani della forza pubblica, intorno a quell'essere misterioso, da nessuno mai erasi potuto ottenere una risposta che mettesse sulle sue traccie; per quanto accurate indagini si fossero fatte, per quanta abilità ed audacia di spie ed esploratori si fosse adoperata, non si era potuto far capo a scoperta nessuna, e quell'individuo rimaneva pur sempre nelle nebbie d'un mistero impenetrabile, tanto che lo stesso commissario Tofi, espertissimo poliziotto, non credeva alla esistenza di lui. Ma ben credeva ad essa il più fine e destro segugio che avesse allora la polizia torinese, quel Barnaba che abbiam visto nella taverna di Pelone.

Del dottor Quercia conoscevasi l'elegante quartieretto che abitava in una delle strade principali della città, conoscevasi il modo dispendioso di vita, sapevasi la sua abitudine e la sua fortuna forse soverchia al giuoco, dal quale credevasi attingesse i mezzi di quella splendida esistenza; ma quando la curiosità della Polizia aveva voluto penetrare più in là nei fatti di lui, erasi trovata impacciata dalla qualità delle attinenze che il giovane aveva nella classe più elevata e che allora era onnipotente nella società torinese.

Gl'impiegati di Polizia erano poveri plebei che troppo temevano dover perdere l'impiego quando eccitassero lo sdegno di un nobile protettore di qualcheduno. La vessazione di quella Polizia, che non rispettava quasi nulla di ciò che avrebbe dovuto essere rispettato, si arrestava innanzi al timore di poter disgustare il marchese tale o il ciambellano tal altro. Come osar commettere un atto arbitrario in danno d'uno che viveva intimamente col conte di Staffarda, col marchesino di Baldissero, col contino di San Luca ed altri parecchi di simil razza? E senza un atto arbitrario si era già belli e certi, dalla sorveglianza che per alquanto tempo si era esercitata su di lui, che non si sarebbe potuto giungere a scoprir nulla sul conto del sedicente dottore, tanto erano in sembianza regolari e tranquilli gli atti della sua apparente vita abituale.

Ben si era tentato insinuare nella testa dura del conte Barranchi, generale dei Carabinieri, e quindi a quel tempo capo supremo della Polizia, alcuni sospetti riguardo a quel cotale, per eccitarlo a coprire della sua potente risponsabilità alcuni dei soliti atti illegali da farsi verso di lui. Ma il conte Barranchi per coprire una carica di sì delicata natura non aveva altre qualità che la superbia e la prepotenza. Alle prime parole fattegliene, aveva detto a suo modo, coll'accento di un comando militare:

– Arrestatelo!

E poi all'osservazione che glie ne venne espressa, che quel giovane era famigliarissimo dei tali e tali:

– No, cospetto; s'era affrettato a gridare: lasciatelo in pace… Aspettate!

Quindi tenutosi per cinque minuti nella mano il suo mento quadrato in attitudine di profonda meditazione, aveva soggiunto:

– Ne parlerò io col conte di Staffarda. Non prendete nessuna deliberazione ed aspettate i miei ordini.

Il conte Langosco, quando il generale avevagli manifestato i sospetti dei suoi agenti intorno al dottor Quercia si pose a ridere di tutto cuore.

– Che cosa vi salta per la testa? Aveva risposto. Credete voi che io voglia ammettere nella mia famigliarità un truffatore o un congiurato o un qualche cosa di peggio? Quel bravo giovane è una persona ammodo, a cui sarei dolentissimo se arrecaste il menomo fastidio.

– Basta, basta! Aveva risposto il famoso conte Barranchi, altrettanto arrendevole verso i potenti, quant'era duro ed intrattabile coi deboli. Poichè voi, conte, me ne parlate in questa guisa, non ho più nulla da dire.

A tutti gli agenti fu dato ordine di non molestare menomamente in nessun modo diretto, nè indiretto il dottor Luigi Quercia.

Non ostante codesto uno di quegli agenti non si era tuttavia affatto persuaso che sotto la esistenza del pseudo-dottore non ci fosse un mistero, e che questo mistero non interessasse la Polizia; e questo agente era quel tal Barnaba, il quale esercitava il suo mestiere con una vera passione, di quella guisa che un valente artista professa la sua arte. Egli per un istinto della sua natura di poliziotto, per una inspirazione del suo ingegno attivissimo ed eminente in quest'ordine d'idee, era presso che sicuro nel suo intimo come l'elegante dottore e l'incognito medichino fossero una persona sola. Certo non faceva egli nulla che potesse motivare rimostranze e richiami del dottore, e quindi suscitare la collera del conte Barranchi; ma non cessava di tenerlo d'occhio; e per quanto le apparenze della vita e della condotta del signor Quercia fossero innocenti, per quanto impossibile fosse il cogliere in fallo quell'individuo, Barnaba non si stancava di vegliare e dubitare. S'era persuaso anzi che fra sè e quel cotale intravveniva quasi una tacita lotta, Quercia per sottrarsi alle ricerche di lui e renderle frustranee, egli per penetrare in quel segreto che si ostinava a supporre nella vita del sedicente dottore.

 

Laonde quando, la sera del ballo dell'Accademia Filarmonica, Barnaba ebbe notato Maurilio, alla vista del dottore, fare un atto di sorpresa, da cui il poliziotto argomentò che fra quei due correva alcuna attinenza, pensò egli subitamente che in quel giovane, ancora sconosciuto, incontrato dapprima nella bettola di Pelone e poi sotto l'atrio del palazzo in cui aveva luogo la festa da ballo; che in quel giovane, dico, la sorte gli aveva forse presentato un bandolo per penetrare nel fino allora chiuso mistero della vita e del passato del signor Quercia.

Quindi lo aveva ormeggiato; e, come ho narrato, s'era Barnaba intromesso nella loggia della portinaia in quella casa ove abitava Maurilio coi suoi amici. Ma prima di riferir qui il colloquio che intravvenne fra il poliziotto e la portinaia, occorre ancora che ci soffermiamo nelle splendide sale in cui aveva luogo la festa da ballo.

CAPITOLO XXVII

Quella sera, al ballo dell'Accademia filarmonica, il conte Langosco, dopo avere per un po' di tempo tenuta in iscacco la fortuna del giuoco, n'era affatto vinto e perdeva a rotta di collo. Quel mucchio di monete che al cominciare del capitolo XXII gli abbiam visto allato sul tappeto verde del tavolino, era sparito affatto e da alcuni minuti il conte giuocava su parola. La sua faccia non era mutata per nulla; soltanto un po' più pallide forse si sarebbero potute dire le sue guancie, un po' più accesi gli sguardi, più ironico il sogghigno; ma l'urbanità elegante del tratto, era, se fosse stato possibile, ancora maggiore del solito.

La contessa sua moglie, appoggiata al braccio ora di questo ora di quel cavaliere, era già venuta due volte fino presso ai giuocatori con una aria che avreste detta inquieta, come di chi cerca e non trova, aspetta e non vede arrivare. Ella cercava, ella attendeva il suo amante, il quale tardava di troppo dopo la promessa fattale di venir sollecitamente alla festa.

Amedeo Filiberto, ad ogni volta aveva salutato con amichevol cenno la moglie e rivoltole alcune indifferenti parole in francese:

– Avete voi ballato? Siete già stanca di ballare? Vi occorre qualche cosa? Fa caldo, non è vero?

Ed altrettali simiglianti.

La terza volta che Candida, accompagnata dal conte San Luca, ricomparve presso al tavolino dove suo marito aveva perduto tutto il denaro recatosi allato e stava perdendo con implacabile persecuzione della sorte, Amedeo Filiberto le disse con isquisita galanteria:

– Ah sì, venite un po' qua, contessa, a recarmi fortuna. La vostra benigna influenza sopravanzerà, ne son certo, questo maledetto guignon che mi sta addosso.

Candida s'accostò con un cotal suo sorriso d'accatto che mostrava come la sua mente fosse a tutt'altri pensieri rivolta e venne ad appoggiare il nudo suo braccio bellissimo, bianco e ben tornito alla spalliera della seggiola del conte. Colà il suo sguardo seguitava a scorrere per tutta la sala ad ogni tavoliere, come se ad uno di essi dovessero pur finalmente apparirle quelle sembianze che finora aveva in tutta la festa cercato inutilmente.

Langosco prese sbadatamente le carte che gli venivano distribuite in quella, ed il valore delle quali decideva di qualche centinaio di lire; le guardò con un'apparente indifferenza e le ripose coperte sul tappeto della tavola. Nella sua mano si sarebbe potuto notare quel certo tremito nervoso che ho detto.

Mentre il banchiere distribuiva le carte agli altri puntatori e le prendeva per sè (giuocavasi al nove), Amedeo Filiberto si volse al conte di San-Luca per domandargli con tono affatto naturale di voce:

– Non avete voi veduto il dottor Quercia?

– No: rispose San-Luca.

Candida piegò gli occhi verso il marito senza nessuna esitazione, senza nessun impaccio e disse:

– Non è ancora venuto. Credevo anzi trovarlo qui, perchè è più facile lo attiri il giuoco che non la danza…

– Ah voi calunniate la sua galanteria e il suo buon gusto: interruppe scherzosamente il conte. Il diletto del giuoco, sta bene per noi attempati, ma per un giovinotto la musica, la danza, la compagnia e la conversazione delle belle signore…

– Otto! Gridò il banchiere abbattendo le sue carte che facevano il numero detto.

Il conte Langosco gettò nel mucchio colle altre le sue carte dicendo freddamente:

– Ho perso; e se la consente raddoppio la posta.

Il banchiere fece un segno affermativo del capo.

– Cara contessa: riprese Langosco sorridendo con quella sua espressione che pareva sempre una ironia; la fortuna non vuole lasciarsi commovere nemmanco dalla vostra presenza, o piuttosto dove siete voi stima superfluo il venire ancor essa.

– Vuol dire che mi mandate via?

– No. Tutt'altro! non vorrei rubarvi di troppo al piacere di ballare ed all'ammirazione altrui.

– Ah! ecco il dottore! Esclamò ad un tratto Candida, la quale non potè tanto dissimulare che un lieve rossore non le corresse alle pallide guancie.

– Ah sì? Fece il conte alzando il viso e guardando al di sopra dei coprilumi colle ciglia serrate a suo modo.

Gian-Luigi si avanzava il cappello a schiaccia sotto l'ascella, guardando attentamente di qua e di là. Pareva, e forse era una finta, che non avesse visto nè il conte nè la contessa, ed il suo passo dirigevasi ad altra parte, quando il marito di Candida lo interpellò:

– Eh dottore, arrivate pur finalmente.

Quercia venne sollecito al tavolino dov'era il conte: salutò e strinse la mano a Candida, a Langosco ed a San-Luca.

– Arrivo tardi, non è vero?

– Oh sì: disse Candida lanciandogli un'occhiata di rimprovero.

– Sì proprio: soggiunse il marito con un accento che avrebbe potuto sembrare bonarietà a chi non conoscesse l'indole di quell'uomo.

– Spero tuttavia d'essere ancora a tempo per danzare una polka colla signora contessa, e per giuocare una partita con lei, conte.

– Sicuro; disse vivacemente Langosco. L'aspettavo appunto per codesto.

– Vorrebbe Ella mettere il giuoco innanzi alla nostra polka? Domandò la contessa, i cui occhi neri seguitavano a saettare rimproveri all'amante.

– Certo che no; e quando siasi ch'Ella voglia favorirmi…

– Subito: ecco appunto l'orchestra che incomincia a suonare.

Luigi offrì il braccio alla contessa, la quale vi pose sopra la sua piccola mano inguantata.

Amedeo Filiberto alzò il capo e scoccando verso di loro uno di quei suoi sguardi pieni di malizia, disse a Quercia mentre si allontanava colla contessa:

– La non si dimentichi nelle delizie della sala da ballo la promessa della nostra partita.

– Fra venti minuti sarò a mantenere la promessa: rispose Gian-Luigi, ed uscì con Candida avviandosi al gran salone.

– Perchè sei venuto così tardi? Domandò senz'altro la contessa appena allontanati di là, con molta passione. Dove sei tu stato? Mi avevi promesso di venir presto.

– Non l'ho potuto per certi affari che mi capitarono: rispose Gian-Luigi con una tranquillità che lasciava scorgere una certa impazienza ed un fastidio per queste domande.

– Che affari? Tu non hai altri affari che i tuoi sollazzi.

– Ah contessa! Disse Luigi guardandola ironicamente. Voi siete troppo curiosa.

Candida arrossì, e stringendo forte il braccio a cui si appoggiava disse all'orecchio del suo compagno:

– Lo sai che sono gelosa, lo sai che soffro immensamente pensandoti con altre… Dimmi il vero. Tu sei stato da quella donna?

Quercia scrollò lievemente le spalle. Intanto erano giunti nella sala in cui passava col bisbiglio delle conversazioni a mezza voce e col fruscio delle vesti delle signore, il serpente della queue.

– Vuole che prendiamo posto nella queue? Disse Luigi alla contessa.

Questa lo trasse bruscamente indietro e lo guidò in un'altra stanza, dov'era meno frequente la folla.

– Che, tu pensi ch'io voglia ballare? Diss'ella con accento di rampogna, in cui c'era anche dolore. Sediamoci qui in quest'angolo, dove potremo parlare più liberamente e discorriamo.

– Come la vuole: disse Gian-Luigi inchinandosi con fredda pulitezza.

In quel salotto non c'erano che pochi gruppi d'invitati. Sedute nella cantonata opposta a quella dove si recò la contessa Langosco, erano due donne, l'una attempata e l'altra giovanissima, che noi, tenendo dietro a Maurilio, abbiamo già visto uscire dal loro palazzo in carrozza e salire le scale dell'Accademia, voglio dire la marchesa di Baldissero madre del marchesino, e la nipote di lei, madamigella Virginia di Casatorsa, una delle più splendide bellezze in quei giorni della città di Torino.

Passando loro dinanzi la contessa di Staffarda aveva fatto un saluto, al quale la giovane aveva risposto con tutta grazia e gentilezza, la vecchia invece con un sussiego molto altezzoso e con un certo sguardo trascinato, per così dire, dalla contessa al compagno ch'ella aveva, nel quale sguardo eravi un complesso di cose – accusa e condanna.

Intorno alla marchesa ed alla bella nipote stavano alcuni giovinotti, fra cui il giovane che abbiamo già conosciuto sotto il nome di Francesco Benda.

Candida sedette e fe' cenno a Luigi le sedesse dappresso. Questi obbedì.

– Rispondimi: prese a dir tosto con accento concitato e volto acceso la contessa: e rispondimi il vero: tu sei stato da quella donna?

– Che donna? Domandò Quercia giocherellando sbadatamente colla catena e coi pendagli che gli luccicavano sul nero panciotto ricamato; ed intanto tenendo il suo sguardo fisso sul gruppo di persone che si trovava dall'altra parte della sala, in mezzo al qual gruppo splendeva, per così dire, la perfetta beltà della contessina Virginia.

– E mi domandi quale? Sai bene a cui alludo. A quella zingara, a quella perduta…

– Non vi scaldate cotanto, contessa: disse tutto pacato Gian-Luigi. È bene teniate a mente che qui non siamo soli e che il vostro sembiante concitato può far nascere sospetto sul tenore del nostro dialogo e curiosità in altrui di udirlo, e che la indignazione con cui parlate dà alla vostra voce tanta forza da poter soddisfare quella curiosità più che non convenga.

Candida si morse le labbra, tacque un momento innanzi all'aspetto sorridente di Luigi, il quale parlavale colla guisa con cui si dicono i complimenti e si sussurrano le galanterie alle signore; poi riprese abbassando la voce:

– Ma rispondetemi almeno.

– Cara contessa, voi mi avete fatta una di quelle domande che una donna non dovrebbe muover mai. Perchè mettere l'uomo che vi ama nella dolorosa condizione o di mentire, o di darvi un dispiacere?..

– Ah dunque voi siete stato colà? Proruppe la contessa i cui occhi lampeggiarono.

– No, questa volta non ci fui, ma avrei potuto benissimo esserci andato, come mi avvenne per l'addietro e mi avverrà ancora per l'avvenire…

Candida si gettò verso lo schienale del sofà dove sedeva, allontanandosi così da lui che le parlava chino verso di essa.

– Ah Luigi! Diss'ella con voce turbata da non lieve emozione, voi siete crudele.

– No, sono sincero. Del pari che vi dico di avere un certo interesse a continuare quell'attinenza, vi affermo che al presente non c'è nulla fra me e quella donna, che possa rassomigliare ad un rapporto amoroso.

– Al presente? Esclamò Candida con amarezza.

– E non vi basta? Del passato che cosa vi deve importare?

– Sì, m'importa. Vorrei poterlo distruggere tanto bene che non ve ne rimanesse pur la memoria. E poi chi mi guarentisce intorno l'avvenire?

– Eh! che queste rifritture io non le faccio più.

La contessa si ridrizzò della persona con un sobbalzo.

– Ah! voi confessate finalmente!..

– Confesso, confesso: disse Luigi impaziente.

 

– Non mi negaste finora di aver amato quella donna? Non mi diceste pur anco di averla voluta accostare soltanto per aver occasione di legarvi con mio marito?

– E così è…

– Menzogna! Voi avete mentito…

– Candida!

– Lo so di sicuro. Mi sono informata. E chi mi assicura che non mentirete nell'avvenire, che non mentiate anche adesso?

– Mia cara, torno a pregarvi a moderare la vostra voce e l'espressione della vostra fisionomia. Per quella dozzina di paia d'occhi che son qui, pensate che gli è tutta Torino che ci guarda.

– Luigi: riprese dopo un poco la contessa con accento quasi supplichevole. Tu mi dicesti più volte di amarmi.

– Sì, e te lo dico anche adesso.

– Ebbene, dammene una prova, che per me varrà più d'ogni qualunque dichiarazione e protesta.

– Che prova? domandò Quercia, tornando nella sua aria sbadata.

– Non andar più da quella donna…

– Eh via! Queste le son bambinate.

L'accento di Candida divenne affatto supplichevole.

– Contentami in codesto, diss'ella, mettendo la sua mano su quella di lui, te ne scongiuro.

Egli tolse via la sua destra e rispose con tono in cui cominciava ad apparire l'impazienza:

– Ti ho detto che avevo un certo interesse a continuare le mie gite in quella casa.

– Che interesse?

– Questo non te lo posso dire.

– Luigi, ti prego dal fondo dell'anima, dammi questa prova d'amore.

– Non posso.

– Io sono gelosa, lo sai, tremendamente gelosa di tutto e di tutte. Vorrei poter occupare io sola intiera la tua vita e la tua anima e il cuore. Sono gelosa anche del passato. Perchè sei tu venuto a destarmi quest'amore, se non volevi corrispondergli alla pari? Quando tu manifestasti alcun desiderio, non mi sono io affrettata ad acconciarmivi? Non ti domanderò nulla mai più; ma ora consenti a questo mio desiderio.

La fisionomia di Quercia era degna di nota in quel punto, chi avesse saputo esattamente osservarne la duplice espressione. Mentre le sembianze del viso erano atteggiate a quella graziosità un po' leziosa con cui si ascoltano dai vagheggini le parole di una bella signora, lo sguardo ch'egli faceva piombare sulla sua interlocutrice, era freddo, duro, quasi minaccioso.

– Via via, che cos'è questa insistenza? Se ti affermo che non hai nulla da temere in codesto, non ti basta?

– No. E come puoi tu esitare per sì poca cosa? Non ti ho io dato l'esempio di cedere a tutti i tuoi desiderii?.. Innanzi a quale sacrifizio ho io indietrato?

– Ah! ci siamo colla famosa parola dei sacrifici; che vuoi tu rinfacciarmi con essa?

La fronte di Luigi era solcata da quella tal ruga che conosciamo, e il suo occhio erasi fatto ancora più minaccioso.

– Nulla, nulla: s'affrettò a dire la povera donna quasi sgomentata. Non ti rinfaccio che una cosa sola… il poco amore che tu hai per me. Se tu mi amassi com'io t'amo, come forse meriterei, non esiteresti a fare a mio senno in quella poca cosa che ti domando.

– E lo farei se ne fosse il bisogno o ne valesse soltanto la pena; ma qui non accade nè l'una cosa nè l'altra.

Erano ancora in questi discorsi, quando il conte Amedeo Filiberto comparve sulla soglia aguzzando secondo soleva il suo sguardo per vedere entro la stanza. Vide dapprima la marchesa di Baldissero con intorno la schiera dei corteggiatori di sua nipote, e si diresse verso quella parte.

– Eh buon giorno, marchesa: diss'egli stringendole la mano. Voi state bene? Ne godo infinitamente. Madamigella Virginia, ricevete gli omaggi della mia servitù… Sapete marchesa che sono in via d'una spedizione da argonauto?

– Alla ricerca d'un vello d'oro?

– Alla ricerca di mia moglie.

– Ah!

La marchesa si morse le labbra per frenarvi l'epigramma che stava per iscoccarne.

– Non l'avete per caso veduta, marchesa?

– Sì: disse la marchesa mettendo agli occhi il suo occhialino a doppia lente per guardare intorno. Siete più fortunato che non vi meritiate. Eccola appunto là.

Amedeo Filiberto si volse: pose anch'egli nell'occhio il suo disco rotondo di vetro, che gli serviva da occhialino e guardò.

– Sicuro. La è là. Vi ringrazio, marchesa.

E andò senz'altro presso Candida e Quercia.

– Ah siete qui voi altri? Avevo bel cercarvi nel salone delle danze.

Luigi si alzò in piedi:

– Stia, stia comodo: soggiunse il conte. Siete stanca di ballare, contessa?

– Sì: rispose asciuttamente Candida.

– Allora non avrete difficoltà di cedermi per un poco il vostro ballerino.

– Volete lasciarmi qui sola?

– Ecco la marchesa di Baldissero con un cerchio di cavalieri. Vi lasciamo in buona compagnia.

Candida si alzò ancor essa. Aveva una nube di tristezza e di contrarietà sulla fronte, parve voler soggiungere alcune parole, ma poi non disse nulla: gettò uno sguardo di indefinita espressione verso Gian-Luigi di cui il conte pigliava famigliarmente il braccio per trarlo seco e s'accostò lentamente alla marchesa di Baldissero.

– Caro Quercia, disse il conte, io non ho mai avuto la disgrazia che mi perseguitasse tanto quanto stassera. Ho perduto con una pertinacia impossibile. Ho bisogno d'una rivincita.

– E la viene da me per farsela dare: disse Gian-Luigi mezzo ironico, mezzo scherzoso.

– Vengo a domandarle aiuto e consiglio.

– Aiuto? In che modo?.. Vuol forse domandarmi in imprestito?..

Il conte non lasciò che finisse. Tolse via da quello del dottore il braccio che vi appoggiava su e disse con un vivo sentimento d'alterigia vestito però della massima cortesia:

– Oibò! Per cotesto so bene a cui rivolgermi. Il consiglio è questo. Devo io ancora ostinarmi ad affrontare questa diablesse d'una fortuna? Se sì, Lei che ha d'ordinario sì prosperi successi al giuoco…

– Fuorchè contro di Lei, che mi guadagna sempre: interruppe Gian-Luigi, guardando il conte con una cert'aria scrutativa e piena d'una finezza indescrivibile.

Il conte fece un cenno grazioso d'assentimento, e continuò:

– Vorrebbe Ella ammettermi socio nel suo giuoco, accettando come messa di fondi la mia parola? Ecco l'aiuto. Ma foi le ho detto tutto.

– Molto volentieri: rispose Luigi. Vado a far banca durante un'oretta e non più. I guadagni saranno a metà.

– Vado ad assisterla.

– No: disse vivamente il giovane. Preferisco esser solo a tagliare. Che vuole? È una superstizione da giuocatore. Se qualcheduno, anche un socio del mio giuoco, mi sta presso o tocca le carte, queste mi tolgono ogni loro favore.

– Starò colà come spettatore soltanto.

– Anzi, faccia a mio senno, punti contro di me. Se la perde ne sarà compensato nella divisione dei guadagni; se vince… tanto meglio per Lei.

Entrarono nella stanza dove si giuocava. Gian-Luigi scelse un tavolino, a cui il banchiere aveva le spalle al muro, così che nessuno poteva venirgli dietro, e recandosi colà, disse al signore il quale stava tagliando:

– Signore, avrei desiderio di succederle nella banca. Ha Ella intenzione di continuare ancora, o si acconcerebbe a rimettere il posto?

Il banchiere alzò il capo per guardare chi gli parlava a questo modo.

– Ah! gli è Lei, dottore. Se perdessi sarei pronto a lasciarle la mia seggiola per farle piacere: ma siccome sono in guadagno debbo a questi signori la loro rivincita.

– Non si dia pensiero di ciò. La darò io a suo luogo a chiunque voglia farmi l'onore di giuocare contro di me.

– Non ne dubito: disse alquanto seccamente il banchiere; ma ci tengo a far da me quel che mi tocca.

– Allora non c'è che un mezzo per aggiustarla: disse con un cortesissimo sorriso il dottore Quercia.

– Quale?

– Giuoco tutta la posta del banco e lo faccio saltare.

– Ah sì? E se invece la perdesse?

– Ripeterei il giuoco finchè mi riesca. Vuol Ella?

Il banchiere esitò un momentino: e poi la paura si dicesse aver egli indietrato per poco coraggio innanzi a questa sfida, lo fece acconsentire.

– Sia pure: diss'egli prendendo due nuovi mazzi di carte e rompendone l'involto.

Gli spettatori che attorniavano quel tavolino, interessati a quella specie di duello, fecero posto a Gian-Luigi, il quale venne a piantarsi in faccia al banchiere e non sedette neppure, ma puntandosi con una mano al tappeto verde, chinò alquanto la sua bella ed aitante persona e disse con tanta semplicità: