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La plebe, parte I

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– Ecco due mila lire in oro e otto mila in biglietti di banca francese13. Li vuole accettare?

Il banchiere fè cenno di sì colla testa, sbirciando i rotoli di marenghi e i pacchetti di polizze di banca che il suo avversario schierava innanzi a sè.

– Non so neppure, diss'egli, se il fondo della banca giunga a tal somma.

– Non importa; rispose con indifferenza Gian-Luigi. Se perdo, conteremo dopo; se guadagno io prendo senza contare.

Intanto il banchiere batteva le carte, e le sue mani tremavano un pochino, quantunque la sua faccia tenesse un buonissimo contegno. Quercia teneva fisso sul banchiere e sulle carte ch'egli maneggiava uno sguardo intento, vivo, imperioso, che pareva doverne imporre all'azzardo, cui non era possibile sostenere senza un certo disagio.

Dopo due minuti passati nel più alto silenzio, il banchiere pose innanzi al puntatore le carte perchè tagliasse.

Luigi fece attendere un momentino, perchè aveva ancora da levarsi il guanto paglierino che calzava la sua mano poco meno aristocratica che quella del conte Langosco. Poi la destra di Quercia, al cui annulare brillava uno splendidissimo diamante in una verga d'oro, si abbassò sui due mazzi di carte battuti e raccolti insieme, e ci stette alquanto, quasi come fa la mano d'un magnetizzatore che voglia far penetrare in un oggetto il misterioso fluido; quindi come per subita ispirazione prese il mazzo, lo battè alquanto egli stesso affrettatamente con tutta l'arte d'una mano esercitatissima e lo ripose sulla tavola. Il banchiere tornò a mescolare a sua volta le carte egli stesso: poi le ripose innanzi all'avversario: Luigi vi battè sopra con un colpo secco della mano e disse:

– Dia.

– Vuole che ne brucii?14.

Luigi fece un cenno negativo col capo.

Il banchiere esitò un momentino, come riflettendo a ciò che più gli convenisse, poi, tenendo il mazzo colla mano sinistra, prese colla destra un'alzata di carte e la gettò sul tappeto.

Poi gli occhi suoi interrogarono quelli dell'avversario, il quale rimase impassibile. Allora il banchiere diede le due carte al puntatore e ne prese due per sè. I giuocatori presero ambidue le loro carte raccolte nel concavo della mano in guisa che nessuno le potesse vedere e recatesele all'altezza dei loro occhi guardarono la prima e poi fecero scorrere la seconda lentamente oltre la compagna, per iscoprirne a poco a poco il numero dei punti, che è quello che chiamasi filar la carta. Nè l'uno nè l'altro manifestò la menoma impressione che questo esame avesse in loro prodotto. Quercia il primo posò sul tappeto le sue carte ricoperte e si diede a guardare con quel suo occhio penetrativo la faccia del banchiere. Questo eziandio depose le carte distribuitesi e prese in mano il mazzo. Stettero così mezzo minuto ad osservarsi.

– Son disposto a passare: disse poscia il banchiere.

– Io no: rispose freddamente Gian-Luigi; e rovesciando le sue carte scoprì un otto da fiori e un asse da quadri.

Il banchiere frenò un movimento di rabbia che gli fece sgualcire il mazzo che teneva in mano; sforzò le sue labbra ad un sorriso e si alzò tosto.

– A lei dunque, signor Quercia, il campo e le spoglie.

Gian-Luigi andò ratto a sedersi su quella seggiola che lo sconfitto aveva abbandonata.

– Signori: diss'egli togliendo dal taschino l'orologio colla catenella e i pendagli d'oro, e mettendolo innanzi a sè. Premetto che sia che io perda, sia che guadagni, non terrò la banca più d'un'ora giusta da contarsi cominciata in questo momento. Non rifiuto nessuna posta, ma pregherei a non volerne fare di minori d'un napoleone d'oro; quanto più grosse sieno, tanto meglio mi converranno. Il fondo di banca è di circa venti mila lire.

Prese in mano i mazzi abbandonati dal suo precessore e ne raddrizzò le carte state alquanto sgualcite: in quest'operazione pochissime carte gli scivolarono di mano e caddero in terra. Egli si chinò in fretta a raccoglierle.

– Io preferisco di molto tagliare con mazzi di carte non adoperati affatto, e benchè questi non sieno stati battuti che una volta sola, se loro signori lo desiderano, faremo portare degli altri mazzi, chè qui di intatti non ce n'è più.

– Quei lì possono servire benissimo: disse uno che per la passione del giuoco mal tollerava ogni indugio.

– Eh! se piace loro, piacerà anche a me: disse sollecitamente Gian-Luigi; e il giuoco incominciò.

La banca ebbe una fortuna costante. Pochi vinsero fra i puntatori; fra questi pochi il conte di Staffarda.

Trascorsa l'ora assegnata Gian-Luigi depose le carte, ricordò la promessa che aveva fatto, raccolse le vistose somme che aveva dinanzi a sè e lasciò intorno al tavolino i merli che gli era riuscito di bellamente spennare.

Il conte Langosco gli tenne dietro quasi subito.

– La serata è stata buona: gli disse Gian-Luigi che lo attendeva, e lo condusse seco nel vano d'un finestrone. Ecco dodici mila lire che le spettano come sua parte.

Amedeo Filiberto si trasse in là e non porse la mano a ricevere i rotoli di monete d'oro che l'altro gli porgeva.

– Un momento: diss'egli. Abbiamo da levarne quel tanto che ho guadagnato puntando.

– Eh via! Si ha manco da discorrere di queste cose. Abbiamo fatto metà dei guadagni, eccole la metà.

– Bene! Disse il conte con qualche malavoglia. Come la vuole. Ma se le tornasse più comodo, invece di darmi tutta la somma in numerario, mi dia pure di quelle polizze di banco…

– No: interruppe il giovane, il cui occhio si piantò entro quelli del conte con istrana acutezza scrutatrice: dei biglietti ne ho bisogno io per certe mie faccende.

Il conte prese i denari che Gian-Luigi gli offriva, e poi si partì da quest'esso per andar tosto a pagare alcuna di quelle perdite che aveva fatto su parola. Ma la sua fronte era alquanto annuvolata, e quei denari pareva che gli pesassero oltre il dovere nelle tasche. Aveva egli vergogna di aver acquistato in quel modo un capitale relativamente vistoso? di avere stretto quella società? C'era un po' di codesto, ma c'era anche in fondo in fondo un'ombra indefinita di sospetto, che per la prima volta gli si era affacciata, che la fortuna dell'elegante dottorino era stata troppa e troppo costante… un sospetto a cui non sapeva trovare fondamento di ragione, che si condannava esso stesso di avere, che se fosse mai stato manifestato da altrui, egli avrebbe vivamente combattuto, ma pure non poteva discacciare dall'animo.

Quei denari gli facevano veramente pena. Quando li ebbe dati a quelli di cui n'era debitore, si trovò più libero, ma non più soddisfatto. Mai denari vinti al giuoco gli avevano prodotto un simile effetto. Deliberò quando Quercia giuocasse di non prender parte mai più al giuoco nè contro a lui, nè dalla sua parte, ma di esaminarlo attentamente.

La superba marchesa di Baldissero fece appena un piccol saluto alla contessa Candida che venne a sedersele dappresso, e continuò la sua conversazione che aveva avviata con due vecchi militari pieno il petto di insegne cavalleresche, e piena l'anima di boria aristocratica, mentre vicino a lei la nipote era il centro d'un piccolo gruppo di cavalieri, fra i quali il solo Benda non era titolato.

La conversazione della marchesa pareva intesa a bella posta per ferire la moglie del conte di Staffarda. La si aggirava intorno alla sconvenienza di certe relazioni, che obliando il loro decoro, alcuni titolati consentivano a stringere nel mondo con gente da meno. La marchesa parlava a voce un po' più alta di quello che forse sarebbe stato strettamente necessario: e le sue parole avevano la fortuna di colpire due delle persone presenti: la contessa Candida e il borghese Francesco Benda.

– Sì, barone, diceva la marchesa continuando nel suo discorso: la massima dei nostri antichi è pur sempre quella che si deve seguire, chi vuole vivere dignitosamente e secondo le esigenze del suo stato: conviene stare ognuno coi pari suoi. Io, per me, j'enrage, quando vedo alcuno dei nostri farsi famigliare con tali che dovrebbero stare nelle nostre anticamere o poco più: o peggio poi quando vedo qualche dama così oublieuse del suo sangue da lasciarsi avvicinare e corteggiare da qualche figliuolo di non so chi, o notaio, o mercante, o va dicendo…

Candida sentì a suo dispetto una vampa di rossore salirle alla fronte; gettò sulla vecchia marchesa dalla faccia di pergamena uno sguardo che l'avrebbe voluta incenerire, e si diede ad annasare il mazzo di fiori che teneva in mano.

Le parole della marchesa di Baldissero erano arrivate anche alle orecchie di quei giovani che attorniavano madamigella Virginia, e profondamente avevano commosso uno di essi, il nostro amico Benda, ricco, ornato d'ogni maggior vantaggio dell'educazione, colle più eleganti e signorili apparenze, ma figliuolo d'un fabbricante. In quella società aristocratica, nella quale a forza di tentare e insistere era pur riuscito, se non a mettere stabile piede, a potervi fare delle incursioni, aveva pur sempre sentito presso tutti verso di lui, quel certo tono e quel fare che colla massima urbanità sa nulla meno chiaramente esprimere a colui col quale si usa: – Badate che io sono il tale de' tali e voi siete un nulla! – E molte volte aveva provato un ribollimento interno, che se non era tale da farlo inalberare violentemente contro quei modi, lo spingeva almanco a tutta forza ad abbandonare quell'ambiente e ritrarsene per sempre. Ma una catena troppo salda era quella che lo riconduceva, ancorchè riluttante, ad ogni volta: l'amore immenso, violento, al di sopra d'ogni possibil freno della ragione, una vera passione che gli aveva ispirata la impareggiabile bellezza di madamigella Virginia.

 

La sera di cui discorriamo, quella offensiva superbia aristocratica era già stata trovata maggiore ancora del solito dal povero Benda, il quale, malgrado la contraria risoluzione che prendeva ad ogni momento, non poteva trattenersi dal capitare presso la giovane aristocratica ed aggirarvisi sempre dintorno, proprio come intorno all'ardente fiammella fa la mal cauta farfalla.

Le parole della marchesa suonarono alle sue orecchie come un congedo sì evidente, che suo primo pensiero fu di allontanarsi senz'altro – beninteso per non ricomparir mai più, diceva egli fra se stesso. Ma non osò farlo di botto: quelle parole dette in un discorso particolare a cui egli non pigliava parte, dovevano passare come non udite da lui; e poi, fosse caso, o benigno proposito della nobil fanciulla dall'animo generoso, in quella la signorina gli rivolse la parola, e non glie ne parve un'illusione una maggiore gentilezza, quasi potrebbe dirsi dolcezza ch'ella aveva nell'accento e nello sguardo. Rimase; ma col cuore ulcerato e desiderando fra sè che uno di quei giovani sprezzanti gli desse una buona occasione di prendere la sua rivalsa.

Fra questi giovani nobili, il più acconcio a questo uopo era il cugino di Virginia, il marchesino di Baldissero. E con lui diffatti, come già sappiamo, avvenne la scena che interrottamente narrò ai suoi amici Benda medesimo.

I suoni d'un'aria di danza giunsero sino a quella più riposta camera ad avvisare i personaggi del nostro dramma, che si cominciava a ballare una polka.

Benda porse la destra inguantata alla giovane e le disse con un inchino:

– Ecco la polka che Ella mi ha fatto l'onore di favorirmi.

Virginia rispose con un sorriso, e sorse in piedi.

Il marchesino di Baldissero, fece un passo innanzi, come per mettersi frammezzo a sua cugina ed al cavaliere che le tendeva la mano.

– Pardon! Diss'egli con accento che nella sua apparente cortesia conteneva un'indicibile sprezzatura verso il Benda. Il signor avvocato avrà la compiacenza di aspettare un'altra polka perchè questa ha da esser mia.

Francesco volse verso il nobile uno sguardo che mostrava non domandar egli di meglio che trovare in quell'incidente l'occasione d'un conflitto.

– Questa compiacenza: diss'egli con tono in cui mal si celava il risentimento: questa compiacenza sarebbe veramente troppa, e non mi sento la forza di averla.

– Qu'est-ce à dire? Domandò il marchesino levando il capo e inarcando le ciglia.

La ragazza s'intromise colla sua dolce voce così melodiosa e col suo sorriso così soave:

– Veramente questa polka la ho promessa all'avvocato Benda.

– Ah benissimo! Esclamò Baldissero con impertinente indifferenza. Ciò non toglie che io non domandi di ballarne teco una parte.

La ragazza si volse verso il giovane borghese con un legger cenno del capo, come per dire che in lui stava l'accordare o il rifiutare codesto.

Benda ebbe un istante la tentazione di negare asciuttamente ciò che il marchesino domandava: ma mentre esitava nella risposta, il nobile si affrettò a prendere il suo silenzio come un consenso.

– Siamo dunque d'accordo. Dopo il primo giro, l'avvocato mi farà il favore di cedermi il tuo braccio.

Il borghese non seppe trovare altra risposta fuori quella di chinar lievemente la testa. I giovani si avviarono tutti alla sala da ballo, eccetto la contessa Langosco che si disse stanca e non volle accettar la mano che le offriva un cavaliere. La marchesa si volse e le disse sotto voce col suo accento mordente ed incisivo:

– Come? Ella preferisce star qui con me a tutti i trionfi della gioventù e della bellezza che le spettano?

– Preferisco gli ammaestramenti dell'esperienza che potrei attingere dalla sua conversazione s'Ella me la favorisce.

La marchesa la guardò d'alto in basso con aria sovranamente orgogliosa e fece frusciare il ventaglio aprendolo e chiudendolo colla mossa elegante con cui usava civettare leggiadramente venti anni prima.

– Ah sì! Ecco un sentimento che le fa onore. E difatti potrei dargliene parecchi di questi ammaestramenti di cui mi pare la contessa Langosco abbisogni.

– Nè v'ha chi sia meglio in caso di darli della marchesa di Baldissero.

– Senta, cara contessa. Non facciamo guerricciuola a ripicchi, che fra noi non è il caso. Io provo un grande interesse per lei. La famiglia Langosco e quella di Baldissero sono congiunte in parentela. Ogni giovane donna d'altronde della nostra classe m'interessa… e quando vedo alcuna commettere delle imprudenze, vorrei poterla amichevolmente ritrarre dal mal passo.

Candida si turbò, ma interruppe con accento offeso:

– Come crede Ella potere a me volgere ed applicare simili parole?

– Come? E non crede Lei che sia un'imprudenza il manifestare apertamente l'impazienza e il cattivo umore d'una protratta aspettazione. E poi, cessata quest'attesa, lasciare così facile il varco a interpretazioni che si dovrebbe fare in ogni modo da escluderle circa certe attinenze?

Candida fece un moto. La vecchia marchesa le pose con gesto famigliare l'estremità del suo ventaglio sopra il braccio.

– Permetta. Io non le parlo come una madre, nè come un confessore. Le parlo da amica… una vecchia amica che non è molto severa… Allez. E mon Dieu! non è il male che si fa quello che merita maggior condanna, ma quello che apparisce… Non dico già che vi sia il male, ma è molto peggio che si mostri senza esservi, di ciò che sia quando esista e si nasconda; comprenez-vous? E poi, se una donna può disporsi ad affrontare con coraggio certe permalosità sociali, alcune pruderies du monde, conviene ancora che la cagione per cui la si espone a questo modo sia tale da meritarlo…

Candida era per rispondere alcuna parola quando Virginia entrò frettolosamente, pallida e commossa, esclamando:

– Ah zia! Usciamo, torniamo a casa, ne la prego.

La marchesa si alzò non senza qualche sgomento.

– Bon Dieu! Diss'ella. Che cosa è dunque capitato, ma petite?

Ed ecco quello che era avvenuto.

Benda e la signorina Virginia avevano appena finito il primo loro giro di danza, quando il marchesino di Baldissero si presentava a farsi cedere il braccio della sua nobile cugina, secondo l'ottenuta promessa.

Il giovane borghese, benchè assai a malincuore, si affrettò a lasciare il luogo all'insolente blasonato; e mentre la nuova coppia s'avviava a prender posto nella schiera dei danzatori, Benda udì il marchesino dire a sua cugina:

– Fai molto male tu ad accordare delle danze a chiunque venga a domandartene…

Ma non potè intendere la risposta che diede la signorina a bassa voce, allontanandosi.

Quelle parole erano fatte per offendere profondamente un uomo che sentisse la sua dignità, che avesse sangue giovanile nelle vene; figuratevi poi un innamorato che le oda dette a suo scorno in presenza della donna che ama! Francesco aveva capito che il ripigliarla subito per quei detti non era prudente nè conveniente; ma se aveva dovuto usare forza non poca per contenersi, erasi tuttavia proposto di averne ragione dal signor marchese col primo pretesto che gli si presentasse.

Era stato inteso fra i due giovani che il nobile avrebbe restituito la dama al primo di lei compagno, colà stesso dove egli l'aveva presa; onde Francesco stette piantato a quel luogo ad aspettare. Ma ebbe invano aspettato un poco che a lui parve assai, e nessuno venne. Guardò nel salone e vide il marchesino continuare a ballare colla cugina, anche dopo il giro che solamente gli era stato concesso. Benda si disse che quella era una indiscrezione che meritava i più vivi richiami. Ma vi fu peggio, perchè ad un punto, mentre la coppia si riposava, le si accostò un ufficialetto di cavalleria, e confabulato un poco, il povero borghese vide che il braccio della nobile danzatrice passava su quello dell'ufficiale, e che con costui la signorina si slanciava nel vortice del ballo senza che il meno del mondo si pensasse più a lui, il quale pel concessogli favore credeva di aver diritto a ballare tutta quella polka colla segretamente adorata ragazza.

Sapete che gl'innamorati hanno innanzi agli occhi certe lenti che ingrossano a dismisura o svisano le apparenze degli oggetti. All'amore qui si aggiunse l'amor proprio ferito. Parve a Francesco che quello fosse il peggior tratto che gli si potesse usare, e che bisognasse, per non averne avvilimento e disdoro, una buona e sollecita vendetta. Se quella non era un'irrepugnabile ragione per ammazzarsi in duello, Francesco non sapeva più vedercene altre. Stette covando, per così dire, la coppia che ballava sotto i suoi occhi, a dispetto de' suoi dritti, con isguardo pieno di collera e di minaccia. Pensava sfidare e il marchese e l'ufficiale e mandarli addirittura tuttedue all'altro mondo. Egli, che pure aveva la più mite natura, immaginava senza orrore qualche tremenda opera di sangue.

Quella polka, che parve eterna al nostro giovane amico, ebbe pur termine finalmente! Le ultime note dei violini tremolavano ancora per la volta della vasta sala, quando Francesco si venne a piantare presso alla porta da cui, per tornare presso alla vecchia marchesa, dovevano passare il marchesino e madamigella Virginia. Il suo aspetto era fieramente corrucciato; il solo suo sguardo era una provocazione. Il marchesino che lo vide, pose l'occhialino sul naso e rispose a quella minacciosa del giovane con una sua guardatura impertinente e beffarda.

Francesco Benda fece un passo verso la giovane, e inchinandosi con quasi umile urbanità, le disse:

– La ringrazio, madamigella, di questa polka ch'Ella mi volle favorire, quantunque l'indiscrezione altrui mi abbia impedito di godere, come avrei dovuto, di tal favore.

Virginia volle pronunziare alcuna parola, ma il cugino non glie ne lasciò il tempo.

– Di quale indiscrezione, e di chi intende Ella parlare? Domandò egli con fiero cipiglio.

Benda lo guardò bene entro gli occhi e rispose con accento provocativo:

– Della sua.

– Signor avvocato: disse il marchese con beffardo disprezzo nell'accento, uno dei primi doveri del suo mestiere è quello di parlar convenientemente; ora Ella deve imparare che ad un pari mio non si parla in quel modo nè con quelle parole.

– Signor marchese: disse Benda di ripicco senza lasciar tempo in mezzo; uno dei primi doveri d'ogni uomo di garbo è di trattar bene; ed Ella usando ora meco in quel modo avrà forse trattato da nobile, ma certo non ha trattato civilmente…

Virginia allora fece ad intromettersi.

– Signori! Diss'ella colla sua soave voce tremante.

Ma il marchesino, con gentile violenza la trasse indietro, e come Francesco Benda stesso aveva narrato, freddamente aveva percosso col suo guanto la guancia del borghese.

Sappiamo che cosa n'era succeduto. Virginia s'era affrettata a riparare presso la zia; il marchesino e l'avvocato disgiunti dagli accorsi avevano scambiata una sfida.

Francesco era venuto presso i suoi amici e poi recatosi a casa sua: dove Giovanni Selva, interrotto il racconto di Maurilio, erasi recato ancor egli in sul giunger dell'alba per accompagnarlo qual testimonio nel duello.

Prima di seguitarlo noi pure sul terreno, conviene che facciamo più ampia conoscenza con quella buona, onesta ed operosa famiglia borghese a cui il giovane apparteneva.

Fine della 1ª Parte
13Allora non eravi ancora la Banca Sarda.
14Si dice bruciar carte il levarne dal mazzo una certa quantità che si gettano in mezzo a scarto e non si distribuiscono ai giuocatori.