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La plebe, parte I

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CAPITOLO IX

Maurilio intanto aveva svegliato il bambino.



– Su, piccino, andiamo a casa tua adesso.



Il ragazzo s'era fregato gli occhi, s'era stirato le piccole membra ed aveva risposto sbadigliando:



– Andiamo pure.



Venendo fuori dell'osteria, il piccino indicò la direzione del cammino da farsi verso la parte più sporca e più brutta di quel bruttissimo e sporchissimo quartiere.



Giunsero, dopo un po' di strada, ad una porta ad arco, ma bassa e schiacciata, sotto la quale un lampioncino ad olio, di cui poteva dirsi col poeta, che pareva spento, tramandava attraverso ai vetri affumicati, tanto di luce tremolante e rossigna da poter scorgere che in quei muri, su quello spazzo l'umidità e le sozzure ci stavano trionfalmente in permanenza. Passarono un cortiluccio che di poco si discostava da una fogna; giunsero ad una scala stretta, non illuminata, a corte branche, a scalini alti.



– Se tu non mi dài mano: disse Maurilio al suo piccolo compagno, io non verrò a capo di andar su per queste tenebre senza rompermi il naso.



Il bambino pose la sua manuccia destra in quella sinistra del giovane, e questi scorrendo ancora coll'altra mano che gli restava libera lungo la parete trasudante un umor freddo e viscoso, scalpitando ad ogni posar di piede sempre nuove immondezze, pervennero ambedue alla fine della scala, sotto alla travata del tetto, in un corridoio basso, angusto, soffocato, tenebroso, che dava adito alle soffitte.



Fatti pochi passi per questo corridoio, il piccino si fermò innanzi ad un uscio serrato per di dentro, dalle fessure del quale trapelava un filo di luce del lume acceso all'interno, e vi picchiò col suo piccolo pugno.



– Chi va là? Chiamò di dentro a quell'uscio una voce aspra, rauca, stizzosa, che mal avreste saputo giudicare se era d'uomo o di donna.



– Son io: rispose il bambino. Allora s'udì un moversi di persona a rilento, uno strascico di pianelle e un brontolio di parole inintelligibili venir verso l'uscio.



– Sei proprio tu,

Gognino

? Domandò ancora la medesima voce.



– Sì, nonna.



L'uscio s'aprì e comparve fra i battenti una vecchia vestita a bardosso d'un subisso di panni che non avevan forma nè colore, la quale, senza badar più in là, per primo saluto allungò la mano, ghermì il polpastrello dell'orecchio al bimbo, e si pose a tirare.



Il tristanzuolo si diede a strillare come se lo pelassero.



– Biricchino! Gridava la nonna frattanto. È l'ora di tornarne questa qui? Le nove sono già ribattute alla campana della città.



Maurilio fece un passo innanzi; la vecchia lo udì, si volse, lo vide e lasciò il fanciullo che andò a finire il suo lamento e il suo pianto presso al misero focolare, dove s'accoccolò quasi sopra le braci mezzo spente.



La vecchia e Maurilio si guardarono l'un l'altra, come avviene fra due che si trovano a fronte e non si sono mai visti.



Di quella poteva dirsi col Boccaccio «una vecchia che pareva pur santa Verdiana che dà beccare alle serpi,» tanto la era strema, vizza, sporca, brutta e scontrosa. L'occhio avea rimesso e maligno, la bocca asciutta, tirata e sottile, il naso adunco, il mento aguzzo e volgente all'insù con sopravi radi ma lunghi peli di barba grigia: un aspetto di tristo e d'abbietto, di maltalento temperato dall'impotenza.



Maurilio provò un senso di profonda ripugnanza, quasi di malessere innanzi a quella figura. E' non si scoprì la faccia e stette lì, com'era per istrada, col cappello fin sugli occhi e il mantello fin sopra la bocca.



– Chi è Lei? Domandò la vecchia colla sua voce squarrata. Gli è di me che cerca? Che cosa vuole?



L'uomo si appoggiò ad un desco zoppo che stava contro al muro presso l'entrata, e rispose:



– Son venuto a portarvi dieci soldi, perchè non vogliate battere quel vostro bimbo là.



La vecchia volse un suo sguardo invelenito sul fanciullo, il quale s'interrompeva dal piangere di quando in quando, per soffiare a pieni polmoni sulle braci, a cui cercava scaldare le sue mani intirizzite e gonfie dai geloni.



– Che cosa gli ha contato quel bugiardello di Gognino? Che sì che gli mostro io!



E la minaccia si sarebbe certamente risolta in fatti, se la vecchia non avesse visto lo sconosciuto porre nel taschino del panciotto il pollice e l'indice della sua mano sinistra; allora ella, interrompendosi tosto nel discorso, tese la destra e stette ad aspettare.



Maurilio trasse fuori un pizzico di monete, le fece scorrere sulla palma della mano, e siccome, oltre poche di rame da cinque centesimi, non ce ne aveva che di argento, ne prese una da un franco e la porse alla vecchia, la quale fu lesta a farla ingoiare da un tascone della sua gonnella, dove, sonando cupamente, diede segno di essersi andata ad affratellare con il buon numero di soldacci grossi di rame. Poi ella sogguardò così di sbieco il donatore e con un cotale accento di timore, di peritanza, di rincrescimento, impossibile ad esprimersi, gli domandò:



– Ho da tornarle indietro il soprappiù?



Un sorriso ed un moto di spalle fatti dall'uomo, ella s'affrettò ad interpretare per una negativa, diede un colpetto colla mano alla sua saccoccia, come per chiuderla, e riprese con tono più umano e dolciato:



– Che Dio la benedica, signor mio, per questa carità.



Si volse verso il piccino che seguitava ad infrignare:



– Vuoi smetterla, Gognino, o che io vengo a levarti il ruzzo collo staffile?



Maurilio volle parlare, ma la vecchia non gliene lasciò tempo, e riprendendo a discorrergli come prima, soggiungeva:



– Per Lei, vorrò dire la terza parte del rosario, a favore dell'anima dei suoi morti.



La faccia di Maurilio si contrasse leggermente, ma ella nol vide.



– E sentirò domattina la messa alla Madonna del Carmine. Io sono sempre lì sulla porta della chiesa che vendo abitini, rosarii e candelette. Se mai avesse bisogno di me per alcuna cosa, la mi ci troverebbe. E se vuole, domani accenderò le candelette per lei all'altare delle indulgenze.



– No: interruppe Maurilio. Ciò ch'io vorrei si è che non batteste più quel povero bimbo.



– Ah! rispose la vecchia. Lei crede ch'io gli faccia del male a quel piccino. Si sbaglia, sa! Io non fo che per suo bene. È dura cosa alla mia età allevarsi su un figliuolo di quella fatta. Io sono tutt'altro che cattiva. Ne potrebbe domandare a chiunque, e se le si dirà che la

Gattona

 è una senza cuore, voglio sprofondare. (Da un buon pezzo di tempo mi chiamano la Gattona; ma il mio vero nome è Modestina… Modestina Luponi… Ma, sa bene, tra noi povera gente si comincia, tanto per ridere, ad affibbiare ad uno un sopranome, lo si ripete una volta ed altra, e buona sera, gli è come se gliel'avesse dato il prete coll'acqua santa.) Dunque le dico che quel ghiottoncello là, di certe ore, tirerebbe le botte di mano ad un san Giobbe. Sono una povera vecchia io che il lavoro non può più darmi nessun guadagno. Vivo della carità della gente io, e deve sapere anche Lei, se la carità della gente la è tanto larga. Oh stia là, che a me quel biricchino gli è un grave peso a portare!



– Siete sua nonna, voi?



– Signor sì. Ma vorrei ben essere piuttosto… Dio mi perdoni, che quasi ne direi qualcuna di grossa. È il figlio d'una mia figliuola, la quale dopo avermi dato i mille dispiaceri e perduto a me il rispetto, a sè l'onore, morì tra la miseria, lasciandomi sulle braccia quel coso. La ne aveva fatte di ogni razza quella disgraziata ed era proprio caduta al più basso.



– E voi, sua madre, come non avete potuto avviarla al bene?



– Eh sì! Che cosa vuole ch'io facessi? Bisognava ben lavorare per vivere… Un tempo, me la ricavavo bene… Sono stata in casa di signori… e di certi signori… Basta… Venne un dì che la mia ragazza dovette andare in giornata da una parte ed io dall'altra. Sa come succedono queste cose. Cominciò per innamorarsi d'uno che la piantò. Poi diede retta alle offerte d'un ricco che la fece scialare per bene durante un po' di tempo. Quindi da questo a quello, che vuol ch'io le dica? Patatrach nella miseria e nell'abbiezione… E fu allora, noti che provvidenza maligna! che le nacque codesto marmocchio della malora. Io avrei creduto che lo gittasse all'ospizio. Niente affatto. Quella creatura, che era stata senza cuore per sua madre e per tutti, volle tenersi il figliuolo, e per esso sostenne ogni sacrifizio ed ogni privazione.



– Ciò prova che vi era del buono in lei.



– E codesto la fece morire tisica all'ospedale a vent'ott'anni. Sono intorno a nove anni fa; me ne ricordo sempre; la mi fece chiamare al suo letto dove rantolava che faceva spavento, e mi disse con quel poco di voce che le restava e serrandomi la mano colle sue che bruciavano come carboni accesi: – Mamma, tu mi hai da promettere di non abbandonare mio figlio e di allevarlo su un onesto uomo. Che cosa vuole ch'io facessi? Promisi tutto quello ch'ella volle.



– Ed avete fatto bene.



– Oh! me ne ho dovuto pentire più d'una volta, glie lo dico io… Avrei fatto meglio a dar retta al consiglio di alcune amiche, che era di piantarlo là e lasciar pensare a lui quella provvidenza che l'ha fatto nascere.



Maurilio sentì un profondo ribrezzo, ma stimò inutile il mostrarlo, e dopo un momento domandò:



– E suo padre?



– Chi? Il padre di quel bastardo? Chi l'ha mai visto o saputo chi fosse? Se l'avessi conosciuto, glie ne avrei portato bravamente e dettogli: – Mantenetevi voi la vostra carne ed il vostro peccato, ch'io, che cosa ci ho da entrare io?



– Però voi da questo piccino tirate alcun profitto.



– Santa Madonna della Consolata! A che cosa può giovare di buono un bardassotto di quella guisa? Gli vo comperando qualche dozzina di mazzi di fiammiferi, perchè li rivenda e venga così raspando qualche solduccio: chè adesso che si vuol far tutto in nuovo, hanno proibito anche l'elemosina… pena il Ricovero. S'e' volesse avere testa a partito, potrebbe pure guadagnarmi qualche cosuccia di questo modo; ma sì, egli è più vizioso di quanto si voglia credere, e non è ancora fuor di casa che con altri sbarazzini di sua risma, ei non sa far altro che giuocare alle biglie, o alla trottola, alle castelline e sciupare il tempo e i denari, e va apparando non altro che difettacci.

 



– Questo è vero. E voi non mantenete così la promessa fatta al letto di morte di vostra figlia; di allevarlo un onest'uomo.



– Oh sante piaghe! Che cosa ho da farne? Ei non vuol saperne di nulla delle cose da bene. Padre Bonaventura, un buon reverendo dei Padri Gesuiti lì del Carmine, mi aveva detto di mandarglielo in sacristia a far qualche piccolo servizio che gli avrebbero mostrato a servir la messa, e dato qualche elemosina di tanto in tanto, ed inculcatogli quanto meno il santo timor di Dio… Eh sì!

Gognino

… (lo chiamano Gognino, ma il suo vero nome è Luca)… Gognino è sempre scappato come il diavolo dall'acquasantino.



– Perchè non lo acconciate con qualcuna di quelle scuole infantili che ora si sono fondate?



– Scuole? Tutte baie!.. Padre Bonaventura dice che non vi si tiran su che dei miscredenti… E poi chi mi compenserebbe i dieci soldi che me ne fo portare?



– Ah!



Maurilio parve riflettere un poco. Diede una nuova e più minuta sguardata intorno a sè, si inoltrò nella soffitta ed esaminò meglio il ragazzo, il quale, tutto rannicchiato al focolare, aveva cessato di piangere, e teneva fisso sulla nonna e sullo sconosciuto gli occhioni larghi ed attenti. Poscia Maurilio si volse di nuovo alla vecchia e le disse:



– A quel bambino, di leggere e scrivere, voi non glie ne avete neppur parlato?



– Madonna santissima! E perchè mai? E che vuole ch'ei ne faccia? A che cosa giovano elleno queste cose per noi, povera gente, per quel disgraziato che gli toccherà sbrandellarsi la pelle se vorrà mangiar pane?



Maurilio non credette opportuno entrare in discussione colla vecchia sull'utilità del saper leggere e scrivere. Si rivolse al bambino e gli disse:



– Vieni un po' qui tu.



Gognino lo guardò con occhio ancora più largo, ma non si mosse.



– Hai sentito. Luca? Gridò la Gattona. Vien qui dal signore. E così, tristerello, vuoi obbedire o no? Subito, ti dico; chè se vado io a pigliarti…



Fece un passo. Gognino tosto fu dritto e s'accostò adagio, mostrando nel muovere delle spalle e nel frusciarsi i panni addosso tutta la sua malavoglia.



– Luca, domandogli Maurilio, sai tu che cosa sia leggere e scrivere?



Gli occhi del fanciullo diedero un leggiero lampo d'intelligenza.



– Sì: rispose. Vedo bene che quando appiccan qualche cartello alle cantonate tutti ci si fermano.



– E di saperlo ne avresti voglia?



– Sicuro. L'altro giorno che hanno menato a morire quel bel giovane, e che io sono andato a vedere, e che tutto il mondo correva, che dicevano avesse ammazzato il suo padrone… Ebbene avrei voluto poter leggere anch'io la sentenza su pei muri, come faceva l'altra gente.



Maurilio mandò un sospiro e scosse dolorosamente la testa.



– E voi, diss'egli alla vecchia, lasciate questo ragazzo andare a siffatti spettacoli?



– Bisogna bene. Così vedendo il castigo, imparano a non fare il male.



– Oh miseria dell'ignoranza! Mormorò il giovane; poi, come per una risoluzione subitamente presa, disse alla vecchia:



– Sentite. Voi quando aveste da questo ragazzo i vostri dieci soldi al giorno, nulla dovrebbe importarvi ch'egli se ne andasse attorno per le strade ad imparare i vizi, e il padre di essi, l'ozio, oppure da qualcheduno che gli desse un po' d'educazione. Non è vero?



– Certo. Ma se non vende fiammiferi o se non cerca l'elemosina, come razzolar dieci soldi? La mi par cosa impossibile.



– No: è fatta. Io gli darò dieci soldi al giorno e voi mi condurrete a casa ogni giorno, per lasciarmelo quanto tempo mi piacerà, il vostro Luca.



La Gattona guardò bene entro gli occhi l'uomo che le faceva una simile proposta.



– Scusi: biascicò ella: ma che cosa vuol fame lei di Gognino?



– Mostrargli a leggere e scrivere.



– Dassenno?



– Che cosa pensereste ch'io ne facessi?



– Ah! non saprei, ma di questi giorni se ne vedono tante!.. Lei è dunque un maestro?



– Un maestro che vuol pagarvi invece d'essere pagato.



– To' gli è vero! L'è una bella opera che vuol fare!



– Bella no; mi ci voglio provare.



– Ed io avrò dieci soldi al giorno?



– Senza fallo… finchè non mi stanchi o non abbia altrimenti da cessare, perchè non prendo già un impegno per un dato tempo. Finchè dura, dura. Quando il vostro piccino non vi porterà più a casa i dieci soldi, potrete rifarne quel che vi piacerà. Siamo intesi?



– Ah! dieci soldi sono tanto pochini. Gognino cresce ogni giorno più… Fra poco sarebbe in grado di fruttarmi assai di vantaggio. Mettiamo venti soldi.



– No. Sono povero ancor io. Questo lo posso fare, non di più. Se vi accontentate, bene; altrimenti sia per non detto.



– Via, come vuole…



– Comincieremo da domani.



– A suo senno.



– Sapete leggere voi?



– Signor sì… Come le ho già detto non fui sempre la misera donna che Lei vede in adesso. Quand'ero giovane… Eh! Ho vissuto bene un poco ancor io… Ma poi delle disgrazie… Un vero romanzo se glie l'avessi da contare… L'ingratitudine di certa gente… Basta! Non gli accade ora di far parola di codesto… So leggere come un notaio.



Maurilio trasse di tasca una cartolina compagna a quella che aveva data poc'anzi a Gian-Luigi.



– Prendete, disse porgendola alla vecchia, questo è il mio indirizzo. Domattina alle nove vi ci aspetterò col vostro nipote.



E fatta una carezza al ragazzo si mosse per uscire. La Gattona, presa la lucerna, gli tenne dietro a rischiarargli l'andito e la scala, e quando lo sconosciuto fu per ispiccarsene, ella lo ritenne.



– Ah signore, gli disse, d'una cosa la voglio avvertire. Se mai per caso… poichè vedo che Lei è tanto generosa… se le avvenisse di voler fare qualche maggior carità a Gognino… in più di quei dieci soldi…; ebbene, la prego a non dar niente a lui. È malizioso come il fistolo, sa, e sarebbe capace di tenersi i denari e sciuparli al giuoco, non dicendomene neppur motto. Sarebbe meglio che li dèsse a me direttamente.



– Va bene, va bene; rispose Maurilio, e partendo di buon passo lasciò lì la vecchia, a piè della scala.



La Gattona, risalita alla sua soffitta, pose la lucerna in sul desco, e curiosamente si fece a leggere le parole scritte sulla polizzina datale dallo sconosciuto. Esse erano le seguenti: Maurilio Nulla,

scrivano pubblico, via porta num. 7, piano quarto

.



– Maurilio! Esclamò la vecchia sovraccolta. Oh! Che cosa mi ricorda questo nome! Sono più di venti anni che non l'ho più udito; che non trovai più nessuno che lo portasse… E costui potrebbe egli avere alcuna attinenza con quell'altro là?..



Scosse le spalle, come si fa quando ci viene un'idea assurda pel capo.



– Eh via! Gli è impossibile.



Allora domandò conto a Gognino di quanti denari avesse raccattato durante la giornata; e poichè vide che in luogo di dieci non le aveva portato a casa che quattro soldi, si diede a batterlo secondo l'usato, precisamente come se l'intervento di Maurilio non avesse avuto luogo.



CAPITOLO X

Maurilio s'allontanava da quella casa col capo più basso e coll'animo più triste di prima. Andava lentamente traverso la nebbia fattasi più folta, come uomo a cui la volontà non dirige il cammino, ma si lascia trasportare a caso dalle sue gambe. L'umido spruzzolìo di prima s'era convertito in buona e bella neve che calava giù lenta, lenta, fra la nebbia, a larghi fiocchi, e già vestiva d'un bianco strato il terreno su cui ammortiva il suon de' passi ai rari cittadini che per quella melanconica sera si affrettavano a rientrare nelle case loro.



Ad un tratto il nostro giovane si riscosse. Era uscito dal povero quartiere della miseria e dell'abbiezione, e trovavasi in una strada larga, fiancheggiata da superbe abitazioni del ceto signorile. Innanzi a lui, un palazzo dei più suntuosi gettava nelle tenebre della notte dagli alti suoi finestroni delle ondate di luce che faceva brillare al passaggio i candidi fiocchi della neve. L'alto e imponente portone da via, per cui s'entrava in un atrio elegante di severa architettura, era spalancato, e nell'atrio medesimo stava una magnifica carrozza chiusa, a cui attaccati due stupendi cavalli di prezzo che scalpitavano e scuotevan la testa impazienti. Certo questa carrozza attendeva i padroni di quel palazzo che stavan per uscire: e così pensò tosto Maurilio, il quale nel cocchiere vestito di terraiuolo impellicciato, seduto con altezzosa imponenza sull'alto sedile colle redini in una mano e la frusta nell'altra, in una classica mossa che qualunque cocchiere inglese gli avrebbe invidiato, riconobbe tosto la livrea della nobile famiglia a cui quel palazzo apparteneva.



Maurilio s'era lasciato condurre passivamente dalle sue gambe, e queste lo avevan portato là dove tanto spesso volava il suo pensiero.



In faccia a quel portone, il giovane sostò, si volse a quel bagliore che pioveva dalle ampie finestre, guardandovi fiso con occhio e con sembiante pieni di mille espressioni, profferse parole cui nessuno, anche udendole, avrebbe pur potuto capire.



Parve esitare un istante, poi con evidente sforzo si staccò dal posto in cui stava piantato e fece alcuni passi per allontanarsi; ma tosto si arrestò di nuovo; una lotta si combatteva nel suo animo; tornò vivamente indietro, e senza che alcun lo vedesse, guizzò sotto l'atrio e corse ad appiattarsi dietro ad un gruppo di colonne. Là si appoggiò al freddo marmo d'una di queste colonne e si premette con ambe le mani il cuore che gli batteva così violentemente da minacciar di scoppiare.



Non attese lungamente. La grande invetrata che metteva al marmoreo scalone venne aperta da un domestico in gran livrea a capo nudo; due donne con fiori ne' capegli, avvolte in ricchi mantelli alla foggia beduina di cascemir bianco con ricami in oro ed un uomo imbaccuccato nel tabarro ed avvolto il collo sino alla faccia da una finissima fascia di lana si diressero verso la carrozza, di cui corse ad aprire lo sportello un altro domestico in soprabito lungo, a grossi bottoni d'argento stemmati e col cappello coperto di tela incerata in mano.



Quelle due donne erano passate rapidamente, ma il nostro giovane le avea viste, le avea saettate di suoi sguardi accesi come una fiamma, ansimante il petto, battenti i polsi della testa, tremanti tutte le fibre, le avea seguite collo sguardo intento.



O per dir meglio non aveva visto, ammirato, vagheggiato che una di esse: – la più giovane. Era bella come un'apparizione nel sogno d'un poeta d'Oriente. Alta della persona, dignitoso e graziosissimo il portamento, mite e pur nobilmente superbo l'aspetto; un muover di collo che ricordava l'avvenenza del cigno, una eleganza nativa, non ricercata, non appresa, piena d'incanto; tutta la grazia aristocratica nel piglio, senza l'offensività dell'orgoglio. A vederla passare soltanto, ogni cuore si sentiva trascinato dietro lei con un omaggio d'ammirazione. Chiunque avrebbe affermato senz'altro esser ella nata per andar prima in tutto, per vedere tutto il mondo a que' suoi piccoli, ben arcati, sottilissimi piedi. Un diadema di regina non avrebbe disdetto alla sua fronte leggiadramente superba. I suoi capelli di color biondo un po' fulvo, le facevano intorno al capo di sì fina struttura un'aureola d'oro, come alla più bella vergine staccata da uno de' più bei quadri del Luvini. Lo sguardo limpido, sereno, profondo balenava in occhi cui meglio non avrebbe saputo disegnare il pennello di Murillo, del color del mare. Il sorriso era grave in una ed infantile. Tutta la malìa della gioventù accompagnata dalla più splendida bellezza, vi si trovava insieme colla riflessività d'un'anima che sente, che ha già visto il dolore, d'un cervello che pensa e d'un cuore che si commove. La sua mano, da sola, chi non vedesse altro di lei, l'avrebbe fatta conoscere per generata di purissimo sangue aristocratico. Era una mano esile, lunghetta, a dita affusolate, ad unghie color di rosa elegantemente convesse, bianche come l'alabastro ed appena se mostranti traverso la pelle finissima l'azzurigno della rete venosa; una mano che uno scultore avrebbe adorata.



L'altra donna era di età inoltrata e sul suo volto, che incominciava ad esser troppo corso dalle rughe, non si leggeva che orgoglio, arroganza e disprezzo d'altrui.



La giovane entrò prima nella carrozza, poi l'attempata, ultimo l'uomo. Il domestico richiuse la portiera, si mise in testa il cappello, salì in cassetta vicino al cocchiere, e la carrozza si mosse.

 



Già era uscita dal portone, già il domestico in livrea era risalito negli appartamenti: già il portiere, venuto fuori a salutare con un grande inchino il passaggio della carrozza, richiudeva il portone per non lasciar aperto che l'usciolo a sportello, e Maurilio era ancora là, appoggiato alla colonna, immobile, ma palpitante, gli occhi rapiti come da una celeste visione.



Ad un tratto si scosse. Aveva bisogno di vederla ancora. Si slanciò fuor del portone ratto come un baleno, passando presso il portiere spaventato; vide allo svolto della via sparire i fanali della carrozza che andava al piccol trotto de' suoi cavalli; corse come vola una saetta in quella direzione; raggiunse il cocchio, s'aggrappò al predellino di dietro, su cui stanno in piedi i servitori, vi si arrampicò, vi si raggomitolò, vi stette sentendosi mancare il fiato, la lena e le forze.



Intanto pensava nel suo cervello cui veniva a martellare il sangue concitato.



– Ella è là!.. Là presso a me… Divisa da una sottile parete. Appoggia forse a questo punto la sua bella persona… Se potessi vederla nell'abbandono del suo atteggio!



La carrozza correva senza rumore sul tappeto già alto della neve caduta. Quando la si arrestò Maurilio parve ridestarsi e guardò intorno dove si trovasse. Era in piazza S. Carlo e la carrozza era venuta ad accodarsi l'ultima di una schiera di cocchi che facevan la fila per entrare uno ad uno nel portone d'un palazzo in mezzo a quel lato della piazza che guarda l'occidente. Questo palazzo dalle sue finestre del primo piano mandava torrenti di luce che correvano via lontano per la piazza a illuminare i fiocchi cadenti della neve, a ripercotersi sul cimiero di bronzo imbianchito ancor esso della statua equestre d'Emanuele Filiberto, a riflettersi come un lampo sanguigno in mezzo a tutto quell'albore sulla baionetta che brillava a capo del fucile stretto fra le braccia dalla sentinella del monumento intirizzita.



Eravi gran ballo nelle sale della Società dell'

Accademia Filarmonica

; uno di quei balli, come al giorno d'oggi non ne vediamo più, in cui il fior di farina della borghesia, stacciato traverso il cribro de' più permalosi pregiudizi, accoglieva la disdegnosa aristocrazia, la quale era stimolata alla degnazione di arrendersi all'invito dall'esempio della Corte, che onorava la festa di sua presenza.



Maurilio si ricordò in quel punto di aver udito parola di tal festa da un suo amico, ricco, elegante e socio di quella congrega. Come fosse amico d'un ricco, egli povero, senza nome e senza stato, lo sapremo in appresso. Discese dalla predella su cui s'era aggomitolato, e si gettò sotto il portico del palazzo coll'intenzione di introdursi fin sotto l'atrio, fin nel vestibolo per aver la dolcezza di vedere ancora una volta la incantatrice visione di poc'anzi apparirgli, val quanto dire quella stupenda e superba bellezza di donna uscir di carrozza e passargli dinanzi.



Ma l'impresa era più difficile di quanto ei si pensasse, e fu un momento in cui per sua disperazione gli apparve impossibile. Sotto il portico, ai due lati del portone, sul passaggio delle carrozze, che lentamente sfilavano ad una ad una per lasciar giù nell'atrio le persone che contenevano ed uscir poi da un altro portone di facciata, traversando il cortile stato ricoperto con invetrate e ridotto a giardino; sotto il portico, dico, s'erano formate due fitte siepi di curiosi che stavano cogli occhi intenti a mirare nello scuriccio dell'interno de' cocchi le ombre di color bianco o rosato delle acconciature femminili.



Il nostro giovane protagonista ben riuscì, non senza difficoltà, a spingersi in prima riga di questa calca là dove facevano barriera a contenerla indietro il cappello a becchi dei carabinieri, e la mazza dei veterani, che si chiamavano

ordinanze del Comando di piazza

, i quali, allora, servivano da guardie di polizia. Ma ciò non gli bastava: era sotto il portone, era nell'atrio, era su per le scale ch'e' voleva penetrare. Pensava che occorreva affrettarsi. Quantunque la fila delle carrozze fosse assai lunga e procedesse lentamente, se Maurilio non si sbrigava, poteva arrivare la volta di entrare a quel cocchio su cui aveva rivolti tutti i suoi pensieri, prima ch'egli fosse là dove desiderava allogarsi. Un nuovo ardimento entrò in lui. Si spinse temerariamente innanzi e varcò la sacra soglia del portone conteso ai profani. Ma colà si trovò innanzi la imponente corporatura d'un gigantesco portiere con tanto di cappello a becchi gallonato, con tanto di gallone sul soprabitone a spada, con tanto di budriere largo un palmo traverso il petto, e con una gran mazza a pome di argento nella mano vestita di guanto bianco di cotone.



Questo alto personaggio fiancheggiato da due

ordinanze

, guardò con cipiglio disdegnoso ed impaziente l'audace dai panni logori colla neve sulle spalle e sul cappello, che osava avventurarsi in quelle aure olimpiche riserbate ai Dei e Semidei.



– Non si passa: disse il signor portiere con brusco accento, mettendosi innanzi all'intruso.



Dietro le grosse spalle quadre del portinaio, balenarono agli occhi di Maurilio le piastre di metallo colla croce in mezzo dei

sciacò

 delle due

ordinanze

 pronte a mettere in esecuzione il bando formolato dalla voce solenne dell'autorità della porta. E' si perdette un istante di spirito; balbettò confuse parole e sentì un rossore accusatore salirgli alla faccia.



– Andiamo, andiamo: riprese il portinaio, bisogna sgomberare. A momenti arriva la Corte…



Un'idea per fortuna era venuta a Maurilio che si torturava il cervello per trovarla. Si ricordò di quel suo amico che ho detto poco anzi, e pensò invocarne la protezione del nome.



– Cerco dell'avvocato Benda… È ben qui l'avv. Benda?



– Sicuro che c'è; rispose il gigante che faceva da cerbero; ma questo non è il luogo nè l'ora di cercarlo.



Maurilio fece come il naufrago, che aggrappatosi a qualche cosa onde spera salute, non vuole spiccarsene più; giunse le sue grosse manaccie in atto di supplicazione ed insistette:



– Bisogna assolutamente ch'io gli parli… Si tratta di cosa gravissima e che preme… Mi contenterò d'aspettarlo sotto l'atrio o su per le scale… Di grazia lo facciano chiamare… Darò il mio nome… Vedranno che verrà tosto… Ripeto che è cosa importantissima.



L'accento, la figura, la mossa del giovane erano così turbati che il portinaio credette realmente a qualche cosa di serio. Pensò inoltre alle larghe mancie che soleva distribuire l'avvocato Benda, onde valeva la pena di far cosa che potesse contentarlo. Il cerbero si fece più umano; curvò le spalle ed abbassò d'un tono l'altezzosa impertinenza dell'accento.



– Se è così… possiamo provare… ma il difficile sta nel trovare l'avvocato nella confusione di gente che c'è lassù… Gli è quasi come cercare un ago in un fastello di fieno… Ma pur via…



Si rivolse dignitosamente ad una delle

ordinanze

.



– Fate il piacere, disse, accompagnate questo giovane lì nel vestibolo in fondo alla scala e dite ad uno dei domestici il fatto suo.



L'

ordinanza

 fece un cenno affermativo col capo ed eseguito un

dietro-front

, disse a Maurilio con tono di comando militare:



– Venite!



A Maurilio il cuore saltava in petto dalla gioia. Aveva sperato bensì che lo avrebbero lasciato introdursi da solo, allora avrebb'egli ben cercato dove appiattarsi da veder comodamente ciò che tanto desiderava: ed invece doveva seguire i passi del soldato e proseguire nella menzogna a cui aveva domandato soccorso: ma almeno egli era, per dirla in istil militare, nella piazza, e ciò gli bastava.



Il veterano condusse il giovine fin sulla soglia del vestibolo dello scalone, dove un servitore della Società in gran livrea stava appostato. Già in quel vestibolo tutto era luce e profumi. Ricchi arazzi pendevano alle pareti con ghirlande di fiori, un morbido tappeto copriva il marmo del pavimento, ai due lati si schieravano enormi vasi ed eleganti, da cui gettavano il soave effluvio de' loro fiori, cedri, aranci ed oleandri; mille fiammelle alimentate dal gaz e dalla cera brillavano a gara nel tepore di quell'ambiente. Come aveva detto il portinaio, si stava aspettando da un momento all'altro l'arrivo della Corte. Sotto l'atrio, facendo ala fino al vestibolo, erano schierate in due file le guardie del palazzo reale; a cominciar dal vestibolo, su per tutto lo scalone, ad ogni due passi, da una parte e dall'altra, sorgeva il cappello piumato e scintillavano a quel tanto bagliore gli spallini e le tracolle d'argento d'una guardia del Corpo. La deputazione dei soci