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La plebe, parte II

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In quella seconda camera, e lo diceva egli stesso alla figliuola, e' teneva i suoi due tesori: l'oro che trafficava coll'usura e la sua Ester. La notte, egli ne chiudeva la porta, poi tirava innanzi a questa il suo giaciglio e vi si coricava, così che non altrimenti sarebbesi potuto penetrare in quella seconda stanza se non passando sul corpo del vecchio.

Jacob passeggiò un istante per la sua camera, poi aprì l'uscio di quella di sua figlia e stando in sulla soglia guardò amorosamente il grosso armadio. Le più strane idee parevano passare per la sua mente, poichè le più originali espressioni, riflesso delle medesime, si avvicendavano su quella faccia caratteristica. Avvicinatosi alla botola, si chinò giù verso la stanza di sotto e gridò alla vecchia serva:

– Debora, se mai viene qualcheduno a picchiare non ti muovere: guarderò io chi sia.

E chiuse accuratamente la botola. Poi si guardò dintorno come per timore che tuttavia fossevi alcuno sguardo che lo potesse vedere; aggiustò le sporche cortine alle finestre, prima della sua, poi della camera di Ester, affine di ripararsi di meglio da ogni occhio profano, e camminò sollecito verso lo spento focolare del camino che si vedeva da infinito tempo non aver avuto attinenza più nè con le bragie, nè con la fiamma; mise la mano su della cappa e tastando vi trovò nella muraglia un'apertura entro cui prese quattro chiavi legate insieme da uno spago. Andò con esse all'armadio e colla più piccola ne aprì lo spesso battente, di dentro fasciato di ferro; le tre altre aprirono la cassa di ferro le cui serrature non cedevano che a chi ne conoscesse il segreto. La cassa dividevasi in quattro scompartimenti: uno conteneva le monete d'oro, l'altro quelle d'argento, il terzo gli spiccioli di rame ed erosomisti, il quarto era occupato da carte di valore e da oggetti preziosi. Quando quegli scompartimenti, che pure erano capacissimi, si trovavano ingombri di troppo, Jacob allontanava di casa Debora con un pretesto qualunque, ed aiutato da Ester portava una buona parte di quei valori a congiungersi cogli altri che li avevano preceduti in cantina.

Egli aprì dunque la cassa e stette un momento a contemplare con occhio soddisfatto la vista per lui gradevolissima di tutti quei sacchetti bene ordinati, ben legati, colla sua scritterella ciascuno. Trasse dal fondo delle lunghe tasche dei suoi calzoni una borsa di pelle sudicia da fare schifo e ne versò il contenuto sopra un tavolino da lavoro lì presso. Era il guadagno che gli avevano fruttato certe ultime operazioni fatte in società col bettoliere Pelone, col quale quella mattina avevano aggiustati i conti. Tre napoleoni d'oro luccicavano in mezzo ad una dozzina di scudi d'argento. Arom pose da una parte le monete d'oro, dall'altra gli scudi; poi dalle tasche del suo panciotto trasse una manciata di soldini e soldoni e di monete erosomiste da 40 e da 20 centesimi, quelle che da poco tempo soltanto furono tolte dal pubblico mercato. Separò le une dalle altre monete, le contò tutte, fece mentalmente i suoi calcoli, e parve più contento di prima.

– Sia ringraziato l'Eterno! Diss'egli. La sua mano benedice il mio traffico e non mai volsero così prospere le mie cose.

Diede un'occhiata all'ammasso di sacchetti che riempiva la cassa, e se li mostrò a sè stesso con un gesto di compiacenza.

– Ecco lì! C'è tanto denaro da comprare la coscienza e l'onore di migliaia e di migliaia di cristiani; ce n'è tanto da farmi strisciare dinanzi il più superbo di essi. Certo che sì. Dov'io dicessi: adoratemi e quelle ricchezze sono vostre, quale di quei codardi arroganti si rimarrebbe dal gettarsi in ginocchio ai piedi del vecchio ebreo che disprezzano?.. Ma io li disprezzo tutti più che essi non facciano di me. Non darei un centesimo per avere la loro stima, razza di vipere. Il debole e schernito giudeo ha quanto basta da pagare financo la bellezza delle loro donne; in questa umiltà, in questa vergogna, c'è una ricchezza a cui agognano invano; molti di loro io tengo afferrati nel mio artiglio, e li scuoto, e li torturo a mio talento; e ciò mi basta!

Mandò uno di quei suoi rifiati che trammezzavano fra il sospiro ed il gemito, e stette un poco immobile a capo chino, come se assaporasse fra sè la dolcezza delle idee che aveva rideste colle pronunciate parole.

– Gustoso in vero è il piacere della vendetta: riprese egli dopo un istante. Io me lo regalo a piccoli sorsi; e i figliuoli di famiglia scapestrati, e i padri giuocatori o libertini, e i ladri della cocca, sono quelli che me lo forniscono. Meglio certo se potessi inebriarmi in una compiuta rovina dei nemici della mia razza. Il medichino me lo promette; ma mi promette una cosa impossibile. E poi, vincessero ben anco i miserabili, sono ancor essi cristiani!.. Ciò nulla meno lo aiuterò molto volentieri. Sarà pur sempre tanto di male arrecato a quella gente… e il rimborso dei miei denari (soggiunse con un sogghigno pieno di malizia) mi sarà assicurato dalla firma della contessa di Staffarda.

– Ah ah quel medichino (continuava egli con una certa ammirazione) è davvero un essere meraviglioso, ed io lo aveva fin dalle prime giudicato a dovere. Che audacia di concepimenti! che prepotenza di volontà! che coraggio di propositi! Ha una impudente ambizione ed un arrogante orgoglio come non vidi mai gli uguali. Di certo egli finirà per soccombere; ma meriterebbe trionfare. In lui riconosco una vera grandezza, una vera superiorità che me ne impone… Ah! s'egli fosse nato di stirpe giudea!.. Se in beneficio del riscatto del popolo d'Israele egli quindi mettesse le potenti qualità del suo animo e del suo ingegno, come lo obbedirei, come lo amerei! Lo amerei come un figlio, l'obbedirei come l'atteso Messia del sangue di David.

Si coprì colle scarne mani la faccia e stette un istante pensoso; poi si riscosse e passandosi la destra sulla fronte bassa ma quadrata, disse a se stesso quasi rampognando:

– Eh via! Che cosa ti perdi, Jacob, in sogni di vaneggiamenti impossibili? Pensa intanto ai casi tuoi.

Prese dall'interno della cassa un sacchetto non ancora pieno del tutto di quelli che contenevano l'oro, e ci pose dentro i tre napoleoni; in un altro, non colmo del pari, dello scompartimento dell'argento, serrò gli scudi; le monete erosomiste per la metà del valore che si trovava sulla tavola, ripose in un sacco uguale, di quelli destinati agli spiccioli, l'altra metà mise in una tasca di cuoio che andò a prendere in uno stipo che aveva nella sua stanza, nella qual tasca fece affondarsi anche i soldi e soldoni.

– Ora conviene scrivere tosto questi guadagni nella partita dell'avere, soggiunse Jacob, e sulla polizzina dei sacchetti la nuova cifra del contenuto. Chiamerò Ester… Ah perchè non so scrivere io!.. A me non occorrerebbe in verità nemmanco lo averle scritte sulla carta quelle cifre: le ho stampate tutte una per una qui (e si batteva le protuberanze della fronte); ma gli è per mia figlia. Se io mancassi, voglio ch'ella abbia presente in ogni suo particolare tutta la ricchezza ch'io le lascio… sì una vera ricchezza… colle istruzioni intorno al modo di usarne che le ho fatte scrivere da lei medesima. Se io mancassi?.. Ah! il Dio d'Abramo tenga lontana cotanta sciagura!.. No, no, non mancherò sul migliore delle mie fortune.

Prese nella cassa di ferro medesima due libri e ne scartabellò i fogli gremiti di cifre schierate in colonna.

– Come scrive bene la mia Ester!.. Il padre è un ignorantone; sì, appena è se di tutti questi segni ne sa capire qualche cosa; ma la sua figlia volle che imparasse tutto quello che può convenire alla più ricca e nobil giovane. Le sue mani hanno dita incantate, che fanno tutto ciò che vogliono, e la sua mente è ricca di tutte le più utili cognizioni del mondo… Ed è ricca! Oh oh ricca più di quanto si credono gl'imbecilli che gridano dietro a me: al vecchio avaro, al sordido usuraio; quell'ignorantone di suo padre ha saputo agglomerare dei milioni…

Pronunziò quest'ultima parola con voce più sommessa, quasi temendo che anima viva la udisse.

– Sissignori, dei milioni: ripetè come per convincere l'incredulità di qualcheduno.

Si fregò di nuovo con vivo soddisfacimento le mani, poi fattosi alla botola ed apertala chiamò sua figlia.

– Ester, vieni qui sopra, subito.

La fanciulla non tardò a mostrare la sua bella faccia melanconica nella camera di suo padre. Questi che l'attendeva in capo alla scala, tornò a chiudere con attenzione la botola, poi prese per mano la figliuola e la trasse con sè nell'altra stanza. Colla mestizia della giovane faceva strano contrasto la lieta animazione che regnava sulla asciutta fisionomia del vecchio.

– Vieni: diss'egli, conducendo Ester innanzi alla cassi aperta; vieni, riconfortati, rallegrati anche tu, figliuola mia, delizia mia, nella vista delle mie ricchezze… delle nostre ricchezze. Occhio umano fuori che il mio ed il tuo non le vede, e spero che non le vedrà mai. Gli sciocchi fanno ad indovinare: «Oh il vecchio Jacob ha un buon gruzzolo di denari, ha un tesoro nascosto nella cantina.» Stupidoni! Sì, che c'è; e nascosto così bene che nessuno lo saprà mai trovare; ed il mio gruzzolo ed il mio tesoro sono tali, che voi non v'immaginate pure la metà… Ah ah! Gli è un bel gusto invero sapere che si è più ricchi di tutti que' superbi che vi pongono il piede sul collo; e quando vi oltraggiano, e quando vi fanno un sopruso, dirsi qui, nel fondo del cuore: «Animale che sei, mi leccheresti la suola delle scarpe se ti aprissi il mio scrigno; ma di tutto il mio denaro tu non avrai nulla, e nessuno avrà nulla, no, neppure un centesimo, ed io invece seguiterò a succiarne da tutti…» Mi chiamano appunto vecchia sanguisuga d'un usuraio. (Ruppe in una secca risata). E mi chiamano a dovere! Vorrei succhiarli tutti fino all'ultimo quattrino. Essi ci hanno proibito di acquistare e di possedere. Mentre per gli altri il lavoro, mercè il risparmio, genera la proprietà; per noi nulla, a loro concetto, avrebbe dovuto farci uscire dalla classe dei proletarii. Hanno creduto così rinserrarci a perpetuità nell'inferno della miseria. Stolti! Stolti! Mille volte stolti! La ricchezza essi la vedevano soltanto consolidata nella proprietà immobiliare; e noi ne abbiamo creata un'altra più maneggevole, più potente, e – merito maggiore – che si nasconde, che scappa alla loro avidità, che s'insinua dapertutto, che per mezzo del più ratto soddisfacimento delle passioni dominerà quanto prima il mondo e loro stessi… e già li domina senza che se ne avvedano. Invano tentarono privarcene colle confische, colle pressioni, cogli esigli, colle torture. Noi la portammo nascosta con noi dovunque, come portavamo la nostra legge, lo spirito della nostra razza, e la speranza dell'avvenire assicuratoci dai nostri profeti. Della miseria a cui ci volevano condannare, noi ritenemmo le apparenze, la resistenza alle privazioni, la tenacia, l'odio rivestito d'umiltà; e ne fummo forti al doppio. L'oro, la leva dell'universo, è in mano d'Israele! Ci trasmettiamo di generazione in generazione i tesori e il còmpito avviluppando lentamente il mondo nelle maglie d'una rete che nulla potrà rompere. Un giorno saremo padroni del credito, saremo padroni del mercato, saremo padroni della società. A me mio padre lasciò un tesoro che basterebbe a comprare i più bei palazzi di Torino; io questo tesoro l'ho raddoppiato…

 

Si tacque un istante e mandò quel suo soffio affannoso che gli era solito.

Ester ascoltava tutte queste parole colla testa china, senza dare il menomo segno d'interessamento. Jacob le prese il mento fra il pollice e l'indice della sua mano destra e le fece sollevare il viso.

– Ebbene, soggiunse, che cosa ne dici, Esteruccia mia? E perchè non ti rallegri? Hai capito quel che ti ho detto? Sei pur capace di apprezzare le mie parole tu?

La fanciulla rivolse il suo sguardo alquanto peritoso sul padre e disse esitando:

– Pensavo una cosa.

– Che cosa?

– Quelle ricchezze così sotterrate a che cosa servono? Anche per chi le possiede, se non ne trae utilità di sorta, non sono elleno come se non esistessero?

Jacob arretrò d'un passo coll'aspetto d'uno spiacevole stupore.

– Ecchè? Sei tu, figliuola mia, che mi parli in questo modo? A che cosa servono? Dio d'Abramo! Servono ad averle; servono a farcene beare colla loro vista, a darcene il diletto di maneggiarle in segreto, di vedersele aumentare giorno per giorno; servono che ciò che abbiamo in nostro potere noi, siamo certi che è tanto di sottratto agli altri… Oh che non sei del mio sangue se non capisci codesto!.. Per la pietra di Oreb! Oh sentiamo un po' a che cosa pensi tu ch'esse avrebbero da servire?

Ester, in presenza della faccia eccitata di suo padre, non si sentì il coraggio di parlare.

– Di' su, di' su: comandò il vecchio.

– Pare a me: disse allora la giovane timidamente: che il denaro non sia che la rappresentazione dei beni e dei diletti del mondo, un mezzo per procurarseli…

– E vorresti procurarteli, privandoti del denaro? Proruppe Jacob, lo sguardo sfavillante di sdegno. Ma, per la grandezza dell'Eterno! chi ha potuto far penetrare in te queste false idee speciose?

La prese per un braccio e glie lo serrò con una forza di che non si sarebbe creduto capace il suo piccolo corpo.

– Con chi hai parlato?

– Con nessuno, con nessuno: rispose affrettatamente Ester atterrita.

Il padre ne lasciò il braccio e disse coll'accento d'una vera emozione:

– Tu non sai qual dispiacere mi hai dato con queste poche tue parole. Non pronunziarne di simili mai più!.. Voglio sperare – sì, lo credo anzi – che tu non sei conscia della loro importanza e le hai dette per giovanile leggerezza soltanto; ma esse mi hanno fatto travedere un pericolo, cui non ho creduto possibile sinora, ma il quale, se esistesse, guai!.. il pericolo che, spento me, i miei tesori possano andar dispersi, che tu non che continuare l'opera mia, quando io non sia più, empiamente la distrugga. Se ciò avesse da essere, Ester, guarda! preferirei gettare i miei tesori nel più profondo abisso… e quanto a te, preferirei che tu non fossi nata…

– Padre! Esclamò la fanciulla tendendo le braccia supplichevoli.

Arom prese un accento dolcereccio e che voleva essere affettuosamente persuasivo:

– Tu non le dirai mai più queste cose, non è vero? E ti guarderai ben bene eziandio dal pensarle, neh Esteruccia mia? Sai se ti voglio bene! Sei la pupilla degli occhi miei. Anche per te io mi sono rallegrato molte volte di avere raccolto tanto tesoro. Tutto questo, mi sono detto, rimarrà a mia figlia. Te – te sola al mondo – ho fatto partecipe di tutti i miei segreti; ti ho aperta sempre l'anima mia dinanzi – come il mio scrigno – e ti ho lasciato vedere per entro. Ho voluto che fin da giovanetta tu gustassi l'impareggiabile diletto di possedere e di saper di possedere. Ho sperato, anzi ho creduto che le mie idee passassero in te, che la mia anima informasse al suo stampo la tua. Tu sei il sangue dei mio sangue, sei la carne della mia carne; devi continuare tuo padre nell'esistenza terrena, come io ho continuato il mio, il quale aveva già dal suo attinto propositi e carattere, e così via via, per generazioni e generazioni. Ma se tu mancassi alla mia speranza, se tu mancassi al tuo dovere; oh te lo affermo, io ti strapperei dal mio cuore, come si strappa un membro guasto dal corpo, io riconoscerei che tu non sei generata dall'anima mia, non ti avrei più qual figlia; e quand'anche fossi morto, la mia maledizione, che affido nelle mani dell'Eterno, ti colpirebbe come ingrata e spergiura…

– Oh! non dite così, padre: tornò ad esclamare la giovane, più pallida e più turbata di prima. Non badate a quelle mie parole… Dissi a caso… senza rifletterci…

– Va bene, va bene: continuava il padre; ti credo, mi piace crederti. Mia figlia non può nutrire colpevoli desiderii… Ad ogni modo ascoltami. Se sei degna di me, mi comprenderai. Vi hanno per l'uomo godimenti materiali e godimenti ideali. Quelli soddisfano il corpo, questi lo spirito; i primi sono volgari, son bassi, son vili; gli altri son nobili, sono i soli degni di esseri eletti. La nostra razza, prima e più nobile di tutte, manifesta la sua supremazia nel suo idealismo… Ora anche nel godimento del denaro vi è questa distinzione, e non si contentano della parte migliore quelli che hanno scelto le soddisfazioni materiali. Spendendo il denaro, io non posso avere che questo o quel diletto particolare, concreto, transitorio, consumato il quale nulla più mi resta in mano; conservandomi l'oro invece, appunto perchè esso è la rappresentazione di tutti i beni del mondo, io continuo a possedere in potenza tutte le cose rappresentate, ogni delizia dell'universo; non lo immaterializzo, non lo impiccolisco in cosa particolare, ma ne godo in modo ineffabile, astrattamente, idealmente, perpetuamente, senza soluzione di continuità.

I suoi occhi brillavano per una strana voluttà, le sue mani tremavano per commozione. Ester rimaneva immobile, il capo chino, pallida e muta.

Povera Ester! Come diversamente intonata da quella del padre era in quel tempo l'anima sua!

Fino ad una data epoca, ella aveva vissuto della vita di suo padre, aveva pensato, voluto, desiderato col pensiero, colla volontà, coi desiderii di lui. Il sangue che le correva nelle vene si commuoveva, come quello di chi glie l'aveva dato, allo aspetto dell'oro; aveva ella udito, fin da quando primamente potè intendere parola, magnificar sempre e tanto quella ricchezza di cui sì accuratamente si nascondeva il possedimento che, senza comprendere ben bene che cosa essa fosse, senza domandarsi menomamente allora a che cosa servisse, aveva posto ancor ella nel denaro un culto devoto. Jacob aveva avuto allora nell'anima della figlia un'appendice, per così dire, della propria. Quindi non esitava punto, innanzi ad essa, a manifestare il suo pensiero ed a ricorrere le proprie azioni ed a ripetere i proprii disegni, come fa l'uomo che parla a se stesso e con sè. Le orecchie della giovinetta avevano udito quello che nissuna creatura vivente non aveva dovuto e non dovrebbe saper mai.

Allevata in mezzo alle privazioni poco men che della miseria, sapendo ciò nulla meno che il suo piede calpestava immensi tesori che sarebbero stati, che eran suoi, Ester aveva accresciuta da ciò quella forza di volontà che già aveva recata dalla natura, aveva concentrato e rinvigorito ancora un carattere ardente e risoluto, a cui dava novello rincalzo la dissimulazione, ed aveva acquistata una certa persuasione di potere quasi di sicuro conseguire ciò che volesse, quel dì che potentemente volesse.

Un giorno era avvenuto, nella monotonia invariabile della sua esistenza, un fatto semplicissimo che pure aveva posto in lei il germe d'una interna, compiuta rivoluzione. Un nuovo elemento era entrato nell'anima sua, il quale doveva svolgersi a poco a poco, ingrandirsi, diventar predominante e passar quindi sopra ed innanzi a quegli altri pochi ed aridi affetti che la occupavano dapprima. La sua esistenza erane stata come divisa in due. Il primo periodo tutto silenzio e tenebre; un'indifferenza accompagnata da un assopimento dell'anima. Il secondo un risveglio, una luce nella notte interiore, la rivelazione d'un Dio sopra un misterioso Sinai dell'affetto e del pensiero; l'accensione d'una lava che si comprimeva sotto le sembianze dell'antica apatia.

Questo fatto così fatalmente efficace era stata la comparsa in quella stanza terrena dove Ester soleva lavorare, di Gian-Luigi.

La figliuola di Jacob non aveva allora che quattordici anni, e fino a quel punto l'assopimento dell'anima e del corpo l'avevano mantenuta in una apatia che non era, ma quasi poteva uguagliare la innocenza che ignora. Però sotto quell'indifferenza il precoce sviluppo del fisico e l'audace natura dell'intelletto preparavano celatamente le materie infiammabili della passione. Nel suo sangue era il germe dell'ardore orientale della sua razza. Nella sua bellezza come nella sua natura c'era la tremenda potenza di voluttà della Sunamite.

La bellezza non era ancora apparsa agli occhi suoi sopra nessun volto d'uomo, da nessun occhio di giovane aveva visto raggiare quel baleno di sguardo che penetra nell'anima; una lusinga, una provocazione, una fiamma. Gian-Luigi aveva nella persona la venustà d'una statua greca, nella fierezza del sembiante l'autorità d'una supremazia data dalla natura, nei modi l'agiatezza elegante del gran signore, negli occhi neri il fascino seduttivo di cui Mefistofele aveva armato Fausto contro la povera Margherita. Quella prima volta, Ester non l'aveva visto che pochi minuti, poichè il padre erasi affrettato ad allontanarla; ma l'impressione era tuttavia stata in essa viva e profonda. Più tardi, frequenti volte era avvenuto che il giovane comparisse in quella squallida dimora; e lo faceva con quell'aria di padronanza che a lui era naturale e cui, verso il vecchio ebreo, erano tante le ragioni a giustamente attribuirgli. Ester, partendo, mandata di sopra dal padre sempre sospettoso, scambiava con lui uno sguardo; e quello sguardo era una confessione, era poco meno che una promessa, cui Gian-Luigi non era tale da lasciar cadere inefficace.

Un giorno, parecchi mesi prima dell'epoca in cui si svolge il nostro racconto, Jacob aveva dovuto recarsi a Genova per gli affari suoi, e Gian-Luigi lo sapeva. Il vecchio ebreo contava sulla fedeltà di Debora, obliando come l'oro vinca fedeltà ben più salde che non quella d'una vecchia fante, specialmente di tale che era invecchiata in mezzo a gente che avaramente idoleggia il denaro. Gian-Luigi comprò la serva e fu l'amante di Ester. Da quel giorno, per costei cominciò una esistenza di tormenti indicibili. Ella sapeva quanta ferocia si nascondesse sotto la finta mansuetudine di suo padre; ella conosceva l'odio accanito contro i cristiani che contenevasi nella debolezza di quel vecchio; – e il suo amante era un cristiano! Nessuna speranza adunque di lieta conclusione all'amor suo, fuorchè in una sventura, il pensare soltanto alla quale, non che desiderarla, era una colpa: voglio dire la morte del padre. Questi le aveva detto infinite volte la onnipotenza della ricchezza; ed Ester si sapeva assai ricca. Quella tanta quantità di oro accumulato avrebbe potuto far superare ogni ostacolo. Sì; ma fra quell'oro e lei c'era il padre… Ella scacciava con raccapriccio siffatte idee, e si abbandonava alla fiducia dell'ignoto. Una fiata un leggier barlume di speranza era balenato alla misera fanciulla. Jacob, secondo che soleva di frequente, magnificandole quelle ricchezze che aveva raccolte e la potenza loro, era uscito in queste parole:

– Tutto questo sarà tuo… Bisogna cercarla col lanternino una principessa che ne abbia altrettanto. Tu potresti volere a tuo sposo non so chi, che l'avresti vinta.

 

– E voi, padre: diss'ella palpitando: voi mi lasciereste sposare quell'uomo che desidererei?

– Certo che sì: rispose il padre colla sua finta bonarietà.

L'anima della giovane si allargò nella subita invasione d'una speranza piena di gioia.

– Perchè, soggiungeva il vecchio, sono più che persuaso come tu non desidereresti se non tale che a te ed a me convenisse pienamente. Voglio dire un israelita del mio stampo, che la pensi come penso io, che sia capace di fare quel che faccio io, e che sapendo continuare la mia opera, sia degno effettivamente di diventarmi figliuolo.

Ester chinò il capo e non parlò più.

Dal momento poi in cui si era accorta d'esser madre, per la figliuola di Jacob s'accrebbero a mille doppi i tormenti, le paure, le angoscie crudeli dell'animo. Gian-Luigi inoltre aveva di molto diminuita la frequenza delle visite che le faceva nelle assenze del padre; e la infelice ragazza s'accorgeva pur troppo che questa era una diminuzione d'amore; se pure mai aveva meritato questo nome sublime, il sentimento che aveva tratto quel seduttore ad abusare dell'imprudente abbandono di Ester.

– Tu mi hai capito bene, figliuola mia, non è vero? Dopo una pausa riprendeva Jacob in quel colloquio con sua figlia, il quale aveva luogo innanzi alle ricchezze della cassa di ferro spalancata. Tu, per essere degna figliuola di tuo padre, per corrispondere al tanto affetto ch'e' ti porta, tu amerai l'oro di quel vero amore con cui deve essere amato, con quel giusto amore che si merita; tu odierai i cristiani con quel vero e giusto odio che si meritano.

Ester si riscosse, impallidì e tacque.

– Un giorno penserò a darti un compagno che corrisponda alle ragionevoli esigenze tue e mie; un compagno che s'immedesimi in noi e nei nostri disegni e propositi, che mi aiuti quando io sia stanco affatto e impotente… Oh! non sarà tanto presto. Io mi sento forte e robusto, e qui dentro ho un vigore nella volontà, che non accenna a venir manco. Tu altresì sei tanto giovane ancora!.. D'altronde non sarà mica il primo venuto a cui vorrò dare questo tesoro di bellezza, di istruzione e di virtù…

Accarezzò il mento della figliuola che rimase impassibile e fredda come una statua.

– Il più bel fiore d'Israele, senza contare le sue ricchezze. Voglio che sia un israelita su cui si compiaccia l'occhio dell'Eterno e lo spirito dei nostri padri… e che conosca per bene le ragioni del nostro commercio.

Ester, come fastidiata da siffatto discorso, interruppe:

– Devo dunque scrivere sul libro dell'avere questi guadagni del giorno? Diss'ella.

– Sì, e scrivi le nuove cifre sulle polizze dei sacchetti.

La giovane si pose all'opera; il padre, guardando di sopra la spalla di lei seduta seguitò cogli occhi la penna che rapidamente tracciò quelle cifre che occorrevano; poscia libri e sacchetti furono riposti nella cassa, questa venne chiusa accuratamente, e le chiavi nascoste dove erano prima.

– Ah! Esclamò allora Jacob soffregandosi di nuovo le mani: ecco una mattinata che è andata bene. Mi sento appetito. Andiamo a mangiare la minestra che ci ha preparato Debora.