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La plebe, parte II

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CAPITOLO XVI

Il dottor Quercia era aspettato dalla contessa di Staffarda e i domestici senza indugio gli aprirono le porte che conducevano nel riposto gabinetto di lei.

Candida lo accolse con un freddo saluto, fece affrettarsi la cameriera che finiva la delicata ed importante opera della pettinatura e la congedò sollecitamente.

– Voi avete ricevuto il mio biglietto, contessa? Domandò il giovane appena fu solo con lei.

– Sì: rispose la donna con asciutto contegno; ma il laconismo di esso mi ha spiegato poco e mi ha fatto pensar molto. Spero che voi ora mi chiarirete di tutto.

– Certo! Son persuaso che voi tuttavia avrete fatto ciò di cui vi pregavo.

– Esattamente. Ho parlato a mio marito ed ho scritto a mio padre.

– Che cosa disse il conte?

– Che si sarebbe recato subito dal generale Barranchi.

– Bravo conte! E il barone La Cappa?

– Mi rispose questo bigliettino.

Prese sopra la tavoletta una cartolina ripiegata e la porse a Luigi.

Questi lesse le parole seguenti:

«Qual interessamento prendi tu per quei due giovani scapati? Io li conosco di nome e so che appartengono a quella impertinente razza di liberali che non è male corregger di quando in quando con qualche buona strigliatina. Lascia un poco che la Polizia tenga per alcuni giorni a temperare all'ombra il cervello esaltato di questi giovinotti, e non vi sarà male nessuno. Prima di recarmi a disturbare S. E. il Governatore, aspetto che tu insista, se lo crederai opportuno, nella tua domanda.»

Un amaro sogghigno si dipingeva sul volto di Luigi mentr'egli veniva leggendo la letterina del padre di Candida.

Questa intanto con uno sguardo fisso che avreste detto corrucciato, quasi ostile, esaminava la fisionomia del giovane. La pallidezza delle guancie, la livida riga che ne disegnava le occhiaie, l'espressione di abbattimento doloroso che aveva il suo volto, dinotavano come non fossero state ore di riposo per lei quelle che avevano tramezzato fra il ballo della notte e quell'abboccamento.

– Cospetto! Disse Luigi con ironia, quando ebbe finito di leggere. Il signor barone, vostro padre, è più realista del Re e più poliziesco della Polizia…

– Signor Dottore: interruppe seccamente la contessa: vi prego di non dimenticare che parlate a me, di mio padre.

Luigi alzò vivamente il capo a guardare in viso la donna, come stupito e dell'osservazione e dell'accento con cui era fatta. Vide quella certa ostilità a suo riguardo, che ho detto, negli occhi di lei, e ne cercò fra sè la possibil cagione. Le pupille dei due giovani stettero un istante fisse le une nelle altre; poi, come sempre le avveniva, come avveniva a tutti, la donna dovette abbassare le sue innanzi al bagliore di quelle di lui. Egli intanto aveva trovato la ragione del segreto corruccio di Candida; s'era ricordato del dialogo che aveva avuto con essa la notte, in quel salotto dell'Accademia Filarmonica, dove la marchesa di Baldissero aveva poi superbamente e indirettamente ripigliata e sermoneggiata la contessa Langosco. Sorrise: studiò un momento qual mezzo avesse da prendere per vincere siffatta ostilità, e decise attenersi alla dolcezza, perchè, rifacendosi a parlare, scelse nella sua voce le note più soavi e simpatiche onde tanta efficacia egli poteva avere sul cuore altrui.

– Ah! io sono ben lontano dal voler dir cosa che possa offendere tuo padre, e dispiacere a te: diss'egli prendendo alla contessa una mano e baciandogliela con amoroso ardore.

Quella voce, alla povera donna innamorata, fu come una tenera carezza in sull'anima; a quel bacio sulla destra un brivido di sensazione dolcissima le corse tutti i nervi. Pure levò via la sua mano di mezzo a quelle e di sotto le labbra di Luigi.

– Che cosa credete dunque che io debba fare? Domandò la contessa.

– Insistere, per Dio! Rispose vivamente Quercia. Insistere in quel modo che tu sai, al quale non v'è resistenza possibile.

Candida sorrise con dolorosa amarezza.

– Risparmiatemi queste assurde adulazioni. Troppo vi siete adoperalo voi stesso a provarmene la falsità col fatto vostro. Ho insistito una volta sola presso di voi – questa notte – e il mio successo fu tale da non insuperbirmi.

Luigi non seguitò la donna su questo nuovo campo ch'ella apriva al discorso. Egli si fece più presso ancora alla contessa, tornò a prenderle quella mano ch'ella gli aveva tolta, e coll'accento più persuasivo e più insinuante ond'egli fosse capace, soggiunse:

– E non è più per lettera che tu insisterai presso tuo padre. Quattro pagine di scritto non hanno l'efficacia di due parole di viva voce dette da quelle labbra di corallo. Tu darai ordine di attelare i cavalli, passerai tu stessa dal barone e non lo lascierai più finchè non esca teco; lo condurrai colla tua carrozza medesima alla porta del Governatore; ed ecco fatto tutto.

La contessa guardava con una specie di meraviglia quell'uomo che con tanta sicurezza disponeva di lei.

– Sapete che voi siete un uomo sorprendente davvero!

– Io! Perchè?

– Voi credete di potere in ogni modo e sempre far di me quel che vi piace.

– Io credo poter fare a fidanza colla vostra generosa bontà.

Candida cedendo all'impeto dei sentimenti che la dominavano, proruppe con accalorato accento:

– Ieri sera io vi ho implorato in nome del nostro amore, quasi colle lagrime, coll'oblio certamente della mia stessa dignità…

– Ah! non dite così, contessa.

– Voi foste irremovibile. Voi vedeste il mio dolore e la mia umiliazione, e nulla potè ispirarvi nemmanco una parola di promessa. Voi sapeste che mi lasciavate ad una notte di angoscia, ma il vostro egoismo non se ne diede per inteso…

– Permettete, contessa…

– Questa mattina ricevo un vostro biglietto… Ho avuta l'ingenuità d'illudermi un istante. Egli mi scrive, pensai, per temperare con parole d'affetto la sua cruda ripulsa di ieri sera; forse per promettere al mio amore quel lieve sacrificio che gli domandò la mia gelosia. Aprii palpitando quella carta… Ah! non parlava in essa menomamente l'amore.

– Parlava l'amicizia che ho per quei due giovani, i quali hanno bisogno del nostro intervento. Quando io amo – uomini o donne – amo con ardore; e quelli per cui vi scrissi mi sono molto cari.

All'udire fatto cenno da Luigi della sua ardenza nell'amare, Candida atteggiò le sue labbra alla tacita protesta d'un amaro sogghigno. Ora ella volle parlare, ma il giovane non glie ne lasciò tempo, e prendendole anche l'altra mano per istringerla insieme con quella che già teneva fra le sue, continuò egli a parlare sempre più insinuante, più affettuoso, più seduttivo:

– Ascoltami, Candida, per l'amor del cielo, che io t'ami, e come, hai tu bisogno ancora d'udirmele a dire ed a giurartelo sull'anima mia? Non vedi che tutti gli atti della mia vita ad altro non sono intesi fuorchè a questo unico scopo: vederti, esserti presso, vivere in quell'ambiente in cui tu vivi, seguirti in quelle splendide sfere che tu, astro brillante e benigno percorri? L'udire da te manifestato pure un sospetto sulla intensità e sulla fedeltà dell'amor mio, è per me un oltraggio che mi offende, e innanzi a cui s'inalbera e riagisce – troppo forse anco – l'orgoglio della mia natura, la coscienza di non meritarlo. Ecco perchè ieri sera alla tua domanda opposi forse troppo aspro il diniego…

Serrò con una sola delle sue le piccole mani di Candida, e si passò la destra sulla fronte e sugli occhi, mandando un profondo sospiro, come uomo assalito da una delle più penose sensazioni.

– Ieri sera, inoltre, io mi trovava, come mi trovo tuttora, sotto la più trista impressione d'una delle maggiori disdette che mi sieno toccate.

La contessa vide la bella faccia di Luigi, così abile ad esprimere ogni fatta sentimenti, dipingersi di tanto cordoglio ed abbattimento che ne sentì tosto e profondo tocca la sua anima pietosa di donna innamorata.

– Che cosa t'avvenne? Domandò essa vivamente chinandosi verso di lui.

– Nulla, nulla. Non parliamo di ciò…

– Parliamone invece. Tutto ciò che riguarda te, non tocca me pure?.. Dimmi la verità, Luigi.

– Perchè amareggiarti inutilmente?.. Volevo che tu nulla riuscissi nemmanco a sospettare, e ier sera nascosi tanto bene la mia passione, che tu hai piuttosto accusato l'amor mio che indovinata la mia sciagura. La necessità di combattere i tuoi sospetti, che troppo sono dolorosi al mio cuore, mi fece ora sfuggire dalle labbra quelle parole. Ti bastino per ispiegare il mio contegno, e non voler sapere di più.

– Sì, voglio, e ci ho diritto… Perchè sarebbe inutilmente ch'io apprenderei questa tua nuova traversìa? Chi sa ch'io non possa venirti in aiuto!..

– No: prorruppe con impeto Luigi: questo poi no. Troppo già mi adonto di quello che hai fatto per lo addietro a mio vantaggio. Non voglio più nulla da te.

Candida così era chiara di che si trattava. Guardò un istante Luigi che teneva gli occhi volti alla terra e poi disse:

– Tu hai bisogno di denaro.

Quercia chinò la testa.

– Di molto?

– Moltissimo: rispos'egli a voce bassa.

– Quanto?

– Cinquanta mila lire.

Tacquero un istante tuttedue.

– Oh! come procurarsele? Disse poi la contessa.

Luigi scosse la sua testa leggiadra.

– A questo penserò io; tu intanto, dolce amor mio, non crucciartene. Ho ancora nel mondo abbastanza amici che, pregati, si faranno premura di sovvenirmi… Ah! gli è codesto che ripugna al mio orgoglio: pregare altrui!.. Al postutto questa somma non ho bisogno di torla ad imprestito che per pochi giorni. La settimana ventura io sarò in condizioni tali da poterla rimborsar tosto… C'è bensì una persona alla quale non avrei che da dire una parola, perchè mettesse a mia disposizione tutti gli ori e le gemme che possiede…

Candida impallidì, e i suoi occhi lampeggiarono.

 

– Ah! Esclamò essa. So a chi volete alludere.

– Ma questa parola, soggiunse affrettatamente Luigi, non la dirò a niun conto.

Successe un silenzio. Candida pareva riflettere profondamente.

– No: proruppe ella ad un tratto; tu non avrai da ricorrere ad altri… Hai detto che di questa somma hai bisogno per pochi giorni?

– Pochissimi.

– Ti do i miei diamanti… Essi valgono il doppio… Impegnali e serviti dei denari…

Luigi si gittò ginocchioni a' piedi della contessa e ne abbracciò il corpo con braccia che si sarebbero potute dire frementi di passione.

– Oh Candida! Esclamò con espressione indicibile di riconoscenza e d'amore.

– Ma io questi diamanti, ripigliava la contessa, bisogna assolutamente che li riabbia lunedì. Quella sera c'è ballo a Corte; io non ci posso mancare, e non voglio comparirci senza i miei diamanti.

– Ed io solennemente ti prometto, sull'onor mio, che lunedì mattina, senza fallo, li riavrai.

La contessa, senza aggiunger parola si alzò, aprì il suo stipo e mise in mano di Luigi le buste dei suoi diamanti.

Quercia la ricompensò con parole e carezze di tanta ardenza che la misera donna ne fu tutta beata.

– Luigi! Disse poi con languido abbandono la contessa, posato il capo sul petto di lui. Non c'è sacrifizio ch'io lieta non facessi per te. E tu, a tua volta, non vorresti soddisfare al mio desiderio in quella sì poca cosa che ti domando?

Gli occhi e la fronte di Quercia si oscurarono, per così dire, in un'espressione di fastidio e di contrarietà, mentre le labbra continuavano tuttavia a sorridere con amorosa dolcezza.

– Diletta mia, rispose egli, non voler ora parlar di codesto. Già ti ho detto più volte come certe mie ragioni particolari mi obbligassero ad andare in quella casa. Ti giuro che io per quella donna non ho il menomo sentimento che ti possa dar ombra, che non si scambia fra noi la menoma parola che possa dirsi d'amore. Ciò non ti basta?

Candida scosse il capo con leggiadra ostinazione, ma il suo amante le chiuse le labbra che stavano per parlare con un bacio.

– Taci, amor mio dolce, e lascia ch'io ti rammenti i miei due amici arrestati. Si tratta d'un'opera di carità. Se tu avessi visto la desolazione dei poveri genitori di Benda, ne avresti avuta commossa oltre ogni dire la tua bell'anima.

Le raccontò tutto quanto era occorso nella mattinata, e poi soggiunse:

– Bisogna che tu faccia comprendere a tuo padre, perchè lo ripeta al suo amico il Governatore, che con questi eccessi il Governo altro non ottiene che di far nascere a suo danno, e di far crescere nelle classi colte un odio il quale potrà riuscire a dilungo a indebolirlo ed a preparargli serii impacci. Aggiungi che questi atti meno lodevoli e giustificabili, sono sempre il fatto di agenti subalterni che vanno al di là delle intenzioni dei superiori, sui quali poi tuttavia ricasca la responsabilità e l'odiosità degli atti medesimi; puoi sopratutto citare quello stesso agente che procedette all'arresto de' miei amici ed alla perquisizione in casa Benda, un certo Barnaba… E ti prego anzi d'insistere su questo punto, perchè se non viene dall'alto un cenno a mettere le pastoie allo zelo di questo poliziotto, siamo noi pure che corriamo un rischio, per evitare il quale farei non so che cosa.

– Oh come? Domandò la contessa. Che rischio possiamo correr noi?

– L'esser io amico di quei due giovani, il mio carattere indipendente e la franchezza della mia parola hanno di certo già tratta l'attenzione della Polizia su di me. Se si lascia procedere per la strada intrapresa, quel cotal Barnaba è capace di venire a perquisire anche il mio domicilio, e la riposta casetta, così tranquillo asilo all'amor nostro. Ora io ho una cosa sola cui ci tengo a nascondere all'occhio di qualunque – le tue lettere; e prima di lasciarle cadere in mano di chicchesiasi, mi farei uccidere…

– Hai ragione: disse la contessa spaventata all'idea che le sue lettere d'amore potessero venire in possesso d'altri che colui al quale erano scritte, spaventata ancora di più al pensiero del pericolo a cui si sarebbe esposto il suo amante nel volerla difendere. Hai ragione, e bisogna assolutamente che ciò non avvenga.

– E questo può ottenere tuo padre per mezzo del Governatore, e tu devi fare in modo che l'ottenga.

– Lo farò.

– Una buona lezione a quel Barnaba metterà un freno allo zelo e di lui e degli altri.

– Egli avrà questa lezione… Barnaba è il suo nome?

– Sì: lo ricorderai?

– Sta tranquillo. Vado subito da mio padre.

Dieci minuti dopo la carrozza era pronta, e la contessa di Staffarda, vestitasi in tutta fretta, si faceva condurre al palazzo del barone La Cappa.

Gian-Luigi intanto, colle buste dei diamanti avuti da Candida, dirigevasi verso l'alloggio di messer Nariccia.

L'illustrissimo signor barone Anatolio La Cappa aveva comperato lo stupendo palazzo monumentale dell'antica famiglia – ora estinta – dei conti De Meyrat, e l'aveva fatto ristaurare a nuovo, e rindorare, come si suol dire, su tutte le costure. Nel frontone del palazzo, in luogo di quello della stirpe savoina che prima lo aveva posseduto, si pavoneggiava, alto di due metri, lo stemma inventato da qualche araldista nel 1814 per l'illustre prosapia dei La Cappa, sormontato dalla corona baronale; nella traversa su cui si rabbattevano le due larghe imposte del portone da via, di legno riccamente scolpito, brillava nella sua fresca indoratura il blasone dei La Cappa con sopravi la sua brava corona da barone; le colonne di pietra del Malanaggio che sostenevano la vôlta dell'atrio, erano ornate a metà dall'inevitabile corona baronale, sotto cui pendeva lo stemma; nei pilastrini della balaustra di marmo che accompagnava la scala, facevano bella mostra di sè altrettanti blasoncini colla corona baronale ancor essi; questa eterna corona e questo eterno blasone la sfoggiavano sulle livree gallonate dei domestici, sulle cassapanche dell'anticamera, sulle spalliere scolpite delle seggiole nella camera da pranzo, su quelle indorate delle poltroncine nella sala di ricevimento, sulle cornici dei quadri nella famosa galleria degli antenati comperati dal rigattiere, sulle tappezzerie delle muraglie, sulle biancherie da tavola, sulle argenterie d'ogni fatta e sul collare del can griffone, delizia ed oramai unica compagnia in quel vasto palazzo del signor barone.

In mezzo a tutti questi stemmi il padre della contessa di Staffarda, ricco di denari e di superbia, s'annoiava tremendamente col titolo, il grado e la pensione di riposo d'intendente generale – che oggi direbbesi prefetto. A fare un po' di variazione alla noia arrivavano di quando in quando i dolori della gotta, cui un tempo così efficacemente giovava ad allenire la presenza della figliuola. Le chiacchere serali al caffè Fiorio, le visite al suo eccellentissimo amico il Governatore, la partita a whist nel club dei nobili, la lettura della Gazzetta Ufficiale occupavano alcune ore della giornata del signor barone; il resto lo possedeva padrone assoluto – meno nel tempo de' pasti – lo sbadiglio.

Mai non vi fu uomo che più felicemente giungesse al compimento de' suoi desiderii, e che dopo ciò fosse più profondamente stufo ed annoiato. La sua ambizione era giunta ad uno dei primi gradi nelle dignità amministrative: la sua vanità era soddisfatta di un grandissimo numero di croci che gli decoravano il petto: il suo amore della ricchezza aveva visto raddoppiarsi il vistoso patrimonio lasciatogli dal padre; la sua smania di aristocrazia andava soddisfatta per vedere imbrancata alla nobilissima e storica famiglia dei Langosco di Staffarda la sua unica figliuola.

Eppure s'annoiava – tremendamente, profondamente, irrimediabilmente. Finchè Candida era rimasta con lui, molte delle ore della sua giornata avevano una sicura piacevolezza nella compagnia che gli faceva la figliuola; la presenza di quest'essa bastava da sola a spandere un non so che di aggradevole nei vasti ambienti del vasto palazzo; la vita del padre pareva avere in lei incarnato dinanzi lo scopo e la occupazione che le spettavano. Sparita la giovane, quel palazzo divenne silenzioso come un convento di trappisti e deserto come una rovina. Il vecchio barone s'aggirava per le sontuosità di quelle sale come un'anima in pena condannata al domicilio coatto in un luogo abbandonato. Da principio Candida ci tornava di frequente a fare splendere, in mezzo alle dorature del palazzo paterno, la sua fresca bellezza: e avreste detto che quello sfarzo pesante ne rimanesse per un poco rallegrato, come avveniva all'animo del padrone; ma la contessa di Staffarda non recò a gran pezza colà il primitivo suo buonumore di ragazza. La noia che attingeva essa stessa nel palazzo e nella convivenza maritale, la portava seco, tradotta in taciturnità dì parole, in pallidezza di guancie, in espressione di malavoglia nella fisionomia. Il padre si stancava a domandare alla figliuola: «Che cos'hai?» ed ella s'impazientava a rispondere sempre, invariabilmente: «Non ho nulla.» Poscia venne il periodo in cui Candida s'abbandonò pazzamente alla agitazione febbrile della vita mondana, faticosa per incessanti divertimenti, per vertiginoso avvicendare di toilettes e di feste. Colle giornate prese dalla sarta, dalla crestaia, dal negoziante di mode, dalla pettinatrice, fra il riposo della tarda mattina, e il ricevimento del salotto nel pomeriggio, e il teatro la sera, e poscia i balli la notte, la contessa non ebbe più tempo da recarsi da suo padre; e a non molto andare la non ci pensò più nemmanco; le sue visite al palazzo La Cappa non ebbero più altra ricorrenza che quella delle occasioni solenni.

Più tardi sopravvenne ancora la sua fatale passione, che a Candida fece obliare poco meno che il resto dell'universo. Il barone Anatolio fu più trascurato che mai. Egli non osava lamentarsene, e nemmeno dar torto fra sè alla figliuola: una contessa Langosco era al di là dell'arrivo d'ogni rimprovero; ma sentiva ogni giorno più uggiosa la solitudine in cui veniva abbandonato. Le graziosità e il dimenar della coda del suo prediletto cagnuolo non lo consolavano che mediocremente; nemmeno l'umiltà impertinente del servitorame e le corone baronali de' suoi stemmi con tanta larghezza profusi non pervenivano più a temperargli il fastidio accarezzandone la boria. Il peggio era quando quella sfacciata d'una gotta aveva la temerità di assalire le nobili giunture delle sue gambe baronali. Come allora si faceva avvertire la mancanza della mano carezzevole, della voce confortatrice, delle cure sollecite, amorose ed intelligenti della figliuola! Alle sue scampanellate colleriche, il barone non vedeva accorrere che le faccie impassibili dei domestici, i quali nel rispettoso loro contegno di servi di nobil casa mandavano il padrone ai cento mila diavoli; ai suoi lamenti e ai gridi di dolore, egli non udiva rispondere che il silenzio indifferente di chi se ne impipa.

Quel giorno adunque che la contessa aderendo alle brame di Gian-Luigi, recossi in casa del padre, fu per costui la più inaspettata e più gradevol sorpresa del mondo. Non avendo ricevuto controrisposta al suo bigliettino, egli aveva creduto che la figliuola avesse di piano rinunziato alla raccomandazione che gli aveva mandata quella mattina per lettera, e mai più non avrebbe sognato che essa medesima sarebbe venuta da lui in persona.

Quando si venne ad annunziare al barone che la carrozza della contessa era entrata nel cortile e che la contessa medesima saliva le scale, egli che sbadigliava innanzi al fuoco, studiosamente avvolto nella sua veste da camera di seta e di velluto, fece un sobbalzo sopra la sua poltrona. Si fece ripetere l'annunzio, quasi temesse di non aver ben capito; non pensò il meno del mondo ch'ella venisse per quei due borghesucci di cui gli aveva scritto alcune ore innanzi, e di cui egli non si ricordava più nemmanco; ma pensando che di questa straordinaria venuta doveva esserci uno straordinario motivo, s'affrettò a muovere incontro alla figliuola che già calpestava il ricco tappeto della sala vicina.

– Che? Sei tu per davvero, mia cara contessa! Esclamò il barone, tendendo verso sua figlia le maniche di seta lucicchianti della sua veste da camera, nelle quali si agitavano le sue braccia. Che buon vento ti mena così di mattina da me? Hai tu forse bisogno di qualche cosa?

Candida, che sapeva il facil modo onde avere a sua discrezione l'anima del padre, gli gittò le braccia al collo e gli fece due baci sonori sulle guancie accuratamente rase di fresco.

– Sì, papà: rispos'ella. Ho precisamente bisogno di te, e son venuta a parlarti.

Il barone la prese per mano e disse con tutta sollecitudine:

– Vieni, vieni nel mio gabinetto. Ehi! Comandò al domestico che aveva introdotta la contessa e che stava ancora dritto impalato sul passo della porta: chiunque venga a cercarmi, gli direte che non ricevo… Sono tutto tutto per mia figlia.

 

– To', una bella idea! Soggiunse il barone. Tu starai qui a farmi compagnia al déjeuner. Manderemo ad avvertire il conte ch'e' non t'aspetti… E se vuol venire ancor egli a far da terzo alla nostra tavola, ma foi! ci sarà il benvenuto.

Il barone aveva creduto bene di prendere ancor egli il vezzo aristocratico di frammischiare nel suo linguaggio parole e locuzioni francesi.

– Grazie, papà: rispose Candida. Accetto il tuo invito…

Il volto del padre raggiò di gioia.

– Oh brava!..

– Ma ad un patto, soggiunse vivamente la contessa… anzi due.

– Sentiamo questi due patti… I quali sono già consentiti d'avance.

– Il primo che non disturberemo per nulla il conte a farlo venir qui terzo incomodo fra di noi…

– Va bene: non disturberemo il signor conte.

– L'altro patto è che tu mi prometta di fare, e subito subito ciò di cui sto per pregarti.

– Corbleu! Gli è dunque un affare che ti sta a cuore?

– Assai.

– Eh eh! Sarebbe un compromettersi l'impegnarsi così alla cieca ad accontentare un desiderio non ancora conosciuto d'una giovine donna, ma bah! con te, figliuola mia, mi posso avventurare… Accordato anche questo! Farò quel che tu vuoi.

Si volse al lacchè, il quale attendeva sempre gli ordini nella postura del soldato senz'armi innanzi al suo superiore:

– Rinviate la carrozza della contessa, dite allo staffiere annunzi al conte di Staffarda che la contessa non rientrerà per il déjeuner e prevenite il maggiordomo che la contessa farà il déjeuner con me.

Poscia, accompagnandola con tutta galanteria, egli introdusse sua figlia nel camerino in cui stava annoiandosi dapprima, e dispose per lei egli stesso una poltroncina vicino al fuoco, dirimpetto a quella cui tornò ad occupare colla sua importante persona.

Candida, colle aggraziate movenze che le erano proprie, si levò cappello e mantiglia, gettò questa e quello sopra un sofà, e venne a sedersi in faccia a suo padre che ne seguitava ogni movimento con uno sguardo che si sarebbe potuto paragonare a quello d'un ghiottone che comincia a divorare cogli occhi la leccornia che si appresta a divorar colla bocca.

Quando la figliuola gli si fu seduta dinanzi, l'illustre barone si rassettò di meglio tra le braccia soffici della poltrona, e mandò un sorriso di beatitudine che significava: – Oh bene! Ora ce l'ho, e per un poco la non mi scappa più.

– Dunque a noi! Diss'egli incrociando le mani sulle lucide falde della guarnacca, che gli coprivano l'addome. Exposez votre requête, madame la comtesse, ed io sto qui pronto a non altro che a dir sì… Già m'immagino che non sia nulla di grave. Non è con quel visino sorridente lì che si viene a parlare di cose gravi… A proposito, sai che ti trovo buonissimo aspetto! L'espressione animata, l'occhio brillante… Sei un po' pallida è vero; ma ci scommetto che gli è la fatica dei balli. Quasi ogni giorno una festa; e sono persuaso che la notte scorsa, all'Accademia, avrai ballato fin presso al mattino. Io me ne sono ritirato poco dopo la venuta della Corte. Appena S. M. mi ebbe fatto l'onore di rivolgermi la parola e di ricevere il mio ossequio, quatto quatto io me ne sono partito. Eh! la mia età e la mia gotta non si accomodano più di queste nuits blanches.

Il bravo barone si affrettava a spacciar subito subito un poco di quell'arretrato di ciance, cui la solitudine della sua vita non gli lasciava più smaltire periodicamente. La figliuola lo ascoltava con un sorriso compiacente a fior di labbro, ma senza prestargli attenzione, e la sua mente era lontana, era nell'elegante casina di Luigi, dove poteva avvenire da un momento all'altro che una mano profana si impadronisse delle sue lettere d'amore.

Ella interruppe adunque suo padre.

– Ciò che son venuta a domandarti, lo sai già; te l'ho scritto poc'anzi in una lettera.

– Che? che? Si tratterebbe di quei due giovani avvocatuzzi che tu mi hai appreso essere arrestati?

Candida fece un segno affermativo colla testa.

– Tu insisti adunque, perchè io mi adoperi in loro vantaggio presso il Governatore?

La contessa ripetè più vivamente i suoi segni di affermazione.

– E sei venuta qui da me a bella posta?

– Precisamente.

– Ma che interesse pigli tu in codesto? Che attinenze hai tu con siffatta gente?

– So che non meritano la brutta misura onde furono fatti segno. M'interesso per una buona e brava famiglia, la quale è nella desolazione.

La faccia del barone mostrò che la commissione datagli dalla figliuola non gli andava troppo a genio.

– Uhm! Diss'egli di mala voglia; poichè tu insisti, poichè tu la prendi sì calda…

– E tu hai promesso di accontentarmi…

– Poichè te l'ho promesso, farò a tuo senno. Scriverò, dunque un bigliettino a S. E.

Candida si ricordò delle parole che aveva dette a lei medesima Gian-Luigi.

– Ah no, un bigliettino. Hanno più efficacia quattro frasi dette a viva voce che non quattro pagine di scritto per quanto eloquentissime.

– Corbleu! Vuoi dunque che mi rechi io stesso dal Governatore, in persona?

La contessa regalò a suo padre uno de' più seducenti sorrisi onde fosse capace la sua bellezza.

– Sì, papà. Perchè si tratta non solamente di rimediare ad un mal fatto…

– Mal fatto! mal fatto… Io trovo che si fece benissimo ad arrestarli.

– Arrestare degl'innocenti è sempre male, e non serve ad altro che a creare nemici al Governo, che commette di questi falli.

Il barone inarcò le sopracciglia e arrotondò la bocca in una esclamazione di stupore.

– Cospetto! Tu mi fai della politica.

Candida fece vezzosamente un cenno affermativo, continuando nella malìa di quel suo sorriso.

– Stavo appunto per soggiungere che si tratta inoltre di dare un savio consiglio al governatore; consiglio cui nessuno può suggerire con tanta autorità al pari di te, che hai tenuto sì alte cariche nell'amministrazione e con sì buon successo.

La Cappa si rimpettì e sorrise con compiacenza.

– Certo che nella mia carriera ho mostrato di valerne bene un altro; e se in tante cose mi avessero dato retta, ma foi!… Ma sentiamo un poco questo consiglio che tu vorresti suggerito.

– Gli è di rendere la polizia meno vessatoria, perchè non infastidisca e non perseguiti cotanto i tranquilli cittadini.

Il padre di Candida fece un leggero sobbalzo per meraviglia.

– Sei tu, contessa, che mi parli de cette façon?

Ed ella, come se non avesse avuto luogo l'interruzione, con crescente calore continuava:

– Il torto di questi eccessi non è da accagionarsi ai capi, ma agli agenti subalterni. Sono essi che, non frenati, abusano di quell'arbitrio cui loro dànno le proprie funzioni. L'arresto, per esempio, di questi due giovani e la perquisizione sono dovuti ad uno di tali impiegati secondarii, un certo Barnaba, il quale mi si dice essere appunto di quelli che si piacciono nell'insolentire contro i cittadini quanto più sono onesti e pacifici.

– Ma dove hai tu appreso tutto questo?

A Candida soccorse il rimedio d'una bugia e non si arretrò innanzi ad esso.

– Da mio marito: rispos'ella. Il conte s'interessa molto ancor egli per quei due giovani…

– Ah sì?

– Ed anzi recossi egli stesso dal conte Barranchi.

– Oh allora quasi non occorre più ch'io mi muova.

– Da parte di mio marito medesimo ti prego eziandio di far questo passo presso il Governatore. Il fatto di questa mattina ha gettato necessariamente un allarme in tutta la popolazione colta della città. Se un giovane il quale non si occupa che di far l'elegante, come l'avvocato Benda, può essere arrestato e subire una perquisizione in casa, chi è più sicuro?.. Una perquisizione domiciliare può mettere in luce, o quanto meno alla discrezione di gente che non è fior di roba, tanti segreti famigliari che non riguardano in nessun modo il Governo e la cui divolgazione può essere fatalissima… Tutti gli amici e conoscenti degli arrestati a questa ora sono in pena per la propria sorte… Mio marito, per esempio ha molto timore…