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La plebe, parte II

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– Egli! Interruppe il barone con incredula vivacità. Il conte di Staffarda non ha da avere nessuna di queste paure…

– Non per sè: soggiunse la contessa; ma per un suo amico.

Esitò un momentino, e poi, volgendo un po' in là il viso mentre un lievissimo rossore le correva alle guancie, pronunziò il nome:

– Il dottor Quercia.

– Ho udito parlare di questo signorino. Un giovane che non pensa ad altro che a darsi buon tempo. Non so come si possa avere alcuna inquietudine a questo riguardo.

– Per causa dell'amicizia che esso ha col Benda.

– Bene, bene; di' pure al conte che j'en toucherai deux mots col Governatore: e che il suo amico non avrà più ragione alcuna d'inquietudine.

Candida, in un èmpito di contentezza, prese la mano del padre e la serrò forte colle sue.

– Oh grazie! diss'ella con vivacità.

Il barone la guardò stupito.

– Anche tu prendi interesse a questo signor dottore?

– Sì: rispose Candida volgendo di nuovo la testa in là, poi si affrettò a soggiungere: or dunque, papà, da bravo non perder più tempo, va subito dal Governatore; raccomandagli la liberazione degli avvocati Benda e Selva, raccomandagli non s'inquieti in niuna maniera il dottore Quercia, e che si ponga freno alla prepotenza di quel Barnaba.

– Farò tutto quello che vuoi.

– Suono perchè venga il cameriere a vestirti!

– Suona pure.

– Io ti attenderò qui colla risposta.

– E sarò sollecito a venire. Facendo déjeuner ti ripeterò il colloquio che avrò avuto col Governatore.

Il Governatore accolse il barone La Cappa con tutta la urbanità d'un gentiluomo per un altro; ma quando il padre di Candida ebbe finito di esporre le ragioni della sua venuta, S. E. rispose tentennando il capo:

– Duolmi, caro barone, non potervi accontentare; ma vi sono delle circostanze, da voi probabilmente ignorate, le quali me lo impediscono.

Prese sopra la scrivania un foglio di carta e lo porse al barone.

– Ecco qui un rapporto su questo proposito di quell'agente medesimo di cui voi mi denunziaste lo zelo come eccessivo. Datevi la pena di scorrerlo cogli occhi un momento, e vedrete come stieno diversamente le cose da quello che voi credete.

Mentre il barone stava esaminando il rapporto di Barnaba, il Governatore veniva via esprimendone per sommi capi le risultanze e le conclusioni.

– Voi vedete! Quel cotal Benda ha osato venirne a vie di fatto contro il figliuolo del marchese di Baldissero nel palazzo dell'Accademia Filarmonica, mentre era onorato dalla presenza di S. M. È un crimenlese che da solo richiede l'arresto, il processo e la condanna. Non basta! Quell'avvocatuzzo sfida a duello il marchese di Baldissero figlio, e questa mattina s'incontrano presso il camposanto affine di battersi. S. M. si è degnata di pubblicare un codice penale dove c'è un articolo – non so quale – che parla chiaro a questo riguardo. Reato positivo previsto dalla legge. Nella perquisizione che ha luogo in casa dei Benda, che cosa succede? Quell'altro, che è evidentemente un complice, l'avvocato Selva, cerca scappare portando seco i libri i più sovversivi e rivoluzionari che sieno al mondo posseduti dal Benda, ed un manoscritto che riesce a distrurre, ma cui perciò questo fatto medesimo denunzia come criminoso all'estremo. Così stando le cose, era un assoluto dovere il procedere all'arresto anche del Selva. Io avrei approvato che si fosse fatto il medesimo eziandio per quel signore cui mi venite a raccomandare, il dottor Quercia. Il suo contegno in quelle circostanze fu tale da fortemente indiziarlo per partecipe alle mene di quegli altri malintenzionati; e secondo il rapporto di Barnaba, egli sarebbe concorso efficacemente a render possibile a Selva la distruzione di quella carta, il cui possesso ci avrebbe forse svelato il segreto di quei cospiratori…

– Cospiratori! Esclamò il barone La Cappa sussultando. Che? Voi credete che quei giovani…

– Cospirano contro il legittimo governo di S. M., ne sono persuaso.

– Corbleu! Se io avessi mai sospettato una cosa simile, vi prego bene di credere, Eccellenza, che non avrei voluto dire nè anco una mezza parola in favor loro.

– Ne sono persuaso; ma perchè siate chiaro di tutto, vi dirò che quel Barnaba medesimo, uno dei più accorti ed intelligenti impiegati di Polizia che abbiamo, denunzia certe segrete conventicole solite a tenersi in casa del Selva, nelle quali avrebbe parte un agente mazziniano venuto qui di celato sotto sembianze d'un artista di canto.

– Je tombe des nues.

– L'audacia di quei rivoluzionarii è incredibile.

Mostrò al barone sconcertato un grosso manoscritto, che era lo zibaldone in cui il povero Maurilio soleva effondere gli affetti della sua anima e far concreti i pensieri più riposti dal suo intelletto.

– Questo scartafaccio, soggiunse, fu sequestrato nella perquisizione che si fece in casa del nominato Selva. È l'opera d'un da nulla, un giovinastro senza famiglia e senza nome che lì dentro inneggia alla libertà de' popoli…

– Oh! Esclamò Anatolio La Cappa, levando indignato le mani al cielo.

– E si arroga niente meno che di scombiccherare un progetto di riforma della società… Fra parentesi vi dirò che vuole abolito ogni diritto di privilegio nelle classi superiori; e da questo giudicate dello spirito che ne informa lo scritto!..

– È un demagogo! Gridò ancor più indignato il bravo barone.

– E non è tutto! Il medesimo progetto riforma, rinnovella, o per dir meglio rivoluziona anche il Governo.

– Ah! c'est trop fort!

– Vi dico che se leggeste codesta roba, inorridireste…

– Inorridisco anche senza leggerla.

– Comprenderete quindi anche voi che, malgrado la vostra raccomandazione di cui tengo il massimo conto, non posso promettervi…

– Comprendo, comprendo: s'affrettò a sclamare il barone, il quale fra sè intanto borbottava: dans quel guêpier mi ha mandato a me fourrer quella matta di mia figlia!

– E circa il signor Benda, continuava il Governatore, ho inoltre verso il marchese di Baldissero mio buon amico qualche debito di riguardo che mi impone di esaminare con assai ponderazione il suo caso. Quell'avvocatuzzo ha insultato, minacciato, sfidato a duello il figliuolo del marchese, di uno dei più alti personaggi dello Stato. Che cosa non avrebbe ragione di dire Baldissero, che cosa non direbbe S. M. medesima, se io così tosto mettessi in libertà chi si è fatto reo di tale eccesso, ancorchè non ci fosse altra ragione nessuna da tenerlo custodito in cittadella?

– È giusto, è giusto: disse il barone approvando col capo e colla mano.

– Quindi non posso nè anche accogliere le vostre osservazioni intorno ai diportamenti della nostra polizia. Essa è affidata ad un uomo fedelissimo ed intelligente del suo mestiere, senza del quale io non so come il conte Barranchi ed io stesso potremmo bastare all'ufficio. Voi capite ch'io intendo parlare del commissario Tofi. Esso ha tutta la mia fiducia e quella del Generale dei carabinieri; e finchè io avrò l'alto onore di godere la fiducia di S. M. e di coprire questa carica, nè quell'uomo, nè il sistema di polizia attualmente in vigore non saranno punto cambiati.

Il padre di Candida tornò ad inchinarsi tra mortificato e confuso.

– Quanto a quell'agente subalterno, di cui mi avete parlato, a quel Barnaba, io sono d'avviso che egli si è regolato affatto bene, e invece che censura merita lodi e ricompensa.

– Voi avete ragione… Ero mal informato… Vi prego a non dare al passo che ho fatto presso di voi altra importanza che quella di amichevoli chiacchere in aria.

Il Governatore fece un sorriso protettore d'annuenza.

– Se mi permettete, continuava il barone, vi farò soltanto ancora un'interrogazione.

– Fate, fate pure, caro La Cappa.

– In codeste mene rivoluzionarie voi credete compromesso quel tal dottor Quercia?

– Come vi ho detto, il suo contegno nella circostanza della perquisizione in casa Benda me ne fa sospettar forte… Ma non voglio precipitare il giudizio, lo faremo sorvegliare.

– Vi spiego la cagione dell'interessamento che prendo per lui. Quel giovinotto ha molta attinenza con mio genero, il conte di Staffarda.

– Lo so: disse il Governatore con un certo sorriso di cui il barone non notò la malizia.

– Capite che un uomo onorato della intimità del conte Langosco non è presumibile sia un rivoluzionario.

– Certamente io ho la maggior stima pel conte di Staffarda…

– Ed è a nome appunto del conte che vi prego di avere alcun riguardo per quell'individuo, e di non farlo segno di nessuna misura di polizia, prima che sia accertata la sua colpa.

– Terrò conto della vostra raccomandazione, caro Intendente… in quanto sarà compatibile coll'esigenza de' miei doveri.

Il padre di Candida capì che non avrebbe ottenuto altro miglior risultamento; e stava per torre commiato, quando si annunziò nel gabinetto del Governatore S. E. il marchese di Baldissero, ministro di Stato.

– Avanti, avanti: disse con premura il Governatore, alzandosi da sedere.

– Sono certo, soggiunse parlando al barone, che il marchese viene appunto per questo affare medesimo.

E fece quello che non aveva fatto all'ingresso del barone; andò sino alla soglia dell'uscio del gabinetto a ricevere colla mano tesa il signor di Baldissero che vi compariva colla sua grave ed imponente fisionomia da vero gentiluomo.

CAPITOLO XVII

Ettore di Baldissero, figliuolo del marchese, era tornato a casa sua disgustato, mortificato, corrucciato dell'arresto di Benda, mercè cui non aveva potuto aver luogo il duello tra essi indetto. Indignati del pari n'erano i padrini del marchesino.

– Se sapessi a cui attribuire questo mauvais tour, sclamava Ettore scalpitando con rabbia la neve nella camminata a piedi che col conte San-Luca e coll'altro suo compagno dovette fare per restituirsi in città, affè che gli vorrei mostrare il modo di regolarsi!..

 

– Certo e' ti fu reso con ciò un cattivo servizio: disse San-Luca; e se fosse tuo padre che avesse avuto questa infelice idea…

– Non è mio padre: interruppe seccamente il marchesino.

– Eh! chi sa? I padri, quando si tratta di salvare da un pericolo che li minaccia i loro figliuoli, hanno la smania di non arrestarsi innanzi a nessun'altra considerazione… Tu poi in qualità di primogenito, hai per tuo padre una esistenza ancor più preziosa…

Ettore proruppe ancora più secco di prima:

– Ti dico che non è mio padre, il quale possa nemmanco pensare soltanto cosa che non sia secondo i più rigorosi dettami delle più strette obbligazioni d'onore. Tu San-Luca dovresti conoscerlo abbastanza per non farle neppure queste supposizioni ch'io a mia volta poi non posso e non voglio ascoltare.

San-Luca parve comprendere che aveva torto e chinò il capo senza aggiunger parola.

– Sai tu chi sia il colpevole? Soggiunse il marchesino ad un tratto, come illuminato da una subita idea. Gli è piuttosto tuo zio il Generale.

– Barranchi? Esclamò San-Luca levando vivamente la testa. Certo che sì. L'hai indovinata appuntino di sicuro. Gli è il suo genere. «Arrestatemi quell'uomo» è il suo motto d'ordine universale.

– Egli mi sentirà! Che modo gli è questo di venirmisi ad attraversare nelle mie contese d'onore? L'avesse fatto arrestare dopo il duello, non ci avrei nulla da ridire. Intanto bisogna ad ogni modo che egli mi restituisca il mio avversario per lasciarmi dar esito alla mia faccenda. Adesso adesso corro da lui e non lo lascio in pace più finchè non me l'abbia posto in libertà.

Il nipote del Generale fece un atto d'incredulità.

– Uhm! Diss'egli. Mio zio non è così facile ad abbandonare la preda…

– Tu mi ci aiuterai: soggiunse Ettore con vivacità. Sei il suo beniamino tu, sarai il suo erede; ti fa delle ramanzine e ti paga i debiti; gli tieni luogo di figliuolo.

San-Luca continuò a scuoter la testa.

– Si, mi vuol molto bene; ma quanto all'indursi a fare qualche cosa che non gli piaccia solamente pei miei belli occhi, è un altro paio di maniche. S'egli ha fisso il chiodo di voler fare ammuffire quell'avvocatino in cittadella, non saranno nè i tuoi rimproveri, nè le mie ragioni che ne lo smuoveranno… Ci vorranno argomenti di maggior peso… Sai chi potrebbe ottenere questo risultamento? Tuo padre.

– Mio padre? Ripetè il marchesino con una certa esitazione. Ah tu credi?..

– Oltre l'autorità che dànno al marchese il suo grado, i suoi titoli e i suoi meriti, presso mio zio avrà molto effetto quella deferenza ch'esso ha per lui. Se tuo padre si reca egli stesso dal Generale a pregarlo di liberare il signor Benda, è quasi certo che ci riuscirà. Fa a modo mio, parlane col marchese, ed invoca il suo intervento.

Ettore parve accogliere questo consiglio con mediocrissima soddisfazione.

– Desidererei non immischiare in codeste cose mio padre: diss'egli. Proverò dapprima di agire io stesso direttamente presso tuo zio; e se poi non ne otterrò nulla, allora manderò da lui mio padre.

Con questi discorsi erano giunti nella città, e ciascuno dei giovani si diresse alla propria casa alfine di cambiarsi abiti e calzamenta immollati dalla neve.

Il marchesino di Baldissero entrando nelle stanze a lui destinate nell'antico, grandioso palazzo avito della sua famiglia, trovò il cameriere specialmente addetto alla sua persona, il quale lo aspettava nella camera che precedeva quella da letto.

– S. E., disse il domestico inchinandosi, ha mandato a vedere se Ella era in casa.

Ettore fece un legger moto di contrarietà.

– È molto tempo? Domandò egli.

– Sarà mezz'ora.

– E mandò detto qualche cosa?

– Nulla. Michele (era il cameriere del marchese) non fece altro che domandare d'ordine di S. E. se V. S. era in casa. Udito che no, se ne partì senza soggiunger parola.

– Sta bene. Portatemi biancherie, abiti e calzature da cambiarmi.

Entrò nella sua camera preoccupato, coll'aspetto d'uomo scontento di sè e delle cose sue, pieno di malavoglia e incerto di quello che debba o non debba fare. Si domandava se aveva da recarsi presso suo padre a dirgliene come fosse tornato, ad udire se alcuna cosa volesse da lui. Ben gli diceva una intima voce che questo era il dover suo: ma a compirlo sentiva una ripugnanza poco meno che invincibile. Dopo lo scandalo avvenuto la sera innanzi all'Accademia filarmonica e da lui promosso, Ettore non aveva più visto suo padre, di cui conosceva troppo l'indole e i pensamenti, per non essere sicuro di averne la maggior disapprovazione e per non temerne quei severi rimbrotti che tanto erano più efficaci quanto erano più parchi sulle labbra sdegnose del vecchio gentiluomo. Ora poi a quel timore si aggiungeva una specie di vergogna che aveva di dovergli narrare la strana maniera con cui si era conchiuso l'intimato duello, per la quale maniera, benchè egli non ci avesse colpa, sembravagli tuttavia che una qualche offesa ne risultasse a quella suscettiva delicatezza dell'onore che era quasi una seconda religione per suo padre, e che in verità era carissima a lui pure, comechè per tanti rispetti diverso dal padre suo. E poi era egli ben vero che nell'arresto di Benda, Ettore non ci avesse nessuna colpa? Si ricordava come il suo amico San-Luca, lui presente e non dissenziente, avesse raccontato al conte Barranchi la scena intravvenuta, e raccontatala non in modo affatto imparziale. Non era suo debito allora imporre all'amico di non dir nulla al comandante della Polizia, di contestare la verità della cosa come veniva esposta, di protestare al Generale dei Carabinieri che nulla era successo per cui egli avesse diritto di immischiarvi comecchessia la sua autorità? E se il padre gli avesse domandato se così avesse fatto, che cosa avrebbe dovuto rispondere Ettore, il quale, per quanto fosse lontano dalla vera nobiltà d'animo di suo padre, non era pur tuttavia così oblioso della sua dignità e del suo sangue da mentire sfacciatamente?

Cominciò per abbigliarsi, rimandando al poi ogni decisione.

– Non c'è stato nulla di nuovo in casa? Domandò egli al domestico che lo vestiva, come per isviare la mente da quelli che la occupavano ad altri pensieri.

– Nulla: rispose il servo: eccetto che la contessina di Castelletto è uscita colla sua governante e con Giacomo saranno venti minuti e non è ancora tornata.

– Oh oh! Esclamò il giovane con qualche interesse: che passeggiata mattiniera!.. e per questo tempo!

Il cameriere prese un'aria umilmente insinuante e piena di zelo, e soggiunse a mezza voce:

– Se sor marchesino lo desidera, io farò di sapergli dire dove la contessina siasi recata.

Ettore non rispose, e il domestico interpretò quel silenzio per un assentimento. Il moderno servitorame è di regola generale un parassita che sfrutta e svolge i difetti e le triste passioni dei ricchi. Quel servo aveva indovinato – e qual segreto si può egli nascondere all'occhio del proprio cameriere? – come il suo padroncino non fosse niente affatto indifferente alla bellezza della sua cugina, madamigella Virginia, la quale teneva verso di Ettore un contegno che nella sua gentile famigliarità era tale pur tuttavia da non incoraggiare in lui nessuna speranza.

Per un momento il pensiero del marchesino, obliando ogni altra cura, corse in traccia della leggiadra giovane. Che Francesco Benda amasse Virginia, Ettore aveva facilmente scoperto. Vi è un istinto nell'animo di ciascheduno che gli fa indovinare per quanto si celi, il suo rivale in amore; e Francesco amava troppo appassionatamente per saperlo con arte nascondere. Codesto amore di un borghese per sua cugina, il superbo primogenito di Baldissero aveva naturalmente trovato una impertinenza degna di qualche buona lezione ch'egli stesso si prometteva e si augurava di dare a quell'avvocatuzzo alla prima occasione; e l'accorto lettore ha già indovinalo che tale era stata la prima e principalissima cagione del suo villano diportarsi verso Francesco nella festa da ballo. Ma ciò ch'egli ignorava si era con qual disposizione d'animo Virginia accogliesse il sentimento del giovane borghese, sentimento cui certo ella non aveva mancato di scorgere. Ch'ella potesse corrispondere a cotale affetto, Ettore credeva non fosse nemmanco da pensarsi, come non era supponibile che una fanciulla di sì nobile prosapia si abbandonasse alla vergogna d'un fallo disonorevole. Ella sapeva, ella doveva ben sapere che fra lei e quell'uomo da nulla vi era una distanza ed una barriera assolutamente insuperabili; egli stimava sua cugina di tanto da crederla incapace di pur pensare ad un eccesso di degradazione, come sarebbe quello di diventar moglie d'un non nobile – che per lui era poco meno che sinonimo d'ignobile. E dunque?.. Ma ciò non ostante la sua gelosia gli aveva fatto giudicare che in quella gentilezza con cui Virginia accoglieva il modesto, timido, rispettoso omaggio di Francesco, c'era qualche cosa di più che non nella cortesia abituale ond'ella soleva trattare con tutti; c'era un non so che di nascosto, d'indefinibile, quasi una tinta di simpatia; e di questo suo sospetto il marchesino aveva una rabbia che s'accresceva ancora, appunto perchè doveva dissimularla, e perchè non avrebbe voluto a nessun costo che uomo al mondo ne avesse sentore.

In questo istante in cui il domestico stava abbigliandolo, Ettore si rammentò appunto dello sguardo di rimprovero che la sera innanzi Virginia gli aveva slanciato, quando egli aveva provocata quella scena scandalosa; sguardo che diceva più di molte parole; e ricordò eziandio le poche, asciutte parole ch'essa gli aveva rivolte quando l'aveva accostata di poi.

– Ettore, gli aveva essa detto, hai tu perduto il senno? Ora ti prego di lasciarmi, il meglio che tu abbia da fare è lo startene lontano.

Ed aveva tanto pregato la zia che ne aveva ottenuto di esserne tosto ricondotta a casa.

Il marchesino pensava come la cugina lo avrebbe accolto nel primo loro rivedersi; e tanto più grave riuscivagli l'affrontarne la presenza, ora che il duello dal suo oltraggio reso necessario non aveva potuto aver luogo e il suo avversario per la piega presa dagli avvenimenti compariva sempre meglio nella simpatica figura di vittima – e di vittima coraggiosa.

– Le donne, diceva fra sè il giovane contrariato, hanno un così dilicato sentire in queste faccende!.. Certe volte un sentire strano e quasi matto… Che cosa dirà ella, che apprezzamento sarà il suo, di tutto codesto?

Ma qui gli tornò in mente che aveva da affrontare un altro giudizio ancora più difficile e più momentoso di quello della fanciulla: il giudizio di suo padre.

Era vestito di tutto punto e il domestico gli aveva domandato se doveva porgergli il pastrano e il cappello.

– Sì: rispose asciuttamente il padrone.

Quando fu pronto per uscire e' si disse:

– Meglio ch'io vada subito da mio padre. Una volta scoppiato il fulmine la paura è passata; ed egli poi in realtà saprà darmi quel buon consiglio che mi ci vuole ed aiutarmi presso Barranchi.

S'avviò con passo risoluto, attraversò la camera che precedeva, passò per quella in cui accoglieva gli amici a discorrere e fumare, percorse una specie di galleria che metteva nella gran sala, ed entrato in questa si diresse verso il quartiere che tradizionalmente era sempre occupato dal capo della famiglia.

Ma se nei primi passi la sua andatura era stata risoluta, in seguito era essa venuta rallentandosi a seconda che egli avvicinavasi all'appartamento di suo padre; fu esitando che attraversò la gran sala, fu con mano peritosa che aprì l'uscio di questa sala che metteva nell'andito per cui si accedeva al gabinetto di lavoro del marchese, fu in punta di piedi che si avanzò nell'andito per fermarsi innanzi all'uscio serrato dello studio di suo padre. Due volte alzò la mano per porla sulla maniglia della serratura, e due volte la lasciò ricadere. Finalmente scosse le spalle, come impazientito di se medesimo e si disse rampognante:

– Sono un ragazzo… Andrò prima da Barranchi, e parlerò dopo, se farà bisogno, con mio padre.

E si allontanò da quell'uscio più lesto di quel che ci fosse venuto.

Da poco tempo il marchesino erasi dipartito dal palazzo, quando vi rientrava madamigella Virginia. L'agitazione dell'animo nella pietosa fanciulla non era punto scemata, ma invece accresciutasi dopo il colloquio avuto con Maria nel misero abituro di Paolina. Appena giunta nella sua camera, Virginia aveva mandate a domandare novelle del cugino Ettore. Il domestico che aveva accompagnata la ragazza nella sua gita ebbe col cameriere del marchesino una interessantissima conferenza, nella quale il servo di Ettore apprese dove fosse andata madamigella, chi colà avesse incontrato, che cosa vi si fosse detto e fatto, e lo staffiere mandato da Virginia seppe che il signor Ettore era venuto a casa con aspetto molto cupo e quasi contraffatto, che aveva mostrato un certo turbamento nell'udire come suo padre avesse mandato cercando di lui, che, cambiatosi gli abiti bagnati e i calzari inzaccherati, come se fosse stato a girare per istrade di campagna, egli era uscito di nuovo, dopo aver mostrato di voler andare dal padre e fuggito poi dalle stanze di lui, come uomo a cui non regga il cuore d'entrarvi.

 

Queste informazioni fedelmente riportate a Virginia ne accrebbero l'inquietudine; anzi questa convertirono in una dolorosa certezza di sventura toccata a Francesco. Se il duello aveva avuto luogo, come essa non aveva ragione alcuna di dubitare che non fosse, l'essere tornato Ettore sano e salvo, non era egli indizio manifesto che l'avversario di lui era soggiaciuto? Se alcun dubbio poteva conservarsi a tal riguardo, non lo toglievano essi per l'affatto i contegni del marchesino di cui tanto s'era stupito ed affermava essersi sgomentato il cameriere del giovane?

Virginia volle essere compiutamente chiarita della verità, ed al medesimo domestico il quale esponevale quanto aveva appreso dal cameriere del marchesino impose si recasse sollecitamente, senza il menomo ritardo, alla casa dei Benda con una letterina ch'ella scrisse in tutta fretta per Maria domandandole informazione delle cose avvenute.

Il domestico giunse alla fabbrica quando, non che cessata, non era neanco diminuita nella povera famiglia di Francesco la profonda emozione per l'arresto del giovane e per la fatta perquisizione. Maria, rispondendo all'affettuoso biglietto di Virginia, narrò tutto l'avvenuto e caldamente la pregò a volere adoperarsi ancor essa in favore di suo fratello. Virginia non istette a pensarci dell'altro, ma con quella lettera in mano corse nel gabinetto dello zio, il marchese di Baldissero padre.

Precediamo la nobile ragazza nello studio del signor marchese.

Era un ambiente di pochi metri quadrati; in faccia all'uscio per cui s'entrava era l'unica finestra per cui veniva illuminato: una finestra alta e larga innanzi a cui cascavano cortine di seta damascata di color tanè, e tende candidissime di rensa finissima. Presso alla finestra stava una larga scrivania sul cui piano molte carte in disordine. Tutto intorno alla parete correvano eleganti scancìe di legno d'ebano scolpito e intarsiato negli spigoli d'avorio e madreperla, chiuse da invetrate, traverso i cui tersi cristalli si vedevano schierati sui varii piani i libri adorni di legatura d'una severa eleganza. Le scancìe erano interrotte là, dove a mezzo della parete si apriva l'ampio camino adorno di mensola e di stipiti di marmo nero d'un classico disegno architettonico. Sopra il camino attraeva l'attenzione una gran croce di legno d'ebano, su cui tendeva le braccia un Cristo d'avorio, oggetto artistico di molto valore. Al di sotto di questo gran crocifisso pendevano due cornici ovali di ebano ancor esse, entro cui i busti dipinti a olio d'un uomo e di una donna colle foggie di pettinatura e di abiti della fine del secolo scorso. Erano i ritratti del padre e della madre del marchese. A dare a quella stanza un aspetto maggiore di severità, di raccoglimento, di solenne mestizia, concorreva la tappezzeria di cuoio cordovano di color tanè, fissata alla parete nelle due estremità superiore ed inferiore da una filza di borchie d'acciaio ossidato. Di legno d'ebano intarsiato, come le scancìe, nelle spalliere, erano le poltrone e le seggiole. Un grande stipo di legno uguale ed ugualmente lavorato s'innalzava innanzi al camino. Una lampada di bronzo calava dal soffitto a metà della stanza, e un soffice tappeto a lana lunga e di colore scuro copriva il pavimento.

Il marchese stava seduto innanzi al camino, in una mossa che avreste detta afflitta, sostenendo il gomito destro al bracciuolo del seggiolone e la fronte alla palma della mano. Il suo occhio guardava il fuoco che gli ardeva dinanzi fra gli alari di bronzo artisticamente lavorati, e pareva seguitare con interesse i varii guizzi della fiamma; in realtà esso seguitava le diverse immagini che passavano nella sua fantasia in una dolorosa meditazione.

Era un uomo di circa cinquant'anni, sui lineamenti del quale scorgevasi la vita non essere passata per esso senza lotte, senza emozioni e senza travagli, e l'esperienza del mondo non essere via trascorsa come acqua corrente su pietra, senza aver lasciato in quell'anima la amara dottrina delle cose terrene e la più amara conoscenza degli uomini e delle loro passioni. Una ragguardevole fisionomia la sua, nella quale i resti d'una rara avvenenza virile preparavano la imponente bellezza d'una nobile vecchiaia. Aveva il profilo caratteristico d'un cammeo romano e la guardatura speciale dell'uomo avvezzo al comando. L'espressione precipua del suo volto, con cui sempre e naturalmente si armonizzavano i suoi contegni, le mosse del suo corpo così come la voce e la sostanza delle parole, era l'espressione d'una dignità ognora presente a sè stessa. Si sarebbe potuto dire ch'egli aveva preso fin dalla sua giovinezza a sostenere una parte – la parte dell'uomo superiore agli altri uomini, ed agli avvenimenti ed alla fortuna – ma che questa parte non la sosteneva pel pubblico, ed innanzi a lui, per lasciar la maschera, quando faccia a faccia con sè solo, sì invece la aveva assunta e voleva sostenerla per sè e innanzi a sè, di guisa da sopravvegliar continuo sopra ogni sua cosa, affine di non mancarci mai, e quindi agire, volere, pensare sempre in modo coerente alla nobiltà di quel personaggio. Era un orgoglio accompagnato dal sentimento incessante d'un incessante dovere; non era una superbia cagionata da impertinente concetto di sè e disprezzo d'altrui. Era l'incarnazione di quel bellissimo motto francese: noblesse oblige.

Gli abiti onde vestiva erano mirabilmente assortiti alla severità di quel gabinetto ed alla gravità della sua figura. Un soprabito nero abbottonato alla militare sul petto avvolgeva la sua alta e ben complessa persona: pantaloni neri cascavano sui suoi piedi veramente aristocratici per piccolezza e per forma: un'alta cravatta bianca sosteneva il suo mento, non colpevole mai d'una barba da radere.

Quella mattina, in cui per la prima volta noi facciamo la personale conoscenza del marchese, era egli assorto, come già dissi, in una meditazione, che pareva dolorosa. La sera innanzi aveva appreso la condotta di suo figlio verso quel giovane borghese, cui egli stesso onorava d'un amichevole saluto, e di ciò era egli stato dolentissimo, come di cosa affatto indegna d'un vero gentiluomo e del nome del loro casato. Non aveva però voluto far parola nessuna intorno a questo argomento con suo figlio, perchè ben supponeva che un duello sarebbe intravvenuto, e credeva maggior convenienza lo aspettare a rivolgere i dovuti rimproveri al figliuolo dopo l'esito dello scontro. Era nelle sue idee che egli dovesse non darsi per inteso di nulla fino a cose compiute, perchè sapendo del duello, lo avrebbe dovuto impedire, e il concetto ch'egli aveva dell'onore lo distoglieva assolutamente dallo stornare comecchessiasi il figliuolo dal battersi.

Ma si ha bello essere tutto invasato da queste false idee di suscettività d'onore che non permettono all'ingiusto oltraggiatore di riparare all'oltraggio, e gli comandano invece di andare ad ammazzare l'uomo oltraggiato; quando si è padre non può essere con indifferenza che si passa la notte, finita la quale si sa che il proprio figliuolo si esporrà a pericolo di morte; non può essere con calma che si attendono le notizie dello scontro dal quale il proprio figlio può essere trasportato indietro cadavere. Questo basti per farci sapere quale fosse stata la notte, qual fosse attualmente la condizione dell'anima del marchese. Fra lui e il suo primogenito non correva attinenza di molto affetto, non quella fiducia e quell'abbandono che procura fra due anime compagne e degne l'una dell'altra, tanto stretto vincolo di sangue; la severa dignità del padre impacciava l'indiscreta tracotanza del figliuolo, e le sregolatezze di condotta come le impertinenze di modi in quest'ultimo, offendevano il dilicatissimo sentimento del dovere che governava l'animo del marchese. Ma ciò nulla meno spenta non era nel padre quella potente affezione che fa dell'esistenza dei figli l'esistenza dei genitori; e il suo spirito aristocratico, per quanto elevato, non andava esente da quel pregiudizio nobiliare trasmesso nel sangue traverso tante generazioni, che dava un pregio maggiore alla vita del primogenito che non a quella degli altri figliuoli. In realtà al suo cuore erano più cari i due altri suoi nati che si preparavano alle spalline da ufficiale nell'Accademia militare, e specialmente il secondogenito nel quale pareva al padre, ed era in fatto, che maggiormente rivivessero le qualità del suo animo e del suo spirito, come più esattamente si riproducevano le sembianze del viso; ma tuttavia – tanta è la potenza dei pregiudizi, anche nelle anime elette! – se il marchese fosse stato posto nel dolorosissimo caso di dover sacrificare la vita d'un suo figlio ed a lui fosse stata la scelta del capo da immolarsi, ne avrebbe avuto infranto il cuore, ma avrebbe salvato il primogenito a costo del sangue degli altri due.