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La plebe, parte II

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Oltre ciò una ragione speciale affatto gli faceva più penosa, più paurosa l'idea del duello che doveva compiersi, che stava per aver luogo, che forse già era avvenuto; e questa ragione era una tristissima memoria d'un orribile dramma successo nella sua vita, egli attore principale. Molti e molti anni erano passati dopo quell'avvenimento: ma il ricordo erane fresco ancora nell'anima del marchese, come con raccapriccio parevagli che fresco ancora stesse sulla sua spada, perfino sulle sue mani il sangue ch'egli – uomo di anima benigna e di pietoso cuore – fatalmente aveva dovuto versare.

Ma di codesto tremendo segreto della sua vita, di cui la gente conosceva appena un'ombra, e la famiglia, val quanto dire la moglie sua, i figli e la nipote non avevano il menomo sentore: di questo segreto apprenderemo forse alcuna cosa, ascoltando il soliloquio con cui il padre del marchesino manifesta le intime sensazioni che gli si avvicendano nell'anima.

Tutta notte quell'incessante pensiero aveva travagliato l'animo del marchese: al mattino, affrettatosi, come vedemmo, a mandare a chiedere di suo figlio, dalla assenza di lui così mattiniera, aveva arguito la certezza che in quel punto medesimo avveniva il duello.

Nell'atteggiamento che ho detto, il capo sostenuto colla mano, egli così pensava:

– In questo istante che sarà di lui? Ho io ancora il figliuolo mio primogenito? Oh! se dovessi vedermelo a recare in casa esanime e sanguinoso, morto senza più vedermi, morto senza l'ultimo mio amplesso, morto senza la mia benedizione… Ed egli non ha cercato punto punto di vedermi, nè ier sera, nè questa mattina! Forse il suo cuore non glie ne ha fatto un bisogno: forse non ha sentito il dovere nè il desiderio di udire ancora la mia voce, di chiedere almeno al mio affetto un addio ed un perdono… e per tante cose ha egli bisogno di perdono, pur troppo!.. Oh forse temette le mie rampogne e ch'io potessi impedirgli di battersi; no, non glie ne avrei mosso di rimproveri a quel momento solenne, non avrei tentato in niun modo di trattenerlo, e s'egli codesto ha temuto, è nuovo segno che non conosce per nulla suo padre. Non gli avrei fatto che una raccomandazione sola: «Guardati dall'uccidere il tuo avversario, se puoi salvare senza la sua morte, la tua vita! La memoria d'un uomo ucciso di nostra mano, sia pur anche in duello, si incastra tremendamente nel nostro pensiero e non si diparte più e nulla val più a cancellarla, e per quanto sia onesta la vostra vita, vi fa provare la puntura sciagurata del rimorso.»

Si passò la mano sulla fronte e mandò un profondo sospiro.

– Questo, io lo so per prova, continuò egli; siffatto tormento, negl'intimi penetrali della coscienza, fu ed è il mio… Quando son solo, ed anco talvolta in mezzo al rumor gaio delle feste, fra i più gravi discorsi delle cose più importanti, nelle domestiche riunioni, io vedo drizzarmisi innanzi il fantasma sanguinante di quel povero Maurilio Valpetrosa; lo rivedo guardarmi cogli occhi sbarrati come mi guardò in quel terribil momento in cui lo sostenni colla mia spada che gli attraversava il corpo; lo rivedo agitare convulsamente le labbra macchiate di schiuma sanguigna, come per mandare un grido, una parola, e non poterlo, e cadere lungo e disteso come cadavere. Egli aveva una madre che lo attendeva, una madre cui era unico amore e conforto; aveva una sposa… e quale!.. a me così strettamente per sangue congiunta!.. che stava per renderlo padre… E sposa e madre dovettero vederselo recare morente…

Si tacque un istante e si serrò con ambedue le mani la faccia, cresciuta l'angoscia dall'orrido pensiero che gli sopravvenne.

– E se Dio per punirmi riserbasse a me quella vista, e mio figlio, oggi, fra pochi minuti, mi fosse portato innanzi a quel modo, esanime, per morirmi nelle braccia?

Raccapricciò, come scosso da un brivido di febbre violenta.

– Punirmi! E perchè vorrebbe Iddio punirmi? Non mi dettarono quella mia condotta le più sacre leggi dell'onore? Non me la dettò la stessa autorità paterna? E se pur sempre vi ha colpa nello spargere il sangue umano, le circostanze che a ciò mi spinsero non devono esse avermelo fatto perdonare? Padre Bonaventura ben me ne affermò colla sua autorità di sacerdote; ma s'io me ne confessassi a don Venanzio, direbb'egli eziandio il medesimo? E fra questi due, quale il più degno ed autorevole intermediario fra il peccatore e Dio?

Sollevò lo sguardo al Cristo d'avorio appeso alla croce d'ebano.

– Sono io stato colpevole, o Dio? E se sì, non mi hai tu ancora perdonato?.. Ad ogni modo, deh! non volermi colpire nei figliuoli miei!..

I suoi occhi scorsero sul ritratto del padre che stava presso la croce. Era una imponente e leggiadra figura d'uomo anche quella, ma in cui l'orgoglio aveva qualche cosa di aggressivo, e la fierezza aveva una tinta di crudele. A quelle sembianze dipinte rassomigliavano di più le fattezze del marchesino nipote che non quelle del marchese, figliuolo al personaggio ritratto. Il marchese si levò da sedere e ponendo il suo volto presso a quello dipinto di suo padre, i cui occhi, pur dalla tela luccichiavano d'una indomabile superbia, soggiunse:

– E voi, padre mio, chè non trovate un modo da parlare alla coscienza di vostro figlio? Da lungo tempo voi siete passato in quella regione, dove si deve scorgere il vero; colà come ravvisate voi l'opera mia?.. l'opera nostra, poichè voi mi avete chiamato, mi avete spinto a compirla. Conservate voi ancora gli stessi odii, le stesse opinioni? Se adesso una simile avventura si presentasse alla vostra famiglia, e voi poteste consigliarmi, da quel mondo ove siete, mi dareste lo stesso comando?.. E l'anima della mia vittima, l'avete voi incontrata in quel regno delle ombre?.. E se sì, qual contegno potè essere il vostro?

Pose i due gomiti sulla mensola di marmo del camino e nascose il volto tra le mani, assorbito in un inesprimibile tumulto di pensieri e di sentimenti. Venne a riscoterlo una mano che bruscamente, vibratamente, quasi sarebbesi detto con premura affannosa, batteva all'uscio del gabinetto.

Il marchese fece un soprassalto, e le sue guancie impallidirono.

– Ah! pensò egli: qui è la trista novella che batte alla porta.

Fermò il viso, si volse verso l'uscio, prendendo la mossa dignitosa d'un uomo di coraggio superiore che è preparato a tutto, e disse con voce che non tremava punto punto:

– Avanti.

L'uscio si aprì di scatto ed entrò Virginia colla lettera di Maria in mano.

La bella giovane era dilettissima a suo zio. Rimasta orfana, egli l'aveva amata d'un affetto più che di padre; aveva trovato per lei nella sua natura severa, riserbata e un po' asciutta da gentiluomo delle tenerezze di madre amorosa, onde Virginia aveva preso nei rapporti con esso una più espansiva e domestica affettuosità ch'ella non avesse con altri, e sopratutto colla superba sicumèra della zia, una famigliarità gentile di tratti cui nessun altro osava ed avrebbe osato mai avere col signor marchese.

Questi nel vedersi entrare in quel momento la nipote nello studiolo, rasserenò d'un lieve sorriso la faccia, e sentì di botto tranquillarglisi l'anima. Credeva impossibile che una sventura potesse prendere per messaggiera quella bella ed adorabile persona.

– Ah sei tu, Virginia, figliuola mia? Le disse con molto affetto tendendole la mano. Sii la benvenuta nel recarmi il tuo saluto mattinale.

Per la mano che Virginia pose in quella da lui tesa, lo zio trasse a sè la fanciulla e le diede un tenero bacio sulla bella fronte. Ma vide allora il turbamento delle sembianze della donzella, e tutto il suo primitivo timore lo riassalì.

– Tu hai qualche cosa? Diss'egli nascondendo pur tuttavia lo spasimo dell'ansietà ond'era travaglialo. Parla senza ambagi, qualunque avvenimento esso sia che tu abbia ad apprendermi.

– Sì zio: rispose la fanciulla: sono venuta da Lei a bella posta perchè sapesse tutto e provvedesse a tutto.

Il marchese sedette sul suo seggiolone, mantenendo sempre ferma la dignità del suo contegno, e fe' cenno alla nipote sedesse anch'ella in prospetto; poi appoggiato il mento alla sua destra, sostenendo colla mano sinistra il gomito, guardando verso la fiamma stette, impassibile in apparenza, ad ascoltare.

Virginia trasse una lunga aspirazione come per prender fiato, e in vero il cuor palpitante le agitava il respiro; poi narrò per disteso tutto ciò che ella sapeva avvenuto fra il cugino Ettore e l'avvocato Benda, dall'oltraggio della sera innanzi all'arresto di quest'ultimo certificato dalla lettera di Maria.

Il calore posto da Virginia nella sua narrazione, e quello soprattutto della perorazione finale con cui supplicava il marchese a voler far restituire alla famiglia il giovane arrestato, erano tali da essere notati dallo zio, e diffatti ne fu esso colpito, ma non ebbe campo la sua mente a soffermarsi su di ciò per la quantità e la natura de' nuovi pensieri che le cose udite fecero nascere in lui.

Di quante maniere avess'egli saputo immaginare in cui avrebbe potuto aver termine la contesa di suo figlio col giovane borghese, questa che gli si narrava, non era mai nè anco apparsa al suo pensiero; e se non fosse stato della lettera della sorella di Francesco, certo non vi avrebbe creduto così di piano. Non dubitò neppure che in questo fatto avesse alcuna colpa il figliuol suo, poichè, conoscendo pur troppo tutti i difetti di lui, sapeva pur tuttavia che non mancava in esso il valore; ma ciò nullameno provò una grandissima dispiacenza di codesto avvenimento. Senza manco parlare suonò vivamente un campanello, di cui pendeva il cordone presso il camino.

– Mio figlio è rientrato? Domandò al domestico che si affacciò per ricevere gli ordini.

– Signor sì: rispose il servo. È tornato adesso adesso.

– Ditegli che venga qui, da me, tosto.

Il domestico si partì dopo un inchino.

– E tu vanne, soggiunse il marchese alla nipote, voglio parlare con Ettore da solo a solo.

 

Virginia si alzò e camminò verso l'uscio; ma quando fu sulla soglia, quando già aveva aperto il battente, si fermò e rivoltasi verso lo zio, disse con accento di tutta grazia e di supplicazione amorevole:

– Ella renderà quel giovane alla sua povera famiglia, non è vero?

Il marchese fece un segno di condiscendenza col capo e parve in sull'atto di voler muovere qualche parola; ma in quella s'affacciò all'uscio medesimo in cui stava Virginia la figura orgogliosa, in questo momento un po' turbatella, del giovane Ettore. La fanciulla sgusciò via lesta; e padre e figlio rimasero soli.

CAPITOLO XVIII

Ettore aveva udite le ultime parole dette da Virginia al marchese; mentre la fanciulla gli scivolò daccanto nel partirsi, egli la saettò d'uno sguardo che era tutt'insieme un'indagine osservatrice, una interrogazione ed uno sfogo di sdegno. Tornato a casa dopo il suo colloquio col Generale dei carabinieri, il marchesino aveva appreso dal suo cameriere dove la cugina si fosse recata nella sua gita mattiniera, chi avesse colà incontrato e i discorsi che erano passati fra Virginia e Maria, secondo che lo staffiere aveva esattamente riferito; epperò udendo le parole dalla cugina pronunciate non ebbe il menomo dubbio che le riguardassero il suo avversario e rivale.

In verità non era senza qualche apprensione che il giovane, ubbedendo sollecito alla chiamata paterna, presentavasi nel gabinetto del marchese. A dispetto della sua leggerezza orgogliosa e della irriverente petulanza del suo carattere, egli provava alcun impaccio a comparire innanzi alla conosciuta severità di suo padre, dopo tal fatto in cui sentiva istintivamente di non aver egli la più bella parte.

Stette egli un poco sulla soglia, e padre e figlio si guardarono un istante in silenzio. Gli occhi di Ettore si chinarono innanzi a quelli del marchese. In quello sguardo erasi compreso con meravigliosa sintesi tutto ciò che si sarebbe detto a parole, tutto ciò che era negli animi loro: di qua un'amara scontentezza, di là una pervicacia inflessibile, ravvolta nelle forme d'una subordinazione, da cui era escluso l'affetto.

Fu il figliuolo che ruppe primo il silenzio.

– Di che giovane parlò ella Virginia? Posso io domandarle, padre mio, chi si tratta di restituire alla propria famiglia?

Il marchese accennò al figlio la seggiola che aveva innanzi a sè, e da cui s'era alzata poc'anzi la nipote.

– Venite innanzi, Ettore, diss'egli, e sedete. Vi permetto giustamente la domanda che mi fate, perchè ha riguardo appunto a ciò di cui debbo parlarvi, e per cui vi ho fatto venire.

Ettore si avanzò lentamente, pose una mano sulla spalliera della seggiola che gli aveva additata suo padre, e in quell'attitudine disse con disinvoltura, prima di sedersi:

– Ah! L'ho dunque indovinata. Ella vuol parlarmi dello stranissimo incidente che mi capita. Sta bene; al momento che il suo cameriere venne a recarmi l'imbasciata, io stavo appunto per mandare da Lei a chiedere se mi avesse voluto favorire dieci minuti di colloquio.

Chi non l'avesse saputo, non avrebbe indovinato mai che padre e figlio erano que' due, al vederne i contegni, all'udirne l'accento delle parole. Il giovane sedette, prese l'atteggiamento d'un uomo sicuro d'ogni sua cosa, e continuò a dire:

– Mi permette Ella che parli io per primo?

Il marchese fece un cenno di consentimento, e disse asciuttamente:

– Parlate.

Ettore in poche parole espose a modo suo i fatti che noi conosciamo; poscia soggiunse:

– Sono corso dal generale Barranchi (e ne torno adess'adesso) per ottenerne che il signor Benda fosse posto sollecitamente in libertà. Barranchi da principio si mostrò assai disposto a contentarmi, e già era sul punto di dar gli ordini opportuni, quando ravvisatosi, mi disse che v'era una circostanza, cui non aveva di subito ricordata, e la quale impediva si ottemperasse alla mia richiesta. Questa stessa mattina, per tempo, diceva egli, il commissario Tofi erasi recato da lui a prevenirlo essere necessario procedere all'arresto di quel cotale e di parecchi altri per cagione di certe mene politiche ond'eran rei; che quindi essendo il Benda sotto la grave accusa d'un delitto di Stato, egli non poteva prendersi l'arbitrio di mandarnelo sciolto così senz'altro. Io insistetti con tutto il calore di cui sono capace. Mi restituisse almanco per ventiquattr'ore il mio avversario, e poi ne facesse quel che più gli talentava: dovermi assolutamente siffatta riparazione pel torto che mi aveva fatto, chè da gentiluomo e da buon amico, quale egli ha sempre voluto essere con noi, non avrebbe dovuto fare intravvenire la sua polizia fin dopo che fosse stata vidée fra di noi la contesa d'onore ed avrebbe dovuto ignorare assolutamente che avesse luogo il nostro duello. Gli ricordai il tempo della sua gioventù: che cosa non avrebbe fatto e detto quando era luogotenente nelle Guardie d'onore, se alcuno fosse venuto a levargliene così dinanzi l'uomo con cui doveva battersi? Che non direbbe e non farebbe anche adesso, se mai potesse trovarsi in una simile occasione? Se un disappunto uguale fosse accaduto al suo nipote San Luca, non si adoprerebbe ancor egli a far sì che in alcun modo non patisse pure un appannamento la lucentezza dell'onor suo? Insomma, perorai tanto che il conte mezzo scosso venne in questo temperamento: di mandar subito a chiamare il Commissario e di consultare con esso lui intorno a codesto; se appena appena, senza pericolo della sicurezza pubblica, dello Stato, e che so io, si potesse accondiscendere al mio desiderio, allora io non avrei preso commiato senza udire spiccato l'ordine di rilascio del Benda. Il Commissario venne sollecito6; e venne portando seco un fascio di libri e di carte, cui disse testè sequestrati nelle perquisizioni fatte in casa di Benda e di non so bene quali amici suoi. Da codeste carte e da codesti libri, affermò apparire più chiara che mai e più grave che non si credesse la colpa di quei signori; non potersi pensare assolutamente a nulla di simile a ciò che accennava il generale; si compiacesse quest'ultimo di gettare soltanto gli occhi sui titoli dei volumi e su alcune pagine d'un manoscritto che gli additava, e vedrebbe tosto di quale importanza fossero quegli arresti ch'egli si vantava d'aver consigliati. Il Generale guardò quei libri, fece scorrere gli occhi su quelle pagine, e vidi la sua fronte corrugarsi e i suoi baffi fremere d'indignazione.

« – Corpo d'una bomba! Esclamò colla sua voce tonante. Se mai vi fu gente degna d'esser mandata a Fenestrelle, si è quest'essa. Io mi felicito assai d'aver avuta la buona idea di dar l'ordine che fossero arrestati. Abbia pazienza, marchese, soggiunse volgendosi a me, io vorrei di gran cuore poterla contentare; ma i diritti di S. M. innanzi ad ogni cosa; noi teniamo alcuni birbanti rei di crimenlese, e non possiamo lasciarli andar più neppure per un momento. Trasmetterò tosto tosto questi documenti e i rapporti che li accompagnano al Governatore, e chiederò senza ritardo un'udienza a S. M. per renderla informata di tutto.

Tentai tuttavia insistere, ma per quanto dicessi tutto fu nulla. Allora tornai a casa avendo in animo di pregar Lei, la cui parola è più autorevole, di voler interporsi affine di ottenermi soddisfatto quello che mi pare legittimo mio desiderio.»

Il marchese aveva ascoltato suo figlio, sempre nel medesimo atteggiamento, silenzioso ed immobile, ed alle sembianze mal si sarebbe potuto scorgere quale impressione fosse la sua; quando Ettore ebbe finito, il padre si tacque ancora per un po', quasi riflettendo seco stesso sulle cose udite, poscia, levando lentamente il viso e fissando sul volto del giovane uno sguardo severo, imponente e dignitosamente corrucciato, egli disse:

– Ettore, molte cose vostre mi dispiacquero e mi tornarono indegne di voi e del nome che avete l'onore di portare; quest'ultima più di tutte mi spiace e la trovo indegnissima del vostro titolo, del vostro casato.

Il figliuolo fece un trasalto sulla sua seggiola, le guance gli arrossarono, si morse le labbra, e facendo forza per contenersi, proruppe tuttavia con voce resa balzellante dall'emozione:

– Le sue parole sono severe, padre mio, e mi pare che posso dire troppo severe. Ho il diritto di domandarle come mi può colpire di così tristo giudizio, ch'io ho la coscienza di non aver meritato.

Il padre lo guardò più severo di prima. Innanzi a quella grave fisionomia non ci sarebbe stato individualità, per quanto audace, che non si fosse sentita alcuna soggezione, come d'inferiore appetto ad un dappiù.

– La vostra coscienza v'inganna: diss'egli con voce lenta, contenuta, ma piena d'autorità e di forza. Pensate bene ai fatti vostri; voi, ieri sera, avete mancato inescusabilmente a quel debito d'urbanità, a quelle nobili maniere che per noi – per noi: ripetè battendo sulla parola – sono una legge nelle attinenze verso chicchessia…

Ettore interruppe vivamente, come uomo in cui la passione trabocca:

– Ecchè? Ella vuol darmi sì brutto carico per un po' di lezione data alla tracotanza d'un borghesuccio…

Il marchese guardò suo figlio aggrottando la fronte ed alzò una mano ad imporgli silenzio.

– Voi vi permettete d'interrompermi: diss'egli con fiera freddezza.

Il giovane si tacque.

– La tracotanza, continuava il padre, non fu per nulla da parte altrui. E voi dovreste sapere che ad un Baldissero si spetta dar lezioni di gentilezza come di generosità, di tratti squisiti come di valore; che abbandonarsi a certi atti plebei gli è un discendere noi stessi al grado della bassa gentuccia che li usa; che codesti atti in uomo della nostra sfera imprimono una macchia più a chi li adopera che a colui contro il quale sono adoperati. Ciò voi dimenticaste, e questa dimenticanza merita la condanna che vi ho espresso.

Ettore masticava i suoi baffetti in una contrarietà profonda e vivace, cui si sforzava a contenere perchè non prorompesse in isdegno. Suo padre essendosi taciuto, credette di poter a sua volta parlare senza incorrere in altra censura.

– Ella non conosce le nuove temerità di questa nuova borghesia che vien su colla ricchezza, aiutata colla stupidità dell'uguaglianza civile accordatale dall'improvvido codice, parodia delle leggi francesi. Ella giudica le cose colla norma del tempo della sua giovinezza, dopo avvenuta la ristaurazione, quando leggi e costumi concedevano efficacemente alla nobiltà quel posto che le compete. Ma ora non è più così. Le leggi, per deplorevole errore della Monarchia, ci vengono spogliando di quei diritti che i nostri nemici chiamano privilegi e che sono necessarii a costituire una vera ed efficace aristocrazia, senza la quale, Ella sa meglio di me non potervi essere mai un sodo e conveniente organamento della società. I costumi seguitano pur troppo lo esempio delle leggi, e gl'interessi contrarii delle classi inferiori, contenuti un tempo, ora trovando in quelle infauste leggi un appoggio, spingono al di là e fanno a soverchiarci se noi, tutti d'accordo e con ogni mezzo, non siamo pronti e risoluti al riparo. Que' riguardi che si avevano un tempo e che si devono avere alla nobiltà, ora diminuiscono nel popolo con sempre crescente proporzione. È molto scemato quel senso di rispetto che in presenza di un nostro pari faceva chinare le teste del volgo. I borghesi, col mezzo degli studi dell'Università, si vedono aperta la carriera delle alte cariche, quasi come noi: con troppo scandaloso eccesso, noi vediamo della gente da nulla oggidì, la cui plebea natura mal riesce larvata da un titolo recente, nei primi posti della magistratura e dell'amministrazione. Non c'è che l'esercito e la diplomazia che rimangano immuni ancora da questa vergogna. Mercè le industrie, delle quali il Governo ha la stoltezza di proteggere e favorire lo sviluppo, i plebei arrivano alla ricchezza, cui le disposizioni legislative non assicurano più bastantemente in possesso all'aristocrazia: e da ciò pigliano audaci pretese di farla alla pari, di stare a tu per tu con noi. Guai alla nobiltà se essa risolutamente, violentemente non rigetta col suo contegno in quel basso loco che le spetta la classe inferiore e impertinente dei borghesi! Bisogna camminarle addosso e schiacciarla, prima che ci soprammonti. Ecco le mie idee! Questo signor Benda, ricco figliuolo d'un fabbricante, conta fra' primi di quelli che si chiamano liberali, val quanto dire dei più impertinenti e de' maggiori nostri nemici. Percotendolo col mio guanto sulla guancia io ho schiaffeggiato quella sciagurataccia di moderna invenzione rivoluzionaria che chiamasi democrazia.

 

– Non si tratta di schiaffeggiarla questa democrazia: rispose colla medesima severità il marchese: si tratta di vincerla e di renderla impotente; epperò occorre che l'aristocrazia in ciascuno dei suoi membri – se fosse possibile – nei principali almanco, sia superiore in tutto e per tutto, passi innanzi per ogni modo, virtù, talenti, operosità, benemerenza di qualunque sorta, ai campioni delle nuove popolaresche pretese. Iddio ci ha fatta la grazia di metterci nelle prime file dell'umanità, sui gradini superiori della scala sociale; noi dobbiamo coi nostri atti renderci e mostrarci degni di tanto favore. Noi dobbiamo per nostro onore e per nostro dovere mantenerci in quell'alto grado in cui ci volle la Provvidenza; ma per ciò equivalenti ed acconci bisogna pur che ne sieno i mezzi. Abbiamo nel passato la regola della nostra condotta nel presente e nell'avvenire. Come si formò ella l'aristocrazia moderna nello scombuiamento prodotto dal rovinìo dell'antica società? Emersero fra le predestinate razze invaditrici quelli che avevano più forza e più valore individuale, la cui personalità meglio spiccata e robusta aveva intorno a sè maggior potenza d'influsso e quindi autorità meno contestata d'impero. Allora erano tempi e circostanze, in cui dominava quasi sola e doveva dominare la forza: gli è con questa che s'imposero ai popoli per diritto di conquista le aristocrazie d'Europa. La potenza del pensiero, allora menoma, era tutta raccolta e rappresentata nel clero cristiano; e l'aristocrazia da poco convertita ebbe la saviezza di fare bentosto alleanza col clero medesimo e prevalersi per ciò anche dell'autorità morale e intellettiva. Nel nostro tempo le condizioni sono mutate. La forza materiale del braccio e del valore non tiene più il primo posto nella schiera degli elementi di dominio; vi sono successe due altre forze: quella della ricchezza e quella dell'ingegno e della dottrina, la quale, nemmanco, non è più esclusiva dote del clero. Bisogna che l'aristocrazia, per conservare il suo primato s'impadronisca dell'una e dell'altra e ne usi a beneficio dell'intiera associazione. Quanto alla ricchezza, lamento al pari di voi quelle disposizioni legislative che conducendo al frazionamento obbligatorio delle grandi proprietà ed allo svincolo di esse, ne tolgono la sicura, continuata e irrevocabile possessione nelle nostre famiglie; ma Carlo Alberto si è arrestato a mezzo dell'opera e non gli è bastato il cuore di segnare il decadimento compiuto della nobiltà. Conservando i maggioraschi, egli ci ha lasciato un mezzo di riparare in parte al danno delle innovazioni introdotte nel diritto di successione; al resto occorre che ripari la nostra prudente attività, la quale, prendendo esempio dalla savia nobiltà inglese, domandi ai perfezionamenti dell'agricoltura, ai miglioramenti delle proprietà un aumento di rendite.

Ettore non potè tanto contenersi che una smorfia ironicamente significativa non manifestasse quanto poco fosse a suo genio codesto mezzo di rivalsa.

Il marchese padre si accorse del sentimento nato nel giovane, e interrompendo lo svolgersi del suo primo discorso, gli disse con vivacità:

– Avesse l'aristocrazia del nostro paese, al pari di quella dell'Inghilterra, prescelto codesta via e codesti mezzi allo accorrere sui gradini del trono, alle pericolose carezze della monarchia, per abbassarsi agli uffici di cortigiani! Oggi noi, non per cagione del regio favore, ma per necessità delle cose, per libero consentimento universale, saremmo a capo senza contrasto, senza minaccie, senza odii, di tutta la popolazione, come rappresentanti naturali e necessari d'ogni vitalità del paese.

Il figliuolo chinò il capo come chi non vuole discutere, ma che non è persuaso.

Ripigliando il suo dir primitivo, il marchese continuava:

– Quanto all'intelligenza, al pensiero, alla dottrina, pur troppo molti dei nostri (e, duolmi dirlo, voi stesso Ettore, siete fra quelli) molti pur troppo si lasciano passare innanzi i borghesi; e non è coll'arroganza, non è colla ragione dei duelli che si possa conservar più una supremazia di cui non siasi capaci. La scienza tiene e terrà sempre più il campo, e chi la possederà sarà il padrone della terra.

– Perdoni, padre mio, disse Ettore con accento in cui non mancava il rispetto, ma apparivano il fastidio di siffatta discussione e il suo pieno dissentire dalle idee manifestate dal padre. Noi ci siamo ingolfati in troppa metafisica di considerazioni. Confesso che in codesto io non ci valgo niente. Ho sempre creduto che appunto la Provvidenza mi avesse fatto nascere in questo alto grado per esentarmi dai bassi lavori e dagli studi cui è condannata la borghesia. Pensare a migliorare l'agricoltura, a far progredire la scienza, è opera che si confà alle classi inferiori. Me Dio ha posto, senza tanti discorsi, al di sopra degli altri; e quel grado, pur ch'io sappia mantenermelo colla spada, come con essa lo acquistarono gli antichissimi miei maggiori! Ecco la filosofia civile che mi suggerisce il mio buon senso, e non ne cerco altra. Ma scendendo da cotanta generalità al mio caso particolare, le dico appunto che la suscettività impostami dal mio grado esigeva che ad una parola impertinente di quel da nulla io rispondessi come ho risposto. Capisco che con questa maledetta invasione di pretese uguagliatrici, io del mio atto, quantunque contro uno così da meno di me, debbo esser pronto a dargliene ragione colle armi: e non ho esitato menomamente ad accordargli codest'onore, e credo far tutto ciò che mi detta il più scrupoloso sentimento di delicatezza adoperandomi perch'egli sia sollecitamente posto in condizione da ricevere da me quella soddisfazione di che mi ha mandato a richiedere.

– Ed oramai codesto non basta: disse col suo più autorevol tono di voce il marchese.

– Come! Esclamò Ettore con un sussulto.

– Non basta: continuò collo stesso accento il padre. Voi aveste torto nella contesa che faceste nascere con quel giovane…

– Sa Ella al giusto come si passarono le cose per potermi dar torto?

– Lo so… e da Virginia medesima.

– Ah Virginia…

Ettore voleva soggiungere della parzialità che sospettava in sua cugina a favore del giovane borghese, ma si tacque, contentandosi di atteggiare le labbra superbe ad un sorriso ironico.

– Questo contrattempo della Polizia concorre sventuratamente ad accrescere il vostro torto: seguitava il padre. Per ripararlo, io otterrò la sollecita liberazione di quel giovane, e voi andrete primo a tendergli la mano.

Ettore sorse in piedi come spinto da una molla.

– Oh codesto, prorupp'egli, io non farò mai. Gli manderò a dire che mi rimetto a sua disposizione per un altro convegno; ed ecco tutto. Non posso far di più che accordargli l'onore di battermi.

– Batterti! Esclamò una donna a faccia orgogliosa, che era entrata in quel punto e s'avanzava con mossa superba. Ti vuoi battere con quel borghese di ieri sera. L'ho capita. Mon Dieu! è egli possibile che t'entrino in testa siffatte idee? Un Baldissero si batte con un suo eguale, ma non con un plebeo.

Era la marchesa, la donna la più infatuata della sua nobiltà che potesse esser mai; era un rinforzo che arrivava al figliuolo per la sua resistenza alle generose idee del padre.

Se il marchese nella sua gioventù aveva nel matrimonio vagheggiato il bene d'una compagna amorevole, degna, capace e desiosa d'essere una confidente, una confortatrice, un consiglio: che del marito facesse suoi travagli e piaceri, propositi e speranze; la signora marchesa eragli stata compiutamente una delusione. Era essa la vanità personificata. Nulla arrivava a toccarle l'anima che l'omaggio reso ai quarti del suo blasone; al suo cervello essa non lasciava giungere che il profumo delle adulazioni; il suo cuore non palpitava che per le emozioni dell'orgoglio. A farla consentire con premurosa voglia alle nozze col marchese, non era stata la fama di valore di costui, la bella sua presenza, che ne faceva uno dei più eleganti cavalieri del suo tempo, l'ingegno e la leggiadria delle maniere, era stata soltanto la purezza nobiliare del suo stemma portato dai suoi maggiori alle crociate. Quindi non gli aveva ella recato nella vita comune nè vero amore, nè l'abbandono fiducioso onde si assembra e si fa quasi una sola l'esistenza di due vite, ma soltanto un esagerato concetto della dignità e della grandezza aristocratica del nome. Quante volte il bisogno d'affetto, cui pure possedeva potente l'animo del marchese, non gli fu amaramente propulsato dall'aridità di quel cuore di donna! Come spesso l'animo del gentiluomo si sentì ferito e dolorò nel trovarsi ad ogni occasione daccanto il freddo contatto d'un'anima che non capiva ragione d'affetto, che non aveva per nessuna guisa quello che Dante chiama intelletto d'amore? Aveva egli sperato, l'anima compagna e temprata al medesimo sentire, in cui quindi potesse effondersi, trovarla poi nel figliuolo; e fu invano anche questo. Nel figliuolo primogenito si ritrovava esatta la riproduzione dell'asciutta, fredda, vanitosa, arrogante anima materna. La famiglia del marchese era spoglia di ciò che ne fa la maggiore dolcezza e il pregio invidiabile; egli stava sopra di essa come un capo riconosciuto ma non amato, come un superiore innanzi a cui si cede, ma sotto il rispetto pel quale c'è l'indifferenza. Se non fosse stato della amorevole e riconoscente Virginia, il marchese non avrebbe saputo più che cosa fosse la tenerezza di un affetto. In questa solitudine del cuore le triste memorie del passato, di cui abbiamo avuto già un cenno, lo angustiavano con segreto, incomunicato e tanto più fiero tormento.

6Abbiam visto che questa era stata causa, onde Tofi interrompesse l'interrogatorio di Maurilio.