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La plebe, parte II

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– Aspettate: diss'ella al portinaio: forse ho sbagliato; mio marito non avrà preso seco i denari… Forse sono ancora costì, e ve li do subito a voi medesimo.

Si gettò addosso comecchessiasi la sua stracciata vestaccia e saltò giù dal letto con vivacità datale dalla passione di quel crudele momento. Corse a quel tréspolo azzoppato che serviva loro da tavolino e cercò con mano avida in una scatola senza coperchio che vi era su, entro la quale ella stessa aveva posto le monete datele dalla carità quella mattina. La scatola era vuota. Non solo mancavano i denari che si erano messi in gruppetto separato per pagare la pigione, ma erano spariti anche gli altri, mercè cui la infelice donna aveva calcolato d'avere il pane della famiglia per molti giorni.

Alla debolezza di Paolina affranta di anima e di corpo, quel colpo fu troppo grave. Si abbandonò sulla più vicina seggiola, pallida come una morta, e non ebbe più forza nè di parlare, nè manco di pensare, nè di volere cosa nessuna. Un'atonia dolorosa la invase: il suo stato poteva rassomigliarsi a quello d'un caduto in acqua vorticosa, che lotta finchè gli bastan le forze contro la corrente, e poi ad un tratto sente mancarsi ogni vigore, capisce che nulla può salvarlo più, chiude gli occhi e s'abbandona al suo destino.

– Ah ah! diceva con sciocco e crudele trionfo il portinaio. Voi vedete se c'era da credere che Andrea lasciasse manco la croce d'un centesimo. E' vi ha fatto un repulisti completo. Eh! lo conosco per bene io, quel buon soggetto. Avesse delle migliaia di lire, che è capace di fonder tutto alle carte e bevazzando qui da compare Pelone. Dunque non c'è più caso di star lì a fare altre considerazioni. Il padrone ve l'ha detto e ridetto che non vuole più avere dei pigionali della vostra risma. Potrebbe farvi staggire tutta questa poca roba… ma siccome non c'è manco tanto che basti a pagar le spese di giustizia, così ve le lascia portar via, al diavolo, dove volete… Ma vuole aver subito libera questa soffitta. Avete capito?

Paolina, mezzo dissensata, sollevò la testa e guardò il portinaio con aria così smarrita che mostrava non aver ella proprio compreso.

Il portinaio ripetè in tono ancora più chiaro le sue parole, e le conchiuse con una dichiarazione tanto esplicita da non lasciar più dubbio nessuno.

– Io, dunque, disse, prendo questi vostri quattro stracci, ve li calo giù nel cortile, e voi fateveli portare poi dove vi piace.

E siccome pose tosto mano all'opera, Paolina, per quanto offuscata dal dolore avesse la mente, dovette andar persuasa che quello non era un sogno crudele, ma una tristissima realtà.

La disperazione le ridonò ancora alcun po' di vigore per rivolgere alcune preghiere al cuore indurito di quel degno agente dell'usuraio; soggiunse, Andrea sarebbe forse venuto più tardi a pagare, si aspettasse almeno un giorno o due ch'ella avesse potuto trovare un ricovero a' suoi figli. Niente affatto! Il portinaio fu inesorabile; e venti minuti dopo la poca e povera roba di quella disgraziata famiglia era giù nel cortile in un piccolo mucchio, e sopra di essa stavano accoccolati i bambini piangenti e la madre che non piangeva più, che aveva nelle membra il tremore, e negli occhi l'ardore della febbre.

Sul loro capo calava la neve che seguitava sempre a fioccare.

Ma non era passato molto tempo che in quel cortile, intorno alle masserizie ed alle persone della povera famiglia s'era formato un capannello, in cui le parole che suonavano nei vivaci discorsi non erano d'elogio al padrone di casa. Erano popolani abitanti di quel miserabile quartiere che imprecavano e maledivano alla barbarie di messer Nariccia e si sfogavano in minaccie contro di lui, che si sarebbero tradotte in fatti niente graziosi per esso, quando fosse comparsa a vista di quegl'indignati la faccia ipocrita di quello scellerato usuraio. Dorotea medesima corse rischio di passarla brutta, avendo voluto ficcare il naso là in mezzo, tiratavi dalla curiosità, mentre andava dallo speziale a procurarsi la medicina di cui Quercia aveva scritto la ricetta e che Nariccia s'era deciso di prendere. Le imprecazioni contro il padrone ebbero una tal recrudescenza e presero un dato momento una direzione così personale per la vecchia fantesca, ch'ella stimò bene allontanarsi più che in fretta. Ritornata a casa Dorotea raccontò a Nariccia quello che accadeva nel cortile, e l'usuraio, spaventato, non si credette sicuro se non mettevasi sotto la salvaguardia della polizia, inviò pertanto il portinaio al Comando di piazza, e due veterani non tardarono ad arrivare per porre l'ordine in quel cortile col loro bastone e colla loro autorità.

Ma che cosa fare di quella donna e di quei bambini? Il quesito sarebbe stato di ardua soluzione, se l'intromissione d'un personaggio, che al suo primo comparire si dimostrava fatto per comandare, non ci avesse provvisto. Questo personaggio era il dott. Quercia medesimo, il quale, terminata la sua segreta conferenza colla Leggera, passava di là, non a caso, ma per recarsi in quella sua casina sul viale dove l'abbiamo già accompagnato una volta, essendo quella strada la più breve per arrivarci.

Gian-Luigi ordinò che la donna, in cui il male era oramai precipitato in uno stadio gravissimo, fosse trasportata all'ospedale, i bambini fossero condotti in un vicino asilo, dov'egli pagando li ottenne subito ricoverati. Quando egli aveva finito di disporre pel compimento di quest'opera buona, al mormorio lusinghiero della gente colà raccolta, un omicciattolo s'accostò pianamente al dottore, e gli disse sotto voce:

– Questo fatto veramente provvidenziale darà alla cocca il fabbricatore di chiavi false che ci abbisogna.

Il medichino riconobbe Graffigna, che s'era così bene camuffato, da sembrare affatto un'altra persona, gli fece un lieve cenno d'intelligenza e si allontanò. Graffigna disse allora a sè stesso:

– Andiamo a cercare di Marcaccio e di Andrea; costui adesso non ci scapperà più di sicuro.

E si diresse verso la taverna di Pelone. Vedremo più tardi quali tristi effetti avesse sulla sorte di Andrea e su quella medesima di Nariccia la crudele determinazione di quest'ultimo, che scacciava di casa sua la donna malata e i bambini dell'artefice ferraio.

CAPITOLO XXII

La stanza in cui erano rinchiusi Maurilio e Selva nelle parti inferiori del castello, era fredda, piccola, umida, scura, selciata di mattoni la cui polvere non mai spazzata, in quel momento, trovavasi ridotta ad una specie di motriglia dall'umidità che ci entrava traverso le grosse inferriate e la fitta graticola vestita di ragnateli della finestrucola che in alto presso il soffitto si apriva nei fossi delle due torri, e le cui imposte ned erano chiuse nè potevansi chiudere neppure, per la semplice ragione che mancavano affatto.

In quella stanza di prigione i mobili non facevano ingombro. Da una parte eravi un tavolato infisso al pavimento, per servire da letto; dall'altra parte una brocca di terra cotta piena d'acqua, e un bigonciuolo che serviva ad usi meno nobili ma necessari. Ecco tutto.

Maurilio, venendo dalle stanze superiori dove c'era maggior luce, al suo entrare colà dentro non vide nulla che una chiazza bianchiccia in alto della parete di faccia alla porta, ed era la finestrina per cui penetrava un poco di barlume. Il secondino che dietro il cenno del Commissario lo aveva accompagnato a quella carcere, tirato ch'ebbe i chiavistelli, girato la chiave nella serratura, aperto il grosso battente dell'uscio cigolante sui cardini, senza tante cerimonie diede uno spintone per le spalle a Maurilio, affine di cacciarlo dentro, e col medesimo rumore che aveva fatto testè ad aprire, richiuse sollecitamente dietro di lui la pesantissima porta.

Maurilio vide l'ombra d'un uomo che pareva sorger da terra, agitarsi innanzi a lui e slanciarsi verso di esso con una esclamazione; ricordò il suo ingresso nelle carceri del palazzo chiamato ancora oggidì il correzionale, e si trasse indietro vivamente con raccapriccio di timore e di ripugnanza.

Ma Giovanni, le cui pupille s'erano già temperate alla poca luce di quell'ambiente, aveva di botto riconosciuto in chi entrava l'amico suo, epperò si era affrettato al suo incontro.

– Maurilio: diss'egli con un'intonazione di lieta sorpresa nella sua voce vivace e francamente sonora: poichè anche tu avevi ad essere uccello di gabbia, benedetto l'azzardo che ci congiunge: dico l'azzardo perchè ho troppa stima del signor Commissario per supporre solamente che questo possa esser l'effetto d'un gentile riguardo che ci abbia voluto usare.

– Che? Esclamò Maurilio rassicurato e sentendosi rinfrancare di botto alla voce, alla presenza, alla stretta di mano, all'abbraccio dell'affettuoso amico. Sei tu, Giovanni? Arrestato anche tu!.. Oh! come mi fa piacere il trovarti.

– Birbone! Disse Giovanni ridendo. Ti fa piacere vedermi in gattabuia!

– Eh! no di certo. Voglio dire…

– So bene quello che vuoi dire: interruppe col suo riso schietto ed aperto Giovanni Selva. Ma qui, tocca a me, che ci sono entrato alquanto prima, il far gli onori dell'appartamento. Se non ci vedi ancora abbastanza, dammi la mano e lasciati guidare.

Lo condusse al tavolato.

– Qui, continuò, è il sofà; egli è vero che questo è anche il letto, e può, anzi deve servire eziandio da tavola. Semplificazione veramente ammirevole!.. To', imita il mio esempio, e siedi sulla sponda di questo tavolo-sofà-letto. Che bel vocabolo!.. Non temere di guastarne la spiumacciatura pei tuoi sonni della notte, sibarita che tu sei. La sofficità di questi materassi non ci può patire. Non è qui che potrà darti fastidio la foglia di rosa male ripiegata sotto la tua schiena, te lo assicuro io. È presumibile che avremo delle belle ore innanzi a noi da guardare quel «breve pertugio» lassù, che ci lascia venire tropp'aria, troppo freddo e per compenso troppo scarsa la luce; per fortuna abbiamo più sacca da vuotare a vicenda. Io ti dirò l'iliade del mio arresto, tu mi conterai l'eneide del tuo, e poi terminerai di espormi l'odissea delle avventure della tua vita. Oggi sono classico come il prof. Paravia e parlo come un'appendice di Romani. Possa quest'omaggio alla letteratura officiale rendermi benigni i Dei infernali di queste bolgie governative! Queste chiacchere non ci scalderanno, ma ci faranno passare il tempo. Siccome spero che non saremo condannati alla sorte del conte Ugolino, spero bene che finirà per venirci qualcheduno, da cui, mercè il sacrifizio dei pochi denari che ci hanno levato di tasca, potremo ottenere una coperta per non gelare come sorbetti e qualche mezzina di vino per non lasciare intorpidirsi, come già mi sento le mani, anche il cervello.

 

Il programma di Giovanni fu seguìto appuntino. Dopo che l'uno e l'altro ebbero narrato a vicenda come avesse avuto luogo il loro arresto, dopo discorso non senza gravi apprensioni dei pericoli che sovrastavano a loro, agli amici ed all'impresa, Maurilio, pregatone di nuovo dal compagno, riprese il racconto della sua vita, interrotto all'alba di quella stessa mattina, quando Selva aveva dovuto correre da Francesco Benda per accompagnarlo in qualità di padrino al duello col marchese Ettore di Baldissero.

– I giorni che passarono, poichè ebbi la fortuna di incontrarmi col signor Defasi; così incominciò a raccontare Maurilio, recatosi prima alquanto sopra sè come per evocare più nette innanzi alla mente le sue memorie: quei giorni furono i più lieti e tranquilli che io abbia passato ancora mai su questa terra. Quella buona e pietosa famiglia mi pose un vero affetto. I miei studi interessarono il capo di casa e i progressi del mio intelletto lo stupirono di molto. Ebbe di me stima assai più ch'io non meritassi, e quasi ammirazione. Volle che con lui e con i suoi, fossi non più nelle attinenze d'un inferiore, ma in quelle d'un uguale. Spinse al punto il suo affetto e l'estimazione per me che mi lasciò comprendere un giorno come non avrebbe disdegnato, me povero e senza famiglia, accogliere come figliuolo concedendomi la mano d'una delle sue ragazze.

– Ed ecco entrare finalmente in campo la molla o segreta o palese, ma universale, delle azioni umane: la donna! Così disse Giovanni. Tu mi hai detto già che una violenta passione era venuta a impadronirsi del tuo cuore e darci fuoco a quella provvista di poesia che vi giaceva latente; questa passione era ella appunto per la figliuola del tuo principale?

Maurilio scosse la testa con atto di negazione desolata.

– No; rispose. Ah! fosse stato così! Avrei svelato al signor Defasi tutta la verità sul mio conto; ed egli così generoso verso tutti, così ammirato di me, avrebbe tuttavia concessomi l'onore della sua alleanza. La donna che avrei amata sarebbe stata mia. Ma il mio cuore invece – lo sciagurato ch'io sono! – non fu tocco dalle domestiche virtù e dalla modesta leggiadria delle figliuole del libraio; fu ad un punto acceso dalla fiera bellezza, dalle superbe grazie di tale, appetto a cui il povero trovatello è come innanzi alla gemma che orna il diadema d'una regina, il verme della terra.

S'interruppe manifestamente esitante ancora innanzi alla rivelazione del suo segreto.

Giovanni gli prese una mano e lo incoraggiò con una stretta, senza parole, e con uno sguardo affettuoso.

Maurilio disse affrettatamente ed a voce bassa:

– Amo la contessina Virginia di Castelletto, cugina del marchese Ettore di Baldissero.

E poi, come uomo che ha detto una sua gran vergogna, nascose la faccia sconvolta nelle grosse mani.

– Cospetto! Esclamò Giovanni con accento tra di meraviglia, tra di compassione. Per te questo amore è un terreno arido in cui non può nascere il menomo fiore d'una speranza. Tanto varrebbe esserti innamorato della luna! Valla ad arrivare! Mio caro, allorchè di queste passioni impossibili entrano nel cuore d'un uomo, conviene strapparle subito, ad ogni costo, anche portandosi via un pezzetto del proprio cuore, chi abbia senno, risoluzione e coraggio d'uomo siccome hai tu.

– Eh! che cosa non ho io fatto per ciò? Proruppe Maurilio con impeto. Non ci ho potuto riuscire a niun modo. Questa fatale passione si è tenacemente impigliata al più intimo dell'esser mio, ha gettato le radici profonde nel substrato della mia natura, s'è fatta il sangue che palpita nel mio cuore, s'è insinuata in ogni circonvoluzione ove sta lo strumento del pensiero nel mio cervello, s'è fatta l'anima mia. Da questo miserabil corpo non si può togliere più che colla vita: dallo spirito forse mai più!.. Forse l'ho già portata meco da esistenze anteriori, e seguiterò ad averla connaturata colla mia essenza individuale negli stadii infiniti della mia immortalità, aspirazione fors'anco ad una meta di felicità non arrivabile nel tempo, punizione e spasimo frattanto nella relatività delle vite incarnate.

Agitò la sua testa grossa ed arruffata, lanciò dai suoi occhi profondi delle fiamme di sguardi: il sangue concitato gli colorò un istante i pomelli delle guancie e la vastissima fronte parve in quella accarezzata da una luce fosforica che la circondasse. La bruttezza delle sue corporee sembianze scomparve un istante sotto il fugace rivelarsi della luminosa natura dell'anima là dentro costretta. Una donna d'intelligenza l'avrebbe trovato in quel punto meglio che leggiadro, imponente e sublime.

Sì: continuò egli lasciando vibrare la sua voce, che acquistò ancor essa un'insolita ed efficace armonia: questa passione, che fa da veste di Nesso all'anima mia, l'ho portata meco da altre vite, da altri mondi. Che cos'era quella indefinita ed incompresa aspirazione all'ideale che affannava fin dai primi anni l'inconscia mia natura? Che cos'era quell'ardore di innalzare nella schiera gerarchica delle intelligenze il mio spirito audace ed ambizioso, mercè lo studio ed il sapere? Che cosa quei tumulti inesplicabili che mi sobbollivano in petto, che mi facevano fra mille temerarie idee dibattersi la ragione, come nave senza governo in mar tempestoso? Che cosa quelle ineffabili chimere con sorrisi di donna e con isguardi d'angelo che passavano lucenti frammezzo alle mie fantasticaggini, adombrandomi un bene sconosciuto e cui non sapevo definire? La prima volta che io l'ebbi veduta, lei, appena fu comparsa a questi occhi, compresi tutto. La passione d'amore era lo svolgimento dell'anima umana, essa era la legge suprema del mondo morale come in quello fisico l'attrazione; e l'anima mia, fatalmente, per ignota necessità, era avvinta a quell'anima che mi si rivelava con tanto sfolgoramento di bellezza, oscuro pianeta di quell'astro lucente. Oh! come lo ricordo quel momento in cui la prima volta quella beltà raggiò nella penombra della mia esistenza! Se chiudo gli occhi, rivedo tal quale il luogo, il tempo, e lei, e me, ed ogni oggetto circostante.

Chiuse diffatti gli occhi, e sulle sue pallide labbra si disegnò un ineffabile sorriso, da potersi paragonare a quello del Joghi, indiano, che nelle sue mistiche contemplazioni vaneggia di giungere al proprio assorbimento in Brama.

E stette un poco, tacendo, in quella mossa prima di riprendere il suo dire.

– Era una bella giornata di primavera; così riprese Maurilio di poi; un lieto raggio di sole entrava nella bottega dei signor Defasi e faceva ballare allegramente traverso il suo splendore i minutissimi atomi della polvere. Il principale era seduto ad una sua piccola scrivania esaminando i libri delle ragioni; io, assorto in una meditazione indefinita e indefinibile, guardavo la danza di que' minuzzoli di materia che turbinavano, all'aria che filtrava dall'uscio, entro quello sprazzo di luce.

«Ad un punto una sfarzosa carrozza con due cavalli di prezzo si fermò innanzi alla bottega; un domestico in livrea disceso dal seggio del cocchiere ne venne ad aprire l'usciolo, e due donne uscite dalla carrozza si diressero verso il fondaco, di cui il domestico s'affrettò a spalancare l'uscio a vetri perchè potessero entrarci.

«Di quelle donne io vidi una soltanto. La sua testa mi apparve in mezzo allo splendore del sole, più splendida ancora nello sguardo angelico, nel sorriso divino. Sopra i suoi capelli color d'oro la luce faceva come un'aureola di fuoco; la sua bellezza verginale spiccava su quel fondo ardente come una sublime figura del Beato Angelico sull'oro della sua tavola. S'avanzò con graziosa mossa verso il banco ingombro di libri; il lieve rumore del suo passo, il fruscio delle sue vesti mi parve un'armonia. La guardavo con occhi sbarrati, immobile, fiso, rapito, non più presente a me stesso, non più sulla terra, non più conscio di nulla che quella celestiale bellezza non fosse. Palpitavo e tremavo; sentivo un ghiaccio corrermi nelle vene e una vampa di fuoco precipitarmisi nel cervello. Credo che se avessi visto precipitare in quel punto sul mio capo un colpo della falce della morte, non avrei manco potuto muovermi a schivarlo, così ero impietrito. Era una visione beata che avrei voluto durasse una eternità. Ella parlò. Che cosa dicesse non so, non capii, ma bevvi avidamente coll'anima quella voce soave. Il padrone s'era alzato dal suo posto ed era venuto riverente incontro alle due donne. Egli rispose alcun che. Vidi che quella divina figura sorrideva, udii ancora una volta la melodia di quella voce; poi l'apparizione scomparve, la carrozza ripartì e mi sembrò che quella bellezza allontanandosi, seco portasse lo splendor del sole, che miravo con sì gaio e intento sguardo poc'anzi.

«Allora essa trovavasi al primo sbocciare della sua giovinezza, quasi non uscita tuttavia dall'infanzia, eppure già donna per la imponenza dello sguardo, pel sentimento alto e profondo che si manifestava nelle sue sembianze, nel suo contegno, nel suo sorriso.

«Apprendere chi ella fosse lo desideravo colla più intensa vivacità del mio volere, ma domandarlo non avrei osato mai. Il signor Defasi mi soddisfece dicendo egli stesso, non richiesto, appena ella fu partita:

« – Che cara, bella e buona ragazza è questa mai! Essa è la contessina di Castelletto; e da qualche anno la è una delle migliori avventrici del mio fondaco. L'ho conosciuta che la era ancora una bambina, ed era già così affabile e graziosa come adesso, con una certa dignità fin d'allora, che era una meraviglia. Converrà mandarle subito questi libri che ha domandato.

«Io sorsi di scatto dal mio cantuccio.

« – Vado io stesso all'istante, signor Defasi: dissi vivamente parendomi un gran che il potere far subito alcuna cosa che lei in qualche modo riguardasse.

« – Oh non c'è poi tutta questa premura: rispose affettuosamente il principale, che postomi, come ti ho detto, molta stima ed affezione ed innalzatomi, col migliorare delle sue fortune, al grado di suo primo commesso, scambiava quel mio ardore per zelo di volerlo contentare. Non occorre che vi scomodiate voi stesso, appena venga il galoppino lo faremo trottar lui.

« – Oh no, caro padrone: io dissi quasi supplicando: lasciatemi andar me, subito.

«M'accorsi alla guisa con cui il signor Defasi mi guardava, ch'e' molto stupivasi di quella mia insistenza, di cui non sapeva darsi ragione; sentii salirmi il rossore alle guancie come se vedessi scoperto quel mio segreto nato pur allora, e che già tanto m'era caro.

« – Ho bisogno di uscire, balbettai, di prender aria, di fare un po' di moto. Ho il sangue al capo. Questo mi servirà di passeggio.

« – Andateci pure allora: disse il principale colla sua solita bontà: e passeggiate quanto vi bisogna. Voi veramente state di troppo chiuso fra le pareti e fermo al lavoro. Ve l'ho detto tante volte che il vostro indefesso studiare vi farebbe male. La gioventù ha mestieri di aria libera e di moto. Nè dovete prendervi la menoma soggezione di me, perchè sapete bene ch'io sono disposto a darvi tutte quelle ore ed anco tutti quei giorni di vacanza che desideriate. Dunque to'; eccovi l'involto di libri che recherete al palazzo di Baldissero, e poi non vi aspetto più a casa che per l'ora di pranzo. Siamo intesi così?

«Io lo ringraziai, presi il mio cappello, e coll'involto dei libri sotto il braccio via di corsa verso l'indicatomi palazzo.

«Lungo la strada che avevo da percorrere, tenevo quell'involto con mani quasi tremanti, come per un tesoro che portassi. Ella quei libri li aveva già toccati, li avrebbe tenuti colle sue manine, avrebbeli introdotti nel santuario dei suoi appartamenti, posatili sul guanciale per leggerli la sera, avutili per delle ore sotto gli occhi. Li accarezzavo collo sguardo, li invidiavo coll'anima: li stringevo al cuore, come una cosa diletta. Mi pareva che essi dalle mie mani, passando nelle sue, dovessero stabilire una specie di legame segreto fra me e lei!..

 

«Giunto alla soglia del portone, la voce del custode mi ridestò dai miei sogni di pazzo:

« – Dove andate giovinotto? Mi domandò egli.

«Quelle parole mi arrestarono con un sussulto, come se fossero le più inaspettate e strane, mi trovarono sprovveduto affatto di risposta da fare. Ristetti confuso e balbettante.

« – Ebbene? Ripetè il portinaio. Siete sordo, o non sapete dove avete da andare?

«In quella una carrozza soprarrivava di trotto serrato, e voltando rattamente sotto il portone, poco mancava che mi schiacciasse, interito e sbalordito com'ero.

«Il portinaio che si spaventò forte del mio pericolo, mi prese ad un braccio e mi tirò con violenza in là, gridando metà con rampogna e metà con interesse:

« – Siete proprio sordo, chè non sentite le carrozze che vi vengono addosso?

«Una testolina dai capelli d'oro comparve alla portiera, ed una voce d'argento dimandò:

« – Che cos'è stato?

«Era lei! Io risentii il palpito nel cuore e la tenzone del sangue nel capo, di poco prima.

«Il portinaio rispose; poi, siccome io continuava a tacere, vedutomi l'involto tra mano, il portinaio medesimo me lo prese, ne lesse la soprascritta, e disse alla signorina che io portava quella roba per lei.

«Ella avvisò tosto che cosa fosse.

« – Ah! i miei libri che mi manda il signor Defasi?

« – Sì… sì signora: ebbi pur finalmente la forza di balbettare con voce che mi era strozzata nella gola e con labbra che mi tremavano dall'emozione.

«Ella lasciò cadere su di me un suo sguardo benigno – su di me povero, oscuro, miseramente vestito, in così umile condizione sociale; – e disse con quell'accento la cui dolcezza al mondo nulla può eguagliare:

« – Vi ringrazio.

«Essa colla sua compagna salirono lo scalone: il domestico che era con loro prese dal portinaio l'involto e le seguì: io sentiva sempre nel mio orecchio l'eco di quella voce, il suono di quelle due parole.

«Approfittai della licenza datami dal principale e corsi ad accarezzare le mie fantasticaggini nella solitudine dei viali. Di botto una crudele vergogna m'assalse. In quali miserabili forme ero io comparso innanzi a lei! Quasi avessi uno specchio davanti agli occhi la mia bruttezza e la mia povertà mi risaltavano visibili e spiccate alla mente che a forza doveva paragonarle alla beltà ed alla ricchezza di quell'angelica creatura. Oh! s'ella avesse saputo che da quel meschinello disprezzato e disprezzevole osava innalzarsi sino a lei la temerità d'un amore! Pensai a Quasimodo il mostro creato da Victor Hugo nella Notre Dame de Paris, che ama supremamente la bellezza femminea incarnata nella grazia di Esmeralda. Ma in me c'era qualche cosa di più che non ci fosse in quell'embrione abortito d'uomo; ma il mio affetto era immensamente più nobile di quanto fosse la passione tra sensuale e canina di quell'essere mantenuto dall'organismo nella zona inferiore dell'animalità; ma in essa eziandio lo sguardo affermava che c'era qualche cosa di più della pura bellezza fisica. Se questa mia veste di carne troppo misera e disgraziata era indegna di rivolgere pure un desio a quella perfezione di forme, non erano in me l'anima e l'intelletto capaci di levarsi all'altezza e di parlare alla pari con quell'intelletto e con quell'anima? Superbamente mi dicevo che sì; un orgoglio immenso m'invadeva, e nella febbre di quell'agitazione pareva anche a me di aver nella volontà e nel pensiero una forza da sollevare il mondo, purchè trovassi il punto d'appoggio.

«Come fare per poter comparire agli occhi suoi in quel modo che indegno non mi facesse della nobiltà non del suo blasone, ma della sua natura? Questo pensiero si piantò fisso e potente nel mio cervello a regolare a suo capriccio tutti gli altri a lui subordinati. Ne immaginai mille di cose, tutte folli ed impossibili. Alla gloria fino allora non avevo pensato mai. Non mi era nata mai la speranza, nè il desiderio, nè manco l'idea che questa meschina personalità potesse innalzarsi al di sopra delle altre per essere ammirata dalla nullità comune. Allora, di colpo, vagheggiai la corona della gloria come un bene fra i più eccelsi; mi parve anche, nell'intensità febbrile del mio pensiero, un diritto della mia intelligenza. Oh! se avessi potuto recarle innanzi nella polvere calpesta da' suoi piedi una fronte cinta del diadema che dà la sovranità della mente riconosciuta e consecrata dalla fama! Ella avrebbe apprezzata questa grandezza; ella non avrebbe più guardato all'infelice viluppo, per accogliere quale sorella l'anima grande che si era manifestata, come quella Principessa che baciava amorosamente le labbra del deforme Alano Chartrain addormentato, per gli splendidi versi e pei sublimi concetti che uscivano da quelle labbra.

«La gloria! la gloria. La mi abbisognava, la volevo. Essa mi appariva più splendida nel guerriero e nel poeta. Sognai di diventar Napoleone; sognai di esser Dante. Un Napoleone italico che combattesse le battaglie della liberazione della patria, e poscia, acclamato da tutta una nazione redenta e fatta potente, venisse a prostrarsi innanzi a lei per dirle: «La mia grandezza è opera tua, la mia gloria sei tu; vieni a circondarti tu pure di questa infuocata aureola che illumina il mio capo al di sopra del comune livello dell'umanità.» Un Dante, rincalzato da tutto il tesoro della scienza moderna, che gettasse di nuovo nel crogiuolo della sua fantasia tutti gli elementi della vita, del pensiero e dell'affetto, per trarne fuori l'enciclopedia del secolo travagliato, in un altro splendido poema che comprendesse l'universo.

«Nemmeno pel pranzo non rientrai più in casa del signor Defasi. Mi ridussi nella mia cameretta, mi vi chiusi dentro e su quello scartafaccio su cui avevo cominciato a scrivere le emozioni dell'anima mia, le lotte e i conquisti della mia intelligenza, su quelle pagine scarabocchiai con mano febbrile i primi versi d'amore che erompessero dal mio cervello. Quell'immagine giovanile mi stava sempre dinanzi. Io le parlava come a persona viva che fosse presente e mi potesse ascoltare. Una folle illusione mi faceva quasi sperare che la intensità del mio desiderio e la forza delle mie preghiere varrebbero a comunicare, non ostante ogni distanza ed ogni separazione, all'anima di lei l'omaggio ed i tumulti dell'anima mia.

«Avrei voluto sapere di essa il nome di battesimo; quel nome con cui l'aveva chiamata sua madre, col quale avrebbe avuto diritto di chiamarla l'uomo a cui ella avesse dato l'amor suo. Conoscevo dell'idolo mio la luminosa esistenza, non la voce con cui invocarlo ed evocarlo, non la parola sotto cui volgerle la mia adorazione. Mi pareva che sapendo questo nome era un raccostarmi di più a lei, era quasi un intromettermi nel santuario della sua esistenza, era una maggiore rivelazione del Dio a me suo adoratore. Come fare per giungere a questo scopo? Per un altro sarebbe stata la cosa più semplice di questo mondo: interrogar qualcheduno; forse lo stesso Defasi avrebbe potuto soddisfare alla mia richiesta; ma io non avrei voluto a niun conto parlare di lei ad anima viva. E tu se' il primo a cui ne tengo parola. Mi pareva una profanazione; mi pareva che qualunque a cui mi rivolgessi avrebbe sentito nel mio accento, avrebbe letto nel mio volto il mio caro segreto cui con infinito pudore volevo a tutti nascosto.

«Una strana idea m'assalse. Mi ricordai ad un tratto di quell'aerea forma che fino dall'infanzia a lunghi intervalli era comparsa ai miei occhi, aveva parlato alla mia mente, confortatrice, consigliera, amorevole protettrice. Da lungo tempo ella non si era mostra più, ed io caduto, per conseguenza di alcune letture, in un nuovo scetticismo – e ti parlerò eziandio, se non l'hai discaro, di questi travagli dell'anima mia – io mi era sforzato a persuadermi che quelle apparizioni erano stati null'altro che fantasimi del mio cervello ed a ritenerle come illusioni morbose della mia immaginativa. L'amore che mi doveva ridonare la fede – la nuova fede su cui ora fonda il mio spirito l'edifizio delle sue convinzioni, dell'enciclopedia umana e delle conoscenze che è giunto e giungerà mai ad acquistare – la fede nel mondo superiore, senza cui manca all'essere uomo un elemento essenzialissimo pel suo proprio svolgimento e perfezionamento – l'amore che doveva ridonarmi questa fede, cominciò per farmi creder di nuovo alla realtà dell'esistenza e dell'intromissione nella mia vita di quello spirito incorporeo che mi era apparso in vaporose sembianze sotto forma di giovane donna.