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La plebe, parte II

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CAPITOLO VII

Il poliziotto, se vi ricorda, era vestito da povero operaio, ed aveva preso l'aria più timida e peritosa del mondo.

– Buona sera, madama: aveva egli detto con accento tutto rispettoso alla portinaia che per guardare attentamente chi le veniva innanzi, aveva fermate le sue mani nell'opera del far la maglia e stava colle punte dei suoi ferri da calza per aria.

Alle popolane torinesi, e massime a quelle dell'onorevole classe delle portinaie, il titolo di madama è un omaggio che si credono dovuto.

Monna Ghita sorrise graziosamente al nuovo venuto che si mostrava così civile, e rispose tutto garbata:

– Buona sera a Lei. In che cosa la posso servire? To', to': la è strana. Mi pare di conoscerla Lei, e non mi pare. Di certo la sua fisionomia l'ho già adocchiata.

– Può darsi: rispose Barnaba inchinandosi con un sorriso tutto piacenteria.

– Oh oh! io per ritenere le fisionomie non c'è la mia pari. Se mi avviene di vedere il muso di qualcheduno, passano anni ed anni e lo ravviso al primo rincontrarlo, come se non l'avessi visto che da ieri.

– Bella qualità! Disse con molta ammirazione il poliziotto.

– Si figuri che una volta avevo un cardellino, un miracolo di cardellino che era addomesticato così bene da parere un cristiano a cui mancasse soltanto la parola… E Lei saprà come sono difficili ad addomesticare i cardellini.

Barnaba fece un inchino per affermare che lo sapeva.

– Be', gli volevo bene, come ad una creatura ragionevole… e diffatti era tale più che certi bestioni d'uomini… Basta, lasciamola lì… Dunque un bel giorno, come fu, come non fu?.. Io già ho sempre creduto che sia stato quello zoticone del mi' uomo che è il più grossolano del mondo… Allora egli abitava ancora meco… che ora per fortuna di Dio sta lontano e d'un bel tratto… Fuori di città sui viali, nella casa del signor Benda, se lo conosce, quel gran fabbricante di ferro…

– Ah, ah! Esclamò il poliziotto che parve prestare alcuna attenzione a questa circostanza.

– Dunque un bel giorno gli si lascia aperto l'usciolo della gabbia (al cardellino), ed egli frrrt! se ne volò via per la finestra che vallo a vedere!..

– O diavolo! Esclamò Barnaba giungendo le mani con vivo interesse, e sedendo intanto sopra un trespolino ch'era lì presso, per ascoltare più divotamente la mirabile storia.

– Lo credevo perso senza più redenzione, quando la Marta – una mia amica e vicina che quella volta ne fece per miracolo una di bene, perchè è la più melensa e sragionata femmina che sia sotto la luna… e una lingua poi! oh quanto a lingua non dico altro che darebbe dei punti alle forbici del sarto – basta, la Marta venne ad avvisarmi in gran segreto che comare Polonia, la rivenditrice di pignatte e pentoloni che sta di faccia, aveva nelle sue gabbie… – la tiene delle gran gabbione tutte piene di ogni fatta uccelli che abbia creato Iddio – la aveva un uccello di più, e precisamente un cardellino. E la cosa era naturale. Il mio Fifì – lo chiamavo Fifì – era venuto per tornare a casa sua, s'era fermato sulle gabbie di Polonia, e quella sorniona lo aveva acchiappato e poi fatto mostra di niente… Dunque io corro da Polonia, e fra cinque o sei cardellini che la ci aveva – noti bene cinque o sei – riconosco subito alla fisionomia Fifì, e non c'è stato santi che tenessero, me lo feci restituire e la Polonia ci dovette stridere.

– Cospetto! L'ammiro di molto. E quel prezioso cardellino?

Sora Ghita prese l'aria dolorosa di colui a cui si riapre un'antica piaga dell'anima.

– Mi cascò un giorno nel beverino e mi si annegò.

Barnaba assunse un aspetto adatto alla circostanza.

– Che disgrazia!

– Or dunque, che cosa dicevo?.. Ah!.. Nel veder Lei, mi parve subito di riconoscere qualcheduno già visto altra volta. Di certo Lei abita da queste parti… To'! Badi se la indovino… Lei è il fumista e stufista che sta alla cantonata di via Santa Teresa.

Il poliziotto fece il suo sorriso più grazioso ed adulatore, per temperare la negativa con cui doveva rispondere.

– No, non sono il fumista.

– Per bacco! Avrei giurato… Si rassomigliano come le due chiappe d'una mela… Ma senza fallo Lei la deve abitare in questi quartieri.

Barnaba col medesimo sorriso rispose:

– Veramente no… Abito anzi piuttosto lontano… Però (s'affrettò a soggiungere) pratico frequente da queste parti.

– Ecco! Appunto! Gli è ciò. Volevo ben dire! E Lei dunque cerca di qualcheduno? Mi pare che abbia detto che cercava di qualcheduno.

– Sì. Mi fu supposto che in questa casa ci deve stare o ci deve venire alcune volte un medico, un bravo medico, giovane ed elegante, che si chiama… che si chiama… Ho lì il nome sulla punta della lingua… Non saprebb'ella aiutarmi, madama?

Ghita appoggiò al suo mento onorato d'una lanugine che quasi poteva chiamarsi barba, la punta di uno de' suoi ferri da calza, in atto di profonda meditazione.

– Un medico? Diss'ella. No, veramente qui non ce ne abita nessuno di medici… Ah sì… Al secondo piano c'è un dentista.

– No, non gli è ciò.

– Al primo c'è un notaio con sua moglie e sua madre… Liti del diavolo fra la suocera e la nuora. Un giovane di mercante che abita uscio ad uscio fa gli occhi dolci a quest'ultima… La Marta dice che li ha trovati insieme, lei e lui, una mattina in una strada scartata. Basta! Non facciamo giudizi temerarii come fa quella maldicente d'una Marta. Di sopra dunque c'è il dentista e un impiegato al Ministero, un brav'uomo che ha mezza dozzina di ragazzi. Al terzo piano abitano il calzolaio che ha bottega qui vicino al portone, il pizzicagnolo ed una di quelle donne che vanno ad impegnare per altrui la roba al Monte di Pietà. All'ultimo piano poi c'è una frotta di giovani…

Barnaba si accostò alla vecchia ciarliera con un interessamento che era più vero di quello manifestato fino allora.

– Giusto! Il medico che cerco sarà forse tra quelli, od almeno sarà loro conoscente, e verrà a vederli.

– No: disse la donna, tornando a riflettere. Di medici non ce n'è punto. C'è un pittore, che anzi è quello che ha preso a pigione tutto il quartiere.

– E si chiama? Domandò con aria innocente il poliziotto.

– Antonio Vanardi.

– Ah bene… L'ho sentito nominare… E con lui ci stanno parecchi…

– Tre… Anzi adesso quattro… Ma nessuno di loro è medico. Due devono essere avvocati… Ma di quegli avvocati di cui ce ne regge mille sopra un ramo… Credo che non abbiano mai visto l'ombra d'un cliente… Scrivono su per le gazzette e stampano libri o qualche cosa di simile… Spiantati, in una parola.

– E si chiamano? Tornò a domandar Barnaba colla medesima aria innocente.

– Uno, che ha l'aria d'essere un po' più innanzi degli altri negli anni, si chiama Romualdo, l'altro Giovanni Selva. Il terzo, che non è punto avvocato nè altro, ma fa lo scrivano pubblico e scrive suppliche e poesie, ha nome Maurilio Nulla: un originale a cui nessuno è capace di far dire quattro parole… È rientrato poco fa in casa, e l'ho visto passare attraverso il vetro del finestrino… Ma non c'è pericolo che mai e poi mai dica uno straccio di parola di saluto.

Barnaba si stampava tutti questi nomi nella memoria. Il giovane ch'egli aveva visto nella bettola di Pelone, poi sotto l'atrio del palazzo dell'Accademia Filarmonica, dove aveva fatto un cenno di meraviglia incontrandosi col dottor Quercia; quel giovane chiamavasi dunque Maurilio Nulla, era scrivano ed abitava insieme con due che alla polizia erano già noti da tempo come liberali e, secondo s'usava dire, patrioti rivoluzionarii.

– E ce n'è ancora un quarto? Soggiunse Barnaba per provocare la portinaia a parlare.

– Sicuro, da poco tempo… Saranno tre mesi tutt'al più… Questo è un forastiere… un italiano. Parla così bene che par sempre un libro stampato… È cantante e fa da secondo… com'è che si dice?.. secondo baritono al teatro Regio… Si chiama Medoro Bigonci… È venuto ad affittare una camera in casa del pittore, e non so davvero dove diavolo lo abbiano cacciato… Di medici fra tutti costoro non c'è nemmanco l'ombra. Forse gli è qui nella casa vicina che Lei dovrebbe andare. Ci sta un flebotomo che un tempo aveva anche la bottega da barbiere, ed ora s'intitola dottore. Un uomo grande e grosso, colla faccia color del vino…

– No, no, non è quello che cerco io: disse Barnaba. Io intendo anzi parlare d'un bel giovanotto che veste proprio coi fronzoli e porta due baffetti neri. Mi si diceva che qualche volta venisse a trovare quei giovani che abitano col pittore, e sopra tutto quel cotale che fa lo scrivano.

– Ah ah! Esclamò la portinaia come illuminata da una nuova idea. Sì che ci viene, ed anco di frequente, un giovane signore, ma signore per davvero e coi baffetti, ma questi baffi invece che neri sono biondi, e chi li porta non è medico altrimenti, ma avvocato ancor egli come il signor Selva e il signor Romualdo. E non è altri che il figliuolo del signor Benda il fabbricante presso cui è allogato il mi' uomo.

– Viene di sovente?

– Soventissimo. E ci si ferma per delle ore: Certe volte io ho già chiuso il portone, sono già andata a letto, sono già bella e addormentata che sor Francesco… l'avvocato Benda si chiama Francesco… non è ancora partito.

– Capisco. Una frotta di giovani. Faranno delle baldorie, cene, giuochi e donnette…

– Oibò! oibò!.. Prima di tutto c'è la signora Rosa, la moglie del pittore, una donna che ha lingua, ed anche le unghie, se occorresse, per farsi rispettare, la quale non tollererebbe mai una cosa simile… E poi conviene essere giusti, quei giovani sono a questo riguardo veramente esemplari. Io che ho buoni occhi ed ho buon naso in queste cose… come nelle altre… non ho mai potuto accorgermi di tanto così che avesse un'aria sospetta riguardo ai costumi.

 

– Lei mi stupisce. Ci credo perchè gli è Lei che me lo dice; ma che tanti giovinotti si radunino insieme e stieno chiusi in casa sino a notte inoltrata per far che?.. Per guardarsi semplicemente addosso?.. Uhm! la stenterei a mandar giù… Ci deve essere qualche segreto motivo.

– Eh! il motivo ci sarà fors'anco. In verità pare che abbiano le gran cose d'importanza di cui discorrere. La signora Rosa, la quale si ferma alcune volte a scambiar meco quattro ciarle, non sa nemmanco ella, dice, che cosa facciano, ma dice che si chiudono in una stanza tutti insieme e parlano fitto fitto sottovoce. Ella ha bensì origliato alla porta, ma dice non aver mai potuto capire una parola; ed una volta, dice, che dopo uno di questi colloquii suo marito era più cupo e pensieroso del solito, perchè quasi sempre, dice, dopo siffatte conferenze, il pittore si mostra tutto sossopra; una volta dunque che essa l'ha voluto interrogare, egli, dice, le ha risposto brusco brusco che non ficcasse il becco in codesto che non erano cose di cui occuparsi una donna.

– Oh oh! Cospetto! Disse il poliziotto, il quale ora non aveva più bisogno di fingere l'interessamento, ma anzi voleva dissimulare quello vivissimo che provava in realtà. Ch'e' facciano i monetari falsi? soggiunse sorridendo.

– Mai più! L'avvocatino Benda è straricco e non metterebbe le mani in siffatto intruglio…

In quella giungeva il sedicente Medoro Bigonci, ossia Mario Tiburzio il carbonaro, il quale, come abbiamo veduto, credeva opportuno confabulare colla portinaia un momento prima di salire all'alloggio di Vanardi.

Se l'istinto di cospiratore, in Mario Tiburzio, gli aveva fatto presentire la spia e il poliziotto nell'uomo che trovavasi nel camerino della portinaia, l'istinto proprio del segugio di polizia aveva da parte sua fatto subodorare a Barnaba in quel sedicente artista di canto qualche cosa che sapeva della ribellione alle leggi ed all'ordine vigente, e Mario non s'era niente affatto sbagliato, quando aveva creduto di accorgersi che quello sconosciuto, tuttochè cercando nascondersene, lo osservava con esperta attenzione.

Appena Mario venne fuori della stanza di monna Ghita, Barnaba disse vivamente a quest'essa:

– Quegli è il cantante Medoro Bigonci?

– Appunto. Gli è un pezzo che mi ha promesso dei biglietti d'entrata al teatro per me e per mio figlio… il quale si chiama Bastiano come suo padre, ma spero che non diventerà un bestione come suo padre.

Barnaba meditava fra sè.

– L'aspetto di quell'uomo non mi è nuovo. Fra le tante figure che mi sono passate innanzi nella mia vita così avvicendata, vi fu certamente anche quest'essa; ma dove e quando e come?.. L'accento della sua parola è romano… che io abbia dunque veduto codestui nel mio soggiorno a Roma?

Ad un tratto la nebbia che avvolgeva i suoi sovveniri parve squarciarsegli innanzi alla mente, e credette veder chiaro in essi, col suo vero nome e col vero esser suo, la figura dell'uomo che era passato.

Non potè frenare un'esclamazione, mentre e' si diceva a se medesimo:

– Conviene che ne esamini di meglio la persona, che lo veda almanco a camminare.

– Che cos'è stato? Disse la portinaia stupita, vedendo il suo compagno alzarsi di scatto.

Il poliziotto non ebbe altro spediente per ispiegare la sua mossa che dire la verità.

– Mi pare aver ravvisato quel signore per un cotale che ho conosciuto altrove, e voglio chiarirmi se ciò gli è vero o no.

Uscì sollecito dal camerino e seguitò con passo riguardoso il cospiratore, la cui ombra vedeva disegnarglisi innanzi nello scuriccio della scala male illuminata.

Mario Tiburzio s'accorse d'esser seguìto, ma non mostrò di porvi mente e continuò col suo solito passo il suo cammino.

Quando furono giunti all'ultimo pianerottolo, i sospetti di Barnaba s'erano quasi convertiti in certezza.

– Gli è lui senza fallo: disse a se stesso. È il rivoluzionario che fuggì in Roma medesima ai gendarmi papali che l'avevano arrestato.

Poichè Mario si fu introdotto nella stanza dove l'aspettavano i compagni, Barnaba s'accostò con cautela all'uscio, pose l'occhio e poi l'orecchio alla toppa, e vedendo che non poteva nulla scorgere nè udire di quanto avveniva colà dentro, si dirizzò della persona e collo stesso andar riguardoso si tolse di là e tornò nello stanzotto di monna Ghita.

– M'ero affatto sbagliato, diss'egli a costei; quel signor cantante mi è perfettamente sconosciuto. Ora non mi resta che ringraziarla della gentilezza con cui Lei mi ha trattato e partirmene che gli è tardi.

– Si figuri!.. Tutta a suo servizio. La Ghita è conosciuta per essere la più servizievole del mondo. Mi rincresce non saperle dir nulla del medico che Lei cerca…

Il poliziotto pensò fare ancora uno sperimento.

– Ah! Ora me n'è venuto in mente il nome: esclamò egli. Si chiama il dottor Quercia.

La portinaia tornò a riflettere un momentino e poi rispose:

– Non lo conosco davvero; non l'ho mai sentito a menzionare.

Barnaba soggiunse:

– È amico dell'avvocato Benda. Glie l'ho visto insieme più volte.

– Allora forse mio marito che è portiere alla casa Benda saprebbe dirgliene qualche cosa.

– Lei non lo vede mai suo marito?

– Una volta ogni morte di vescovo… e non cerco di più sicuramente. Un villanzone manesco che quando è in collera usa certi argomenti per aver ragione… E non c'è verso di parlargli senza farlo andare in collera. Avrebbe avuto bisogno di aver per moglie un ceppo di legno e non una donna viva. Con lui avrei dovuto tagliarmi la lingua, cucirmi la bocca e vivere come una mummia… Basta! Una buona ispirazione glie ne venne, sono già anni parecchi, d'andarsene egli pei fatti suoi e di lasciar me ai miei. È tornato al servizio dei Benda, dove era già stato fin da giovinotto. Ha una divozione per quella famiglia, che la sommission del cane pel suo padrone non gli è nulla.

L'agente della polizia che non aveva più cosa alcuna da spillare alle ciancie di monna Ghita, troncò lì il discorso, salutandola ed augurandole la felice notte con mille ringraziamenti, ed uscito di quella casa, s'avviò di buon passo verso Piazza Castello.

– Ecco un uomo assai gentile e garbato: disse la portinaia chiudendo dietro di lui il portone. È strana come ei rassomiglia al fumista!.. Ma guarda mò che ha finito per non dirmi chi egli è!

CAPITOLO VIII

Barnaba, giunto in Piazza Castello, entrò nel Palazzo Madama e s'intromise in una stanzaccia a pian terreno che serviva di anticamera all'ufficio del Commissario. Due guardie di polizia sonnecchiavano là dentro, mezzo sdraiate su panche di legno, vicino alla stufa in cui ardeva un fuoco vivace. Allo entrare di Barnaba le guardie si alzarono in piedi e salutarono militarmente con segno di rispetto.

– Il Commissario? Domandò con accento asciutto e vibrato il nuovo venuto.

– È fuori dell'ufficio, rispose una delle guardie, ma ordinò che se Lei veniva le si dicesse d'aspettarlo.

Barnaba fece un segno col capo come per dire:

– Sta bene; e passò in una camera vicina, a cui si accedeva per uno stretto e scuro corridoio.

Era meno grande della stanza in cui si trovavano le guardie. Una lampada ad olio con un cappello da riflettere il lume pendeva dalla metà della vôlta e la rischiarava debolmente. Le pareti nude, colorite a calce, erano grigie per la polvere e pei ragnateli. Il pavimento fatto di quadrelli di cotto era ronchioso per sudiciume rammontatovi su dai piedi di chi andava e veniva, senza che la granata si fosse immischiata mai a tentare una spazzatura. Da due parti correvano presso la muraglia delle panche lunghe, coperte di cuoio imbottito, ma questo cuoio, in parecchi luoghi lacero, lasciava scappare qua e colà la stoppa dell'imbottitura, come in varii punti pendeva a brandelli la lista, che, imbullettata all'estremità presso il legno della panca, doveva formare l'orlo da rattenere l'imbottitura. Alla parete che si trovava di faccia a chi venisse dal corridoio, non c'era panca, ma si vedeva in mezzo una scrivania posta in modo che chi vi sedesse avesse le spalle volte al muro, e in un angolo una porticina stretta e bassa con un uscio di legno di rovere irto delle capocchie di grossi chiovi, che pareva affatto un uscio di prigione. A destra di chi entrava si apriva un gran finestrone che guardava nei fossi del castello. Una tavola con sopravi un tappeto di panno verde sbiadito e sporco stava a metà della stanza sotto la lampada. Non c'era camino nè stufa e si sentiva entrando colà dentro un freddo umido ed uggioso che vi penetrava nelle ossa.

Barnaba si diresse tosto verso la scrivania e guardò le carte che vi si trovavan sopra. Erano rapporti di agenti subalterni, di carabinieri reali e lettere diverse d'ufficio: tutte cose indifferenti che il poliziotto scorse con occhio sbadato. Uno soltanto di quei fogli parve commuoverlo. Era il rapporto d'una rissa avvenuta a Porta Palazzo sulla piazza del mercato fra due saltimbanchi, di cui uno aveva ferito di coltello l'altro: il feritore era stato arrestato. Barnaba lesse due volte quel foglio, e la sua faccia si imbrunì stranamente; poi depose colle altre quella carta e fece due o tre giri per la stanza, la testa china, il volto cupo, come chi è assalito da dolorosi pensieri. Si fermò un istante presso la finestra, appoggiò ad una traversa dell'intelaiatura dell'invetrata la fronte, e rimase lì un istante a guardar fuori, innanzi a sè, ma con certi occhi che non vedevano gli oggetti esteriori, sibbene le immagini di qualche scena del passato evocata dalla sua memoria. Dopo un poco egli si riscosse, mandò un profondo sospiro, e venne a sedere presso la tavola di mezzo, sul tappeto della quale appoggiò il suo gomito, facendo sorreggere la testa alla palma della mano. Rimase immobile in quella positura, e pareva tutto intento a guardare il fiato che usciva dalla sua bocca addensato in vapore dal freddo ambiente di quella stanza.

Passò così più d'un'ora senza che quest'uomo si movesse altrimenti. Già da tempo era suonata la mezzanotte alla chiesa di S. Lorenzo, quando una voce rauca, ruvida ed imperiosa suonò improvvisa alle spalle di Barnaba.

– Ah! siete voi pur finalmente!

Barnaba sorse in piedi di scatto, e volgendosi si trovò in faccia al sig. commissario Tofi.

Un uomo alto e magro, di ossatura grossa e di membra asciutte: una faccia lunga colla mascella inferiore larga e molto sviluppata; una bocca enorme ed un naso monumentale; una fronte quadra colle ossa sopraccigliari proeminentissime e le occhiaie infossate; un colorito ulivigno e i capelli neri brizzolati; non un pelo di barba sulla faccia rasa accuratamente; un'espressione burbera e maligna; un alto e duro cravattino sotto il mento, un lungo soprabitone abbottonato sino al collo, con due grosse tasche ai due lati in sulle anche, un cappello basso a larga tesa in testa: tale era il temuto e temibile commissario, signor Tofi.

Barnaba lo salutò con umile deferenza, e l'altro, coll'accento più severo di rampogna che possa usare un superiore verso un subordinato in fallo:

– Gli è bene una fortuna, disse, che abbiate ancora avuta la degnazione di venire: di tutta stassera non ci è stato verso di vedervi.

– Signor Commissario: rispose Barnaba: non ho mica impiegato tutto questo tempo a divertirmi; e credo aver giovato anzi non poco al servizio. Vengo apportatore di informazioni che ritengo assai preziose.

Il signor Tofi lo guardò un poco entro gli occhi con quell'espressione feroce e minacciosa che gli era ordinaria.

– Sì? Diss'egli poi col medesimo tono ruvido e rimbrottoso. Udremo queste meravigliose informazioni, e vedremo se il loro valore è da farvi scusare del vostro ritardo. Intanto comincierete per istamparvi bene in mente le istruzioni e gli ordini che vi ho da dare. Venite nel mio gabinetto.

Camminò con passo militare verso l'uscio cui ho detto irto di chiovi di ferro; trasse di tasca una grossa chiave che introdusse nella toppa, ed aprì. Entrò esso primo ed a tastoni fu ad un caminetto, sopra la pietra di sporto del quale eravi un candeliere con una mezza candela di cevo. Accese quest'essa con un fiammifero che sfregò alla muraglia; depose il candeliere sopra la scrivania che si trovava nella profonda strombatura della sola finestra per cui là dentro penetrasse luce ed aria, e poi volgendosi a Barnaba che stava dritto sulla soglia, dissegli con quell'accento secco e imperativo:

– Entrate e chiudete.

Barnaba s'inoltrò, chiuse l'uscio e fece scorrere un catenaccio; poi rimase lì aspettando i comandi e le interrogazioni del suo superiore.

Questi depose il suo largo cappello sopra un forzierino che trovavasi presso il caminetto, trasse dalle tascone laterali del soprabito due pistole a doppia canna e le mise sopra la scrivania, poi si accoccolò presso il focolare e colle sue mani medesime si diede a frugar fra la cenere se ancora vi fosse qualche carbone acceso; ne trovò alcuni, li raccolse, vi pose su delle scheggie di legna, un po' di carte stracciate che prese in una cesta apposita, e vi soffiò su robustamente colla sua bocca; si scaldò un momento le mani grosse, quadrate, nere, villose, alla fiamma che non tardò a levarsi, e poi drizzatosi della persona, fregandosi ancora l'una contro l'altra le sue manaccie, si volse a Barnaba, che era sempre stato immobile al suo posto, e gli disse:

 

– Ora a noi!

Sedette alla scrivania, e Barnaba si accostò fino ad appoggiarsi con una mano all'orlo della medesima. La fiamma della candela, oscillando all'aria che s'intrometteva dalle fessure della finestra, mandava una luce rossigna, ora più, ora meno intensa, sulle fisionomie caratteristiche di quei due uomini, sulle protuberanze della fronte bassa, sulle linee aspre, direi quasi, della faccia del Commissario, sui lineamenti pallidi ed incerti e sull'aspetto reso insignificante per mirabile effetto di dissimulazione dell'agente segreto; al di sopra di quest'ultimo quella luce oscillante faceva danzare le ombre sul fondo della parete e tingeva di color sanguigno i busti di Carlo Felice e di Carlo Alberto che sopra due mensole appiccate alla parete guardavano coi loro occhi senza pupille e colla loro faccia impassibile di gesso le misteriose scene che succedevano in quel sancta sanctorum della Polizia.

– Vengo adess'adesso da S. E. il conte Barranchi: così disse il Commissario. E' mi ha mandato a chiamare per un grave scandalo che è successo poco fa al ballo dell'Accademia filarmonica. Un borghese da nulla ha osato insultare il figliuolo d'un'Eccellenza: il marchesino di Baldissero; e ciò mentre nel palazzo medesimo trovavasi Sua Maestà!

Chinò il capo in atto di riverenza, e Barnaba fece altrettanto.

– L'insultatore è l'avvocato Francesco Benda.

Barnaba levò il viso, e fece un atto che significava:

– Conosco chi è e ne so le novelle.

Tofi seguitava:

– Spinse l'audacia fino a sfidare a duello il marchese. S. E. è decisa d'impedire che un simile eccesso abbia luogo. Credevo che fosse per ordinare senz'altro l'arresto di quell'avvocatuzzo, e glie ne dissi; ma S. E. per certi nuovi riguardi preferisce farlo cogliere in sull'atto al momento del duello. Ho pensato di affidare a voi questa operazione. Conviene adunque che scopriate l'ora ed il luogo in cui dovrà succedere lo scontro e che allorquando sieno coll'armi alla mano li sopraccogliate in flagranti. Il marchese lo lascierete andare, l'avvocato, colle armi che sequestrerete, lo condurrete qui. Avete capito?

L'agente fece un cenno affermativo.

– Ora, continuava il Commissario, vediamo un poco l'impiego della vostra serata, e sentiamo quelle informazioni che voi dite tanto preziose.

Barnaba cominciò modestamente a parlare.

– Sono stato, come il solito, nella bettola di Pelone…

Il Commissario lo interruppe con ruvida ironia:

– E vi credete avere scoperto qualche cosa di nuovo intorno al furto avvenuto la notte scorsa nella casa del signor Bancone?

– No: rispose ancora più modesto il poliziotto: non ho scoperto nulla; ma mi sono persuaso sempre pili che gli autori di esso appartengono alla famosa cocca, di cui i caporioni si radunano nella taverna di Pelone.

– Bella scoperta! interruppe di nuovo il signor Tofi, crollando villanamente le spalle. Ve ne dirò io di più: fra i ladri c'erano di sicuro i due galeotti scappati Graffigna e Stracciaferro.

– Sì signore: disse con qualche calore l'agente subalterno: ma codestoro non sono che il braccio che eseguisce. A immaginare, ordinare i piani e condurre le imprese di quella cocca c'è una mente superiore, ed è l'uomo che la rappresenta cui converrebbe scoprire ed afferrare.

– Ah ah! Esclamò il Commissario con una specie di sorriso su quelle sue labbra grosse. Sempre la vostra idea fissa?

– Signor sì. Ed ogni giorno più s'afforzano i miei sospetti.

– Eh! non sono che sospetti in aria.

– Pazienza! Spero un giorno o l'altro di convertirli in prove reali. Nella bottega di Pelone capita sempre quel misterioso personaggio cui chiamano il medichino e che si nasconde così bene ch'io non ho ancora potuto vederlo per quant'arte e cautele adoperassi. Questa sera, quando io giunsi colà, egli era di certo nella camera riposta. Al vedermi comparire, Maddalena, la fante dell'oste, si precipitò in quella stanza, e quando io entrai in essa, e mi vi affrettai benchè alcuni tentassero trattenermene per via, quando entrai colà dentro non c'era altri più che la serva ed un giovane che non avevo ancor visto mai.

– E se ci fosse stato quell'altro, secondo che voi dite, interruppe il Commissario, e' non avrebbe potuto svanire come un fantasma. Conosco ancor io quella camera e so che non ci ha altra uscita fuor quella che mette nello stanzone del banco.

Barnaba crollò la testa in segno negativo.

– Così credevo ancor io, soggiunse, ma da qualche tempo avevo sospettato che fosse diversamente, e stassera mi sono affatto chiarito del contrario. L'imbarazzo di Pelone, la sollecitudine di Maddalena, le risposte che quell'imbecille di Meo fece ad alcune mie domande, mi persuasero che il medichino era sfuggito al mio sopraggiungere, e siccome pensai ancor io ciò che Ella ha detto or ora, ch'e' non poteva essere sfumato per aria, mi dissi che ci doveva essere un passaggio nascosto nell'impiallacciatura di legno che copre le pareti di quella stanza sino all'altezza d'un uomo. Rimasto solo un momento, mi diedi ad esaminare attentamente quell'impiallacciatura, e credo aver trovato il luogo preciso in cui s'apre l'uscio nascosto.

– Eh! questa è tal cosa che ha di certo la sua importanza: disse il Commissario pensieroso. Finora ho sempre inchinato a credere che il medichino fosse un personaggio di fantasia.

– Ah no! Proruppe con calore il poliziotto. Creda pure a tutta la realtà di esso.

– Allora bisogna assolutamente che ne sappiamo più precise le novelle. È già troppo tempo che si nasconde.

– Io credo che potremmo averle compiute queste novelle, se le cercassimo presso il dott. Quercia.

– Ecco la vostra idea fissa!

– È un istinto della verità. Non ho ancora nessuna prova positiva da poterlo stabilire; ma io penso, ma io sento che il medichino ed il dottor Quercia sono una medesima persona. E stassera medesima ne ho avuto un altro indizio.

Il Commissario guardò fisamente Barnaba a suo modo.

– Quale? domandò egli più breve e più imperativo.

– Le ho detto che nella camera riposta dell'osteria m'incontrai con un cotale non ancora veduto mai. Or bene, più tardi questo medesimo individuo io vidi sotto l'atrio del palazzo dell'Accademia Filarmonica tosto dopo che era passata la Corte; il dottor Quercia entrava giusto in quel momento, e il mio sconosciuto – allora era ancora tale per me, ora non lo è più – nel vedere il dottore fece un atto di conoscenza e pronunziò alcune parole cui non potei intendere ed alle quali il dottore mostrò di non badar punto.

– Sì, disse il signor Tofi: in codesto c'è un principio di indizio, ma così vago che non vi ci possiamo appoggiare per nulla imprendere.

– Ah! se Ella volesse far arrestare quel signor dottore!..

– Sarebbe forse un buon consiglio. Ma egli ha delle potenti raccomandazioni. Che cosa non direbbe il conte di Staffarda? e il conte San-Luca e il marchesino di Baldissero, che lo trattano da amico? Se noi non potessimo stabilir nulla di positivo a suo carico, avremmo torto e ci guadagneremmo il danno e la beffa. Piuttosto converrebbe sorvegliare quel tale che incontraste nella bettola, e che mostrò poi di essere in relazione col dottore. Voi avete detto che ora esso non vi è più sconosciuto.

– No signore, rispose Barnaba. Lo stesso pensiero che Ella ora manifesta, venne a me di presente, e determinai tosto cercar di scoprire alcuna cosa de' fatti di quel tale; ed ecco il risultamento delle mie indagini. Esso chiamasi Maurilio Nulla, abita in via ***, al num. 7, piano 4º, in casa d'un cotal pittore Antonio Vanardi, e fa lo scrivano pubblico.