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La plebe, parte III

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CAPITOLO XX

Erano appena le nove e mezza, quando Francesco Benda si presentava alla dimora del sedicente dottor Luigi Quercia, chiedendo con molta istanza parlargli. Il domestico rispondeva che il padrone, rientrato a casa ad ora tardissima, dormiva tuttavia della grossa; e chi volesse vederlo doveva aver pazienza e rifar la strada verso mezzogiorno, chè prima d'allora era più che difficile ei si svegliasse.

Francesco insistette. Egli disse dover parlare al dottore di cose molto di premura, e perciò pregava il domestico andasse coraggiosamente a svegliare il padrone, chè quest'esso, udito ciò di che si trattava, ne sarebbe stato, anzi che corrucciato, contento; e questa sua affermazione appoggiò coll'efficace prova di uno scudo che fece sgusciare nella mano del servo. Questi fu convinto all'evidenza dell'argomento, si curvò nelle spalle, e penetrò con coraggio da eroe nell'ancor fitta oscurità della camera da letto di Gian-Luigi.

Il capo della cocca era diffatti immerso nel più profondo e pacifico sonno che possa avere la meglio virtuosa innocenza. La sua attiva e concitata giovinezza, le cui forze egli non risparmiava punto in nessuna parte, aveva bisogno del riposo riparatore del sonno, e la sua robusta natura glie lo concedeva a dispetto delle passioni e delle ansietà dell'animo, dei conati e dei tormenti dello spirito.

All'entrargli del domestico in istanza Gian-Luigi non si svegliò. Il servitore socchiuse alquanto le imposte della finestra e fece penetrare colà dentro un po' di luce: apparve sopra la bianchezza dei cuscini la faccia giovenilmente rosea del medichino colla sua aureola di folti e finissimi capelli neri. Così leggiadra veduta era quella, che lo stesso infimo mariuolo che sosteneva la parte di domestico in quella sanguinosa commedia, stette sovraccolto e quasi ammirato a contemplarla. Placida era la fisonomia del dormente, ed un'ombra di sorriso, anzi, disegnavasi sulle labbra di lui vividamente rosse, come se graziose e seducenti immagini venissero ad allietargli i sogni in voluttuose visioni; ma di quando in quando eziandio, ad un tratto, con brusco passaggio, una nube scura invadeva quella faccia, una contrazione di muscoli cancellava quel sorriso ed atteggiava invece ad espressione minacciosa le labbra, un corrugamento di sopracciglia faceva accennarsi quella sua ruga caratteristica sul fronte, indizio del ribollirgli nell'interno le sue feroci passioni.

Un artista avrebbe contemplato a lungo quella sì speciale e leggiadra figura ricca di sì complesse espressioni e di sì originale individualità; ma il domestico che non era artista, non ispese molto tempo in siffatta contemplazione, ed accostandosi all'addormentato, gli pose abbastanza pesantemente una mano sulla spalla.

Gian-Luigi si destò in sussulto; di balzo fu seduto sul letto, gli occhi larghi e sfavillanti, terribile di minaccia l'aspetto, impugnata colla destra una pistola che teneva costantemente sotto il guanciale.

– La non si turbi, la non si turbi: fu sollecito a dire il domestico: non sono che io, Varullo.

In un attimo quell'espressione svanì dal volto del medichino: ripose la pistola, si stirò le braccia, si ricacciò poi sotto le coltri, e disse con impazienza:

– Che cosa ti salta, stupido mariuolo, di venirmi a svegliare nel migliore del mio sonno? Dimmi tosto la ragione di questa tua impertinenza; e se la non è una buona ragione, puoi far conto di ricevere una ricompensa adeguata dal mio bastone.

Il servitore gli disse di Francesco. Gian-Luigi pensò un pochino e poi rispose:

– Be', poichè gli è costì che aspetta, poichè dice che son cose di molta premura, fallo pure venire innanzi; se le saranno bazzecole, non ti mancherà la tua razione di legnate.

Due minuti dopo Francesco Benda era seduto presso il letto elegantemente incortinato, in cui, frammezzo a lenzuoli candidissimi della tela più fine che aver si possa, giaceva mollemente il dottor Quercia.

– Sono due i motivi che mi hanno fatto così indiscreto da disturbarvi nel vostro sonno: disse Benda rispondendo alla domanda fattagliene: uno riguarda voi stesso, e l'altro me.

– Davvero? esclamò Gian-Luigi levando alquanto il suo busto col sorreggersi ad un gomito, e sostenendo alla mano la sua testa. Ci avete da comunicarmi eziandio qualche cosa che mi riguarda?

– Precisamente.

– Bene. Allora incominciamo piuttosto da ciò che interessa voi; parleremo dopo dell'affar mio.

– No, mio caro, vi prego che facciamo precisamente l'opposto.

Quercia rispose con un cenno di gentile accondiscendenza, che significava non voler egli contraddire al desiderio del suo visitatore. Francesco trasse il suo portafogli di tasca, e levatone la cartolina della contessa di Staffarda, la porse a Gian-Luigi.

– Questo fogliolino fui richiesto di consegnare nelle vostre mani prima delle dieci di questa mattina.

Luigi non domandò da chi quel biglietto gli fosse mandato, ned altro; solamente guardò bene in viso colui che glielo porgeva, mentre tirando lentamente fuori della coltri la destra lo pigliava con mossa sbadata e indifferente.

– Mi permetterete dunque che io lo legga subito: diss'egli col tono d'un gentiluomo, levando via la spilla che ne teneva riuniti i lembi ripiegati.

Benda fece un atto di premuroso acconsentimento; e Quercia lesse le parole seguenti:

«L. mi ha domandato dei diamanti: bisogna che abbia qualche sospetto: vuole assolutamente vederli. Bisogna che ci parliamo. Alle undici di mattina aspettatemi nella palazzina.»

Alla lettura di questo biglietto Gian-Luigi provò una viva contrarietà; ma non lasciò scorgerne traccia nessuna.

– Il diavolo si porti quel noioso d'un conte! pensò egli fra sè. Ci andava ancora codesta seccatura a rompermi le tasche. Eh sì che non so davvero come la si abbia da accomodare!

Ripose tranquillamente la carta sotto il cuscino, e disse a Francesco col più sereno sorriso:

– Ci avete ancora qualche cosa che mi riguardi?

– No.

– Bene. Vi ringrazio dell'esservi incaricato di questa commissione per me; ed ora, di grazia, parlatemi delle cose vostre.

– Si tratta di riprendere con Baldissero, disse Francesco, la partita che ci fu ieri mattina così noiosamente interrotta.

– Ah sì? esclamò Luigi con interesse pieno di gentilezza. Lo pensavo che non avreste voluto finirla così di piano: ed io non avrei fatto diversamente.

– Siccome voi siete stato uno de' miei compagni nella prima, ho pensato non vorreste rifiutarvi di assistermi anche nella seconda giuocata che spero finalmente vorrà essere più seria.

– No certo che non rifiuto: e mi avreste recato offesa, non disponendo più della mia amicizia. Che cosa dunque si ha da fare?

Francesco disse che bisognava recarsi verso mezzodì al whist-club, dove sarebbero stati aspettando i padrini di Baldissero, coi quali non c'era altro che da intendere un'ora acconcia di quella medesima giornata (perchè egli era desioso ed impaziente di finir tutto il più presto possibile) ed un luogo sicuro da ogni sorpresa, dove potesse succedere il combattimento a quelle stesse condizioni che erano già state per l'altro ritrovo stabilite.

– Va benissimo: disse Quercia, quando Francesco ebbe finito. Verso mezzogiorno è giusto l'ora che più mi comoda. Ho appunto qualche faccenduccia che per quel tempo sarà compiutamente sbrigata. Mio compagno in codesto, penso sarà eziandio l'avvocato Selva.

– Sì; e dove ho da dirgli che vi potrà trovare per recarsi insieme con voi al convegno?

– Alle undici e tre quarti al caffè Fiorio.

– Ve lo manderò. Sarò colà anch'io al tocco per udire le prese decisioni. Vi ringrazio tanto, caro Quercia: e addio!

Si strinsero la mano: Francesco partì, e Luigi saltò giù dal letto e si pose a vestirsi con molta sollecitudine.

Diede una scampanellata, e il domestico fu lesto ad accorrere colla sua aria mezzo famigliare ed insolente, mezzo umile, sottomessa e timorosa:

– Vai e fa attaccar subito il cavallo al mio brougham, e sia pronto prima ch'io sia vestito, e sai ch'io sono sollecito.

Varullo vide dalla faccia del medichino che non era il caso di prendersi libertà nessuna di fare osservazioni e si affrettò ad ubbidire.

Mezz'ora dopo il legnetto di Gian-Luigi si arrestava innanzi alla porta che si apriva nel muricciuolo di cinta del cortile, in fondo al quale sorgeva la casetta dei misteriosi ritrovi del galante dottor Quercia.

Il medichino, come il giorno innanzi, trovò tutto disposto in quell'elegante appartamentino a ricevere chi sopraggiungesse e scaldato il salotto da un buon fuoco acceso nel camino. Luigi sbarazzatosi del suo pastrano, del suo cappello e dei suoi guanti, si pose a passeggiare su e giù di quel salotto, le braccia incrociate al petto, con un'aria d'impazienza e di contrarietà.

– Purchè la non mi faccia aspettare quella matta, borbottava egli fra sè. Ho tante cose per il capo, e conviene salti fuori ancora quest'incidente a darmi fastidio ed a rubarmi del mio tempo, di cui per le infinite bisogne che mi toccano non ne ho proprio d'avanzo. E quel signor conte che cosa viene egli a seccare colla sua indiscreta curiosità? Manderei ai cento mila diavoli tutto, moglie, marito e i diamanti…

S'udì un leggiero fruscio di abiti di seta nella camera vicina.

– Meno male che la è qui: soggiunse fra sè Gian-Luigi con un sorriso di superba compiacenza, non le ho lasciato prendere il vezzo di farmi aspettare.

L'uscio si aprì, e la contessa di Langosco, che avendo trovato le porte socchiuse aveva potuto penetrare fin lì, entrò nel salotto con passo sollecito, pallida e commossa.

Luigi le andò incontro con una galanteria affatto famigliare, e per saluto, prendendola alle mani, la trasse al suo petto, l'abbracciò e le pose un bacio sulla fronte: ma quell'amplesso e quel bacio erano più il materiale adempimento d'un'usanza che non la sincera espressione dell'amoroso affetto, della gioia del rivedersi. Candida sentì questa differenza, e siccome in lei, al di sopra di tutto, era pur sempre la donna amante, posto in oblio ogni altro argomento, ella non ebbe più pensiero che dell'amor suo, non ebbe più inquietudine che per la sorte di esso. Gettò il suo braccio intorno al collo del giovane, e pendendo quasi da quello, guardò con occhio pieno di amore e di dubbio insieme la faccia di lui, e gli chiese con voce ansiosa e presso che spasimante:

 

– Luigi, m'ami tu sempre?

Il medichino ebbe negli occhi un'espressione di impazienza insieme e di scherno; un'espressione che significava:

– Eh! gli è bene questo il tempo di tali smancerie. Ecco lì come son fatte le donne: colla spada di Damocle sulla testa vorrebbero ancora sentirsi parlar d'amore.

Non fu che un lampo, codesto; ma Candida che teneva lo sguardo fisso negli occhi di lui, lo vide; staccò il suo braccio dal collo dell'amante, ed allontanandosi da lui d'un passo, piegò il capo con mossa abbandonata e piena di desolazione, e soggiunse amaramente:

– Che domando mai, folle ch'io sono!.. Quando una donna è ridotta a chiederne per udirselo dire, per esserne assicurata, la sua sorte è già decisa.

Luigi che non voleva, cui non conveniva che troppo scoraggiamento occupasse l'anima della contessa, Luigi, desideroso tuttavia di mantenere sempre a quel grado di caldezza l'affetto di lei, non tardò a dare alla fisionomia ubbidientissima alla sua volontà una sembianza d'amorosa espansione che ognuno avrebbe detta la più sincera del mondo, e tornando a riprendere le mani della donna, traendola di nuovo a sè, stringendola un'altra volta e con più calore al suo seno, disse colle note più vibranti e più efficaci della sua voce ammaliatrice:

– Se t'amo sempre!.. Vedi se codesta è una domanda da farsi!.. Folle, tu hai detto, a chiederlo… Sì, te lo dico anch'io, folle davvero, perchè dovresti averne senz'altro la sicurezza… Forse che io posso cambiar mai il mio cuore? Forse che non mi sono dato a te per la vita e per la morte? Forse che per l'animo mio vi esiste altro bene più che tu non sia?

E queste parole accompagnava, come si suole, con caldi baci amorosi. Qual donna potrà resistere mai al valore di questi argomenti e sotto l'influsso dei medesimi conservare ombra di diffidenza o sospetto? Candida fu tutta invasa dalla tenerezza e dalla soavità di quei felici istanti d'amoroso trasporto.

Fu Luigi medesimo che primo ridusse il discorso all'argomento che era stato la cagione del ritrovo.

Candida allora narrò tutto quanto erale accaduto la sera innanzi col marito, e finì per iscongiurare il suo amante trovasse modo di ottenere dal gioielliere X che non disdicesse al conte Langosco, quando si recasse da lui, quello che la moglie gli aveva detto.

Trovar questo modo non parve a Gian-Luigi la cosa la più facile del mondo. Bene poteva egli recarsi dall'orafo e pregarlo di dare poi al conte quelle risposte che convenivano; ma come presso di quel cotale avrebbero avuta autorità le sue parole? Dopo molto riflettere ed avere proposti parecchi spedienti, che cimentati all'esame non reggevano, Quercia non seppe altro di meglio risolvere fuor questo, che cioè Candida medesima scrivesse al sig. X, il quale conosceva la scrittura di lei, una lettera dicendogli che cosa ella desiderasse da lui, e Luigi glie l'avrebbe recata in persona, appoggiando a voce le raccomandazioni fatte nel bigliettino.

Siccome il tempo stringeva, e perchè era necessario che Luigi si recasse dal gioielliere prima che il conte vi fosse, e perchè Luigi medesimo, per la promessa data di trovarsi al caffè Fiorio alle undici e tre quarti, aveva un'ora appena innanzi a sè da fare ciò che avevano stabilito. Quercia propose senza ritardo partire, e Candida, benchè in segreto certo a malincuore, accettò la proposta. Però nell'atto di separarsi ed uscire ella prima dalla palazzina, Candida si fermò e stringendo pel braccio l'amante che ne l'accompagnava fino alla soglia, disse con forza:

– Ad ogni modo, Luigi, tu non dimenticherai la promessa che mi hai fatta di restituirmi senza fallo quei diamanti prima di lunedì, perchè io li possa recare al ballo di Corte. Ci tengo, è indispensabile.

Gian-Luigi atteggiò le labbra ad uno strano sorriso che fu però fugacissimo.

– Sta tranquilla, rispose, pel ballo di Corte che avrà luogo avrai tutti i tuoi diamanti. Non son io che manco alla mia promessa.

– Ci conto! Addio.

Candida mormorò quest'ultima parola in un bacio soave, e lesta corse via traverso il cortile: a piedi per la neve s'affrettò essa verso Piazza Susina, dove da una carrozza da nolo si fece ricondurre a casa.

Gian-Luigi, partita la contessa, fece più franco quel sorriso che aveva appena abbozzato in presenza di lei.

– Il ballo di Corte! diss'egli. Spero bene che non ci sarà più nè ballo nè Corte.

Salì poscia nel suo legnetto che aveva fatto aspettare e corse dal gioielliere.

Erano appena le undici, quando Gian-Luigi in faccia all'elegante bottega del signor X scendeva di carrozza, e tutta la probabilità era che il conte di Staffarda non fosse a quell'ora nemmeno alzatosi di letto, altro che già uscito di casa e giunto a quel luogo. Ma ciò che pareva improbabile era invece il vero. La prima persona che Gian-Luigi vide nel metter piede in quel fondaco fu il marito di Candida, che lo salutò col suo ironico sorriso e colla sua superba gentilezza.

Amedeo Filiberto, pei suoi malanni, per la sua solita febbrile concitazione del sangue, usava dormire poco sempre: quel residuo di notte che passò dopo il ritorno dal ballo, per la più trista condizione dei suoi interessi in cui trovavasi, per la curiosità e i sospetti fors'anco destatisi in lui al contegno della moglie che gli aveva dato sentore d'un mistero sotto quella mancanza dei diamanti, il conte aveva dormito anche meno del solito, val quanto dire non aveva potuto chiuder occhio. Verso le dieci, suonato pel suo cameriere, aveva voluto scendere di letto e vestirsi in abbigliamento da città.

– E la contessa? domandò al cameriere ad un punto della lunga operazione della sua teletta.

Il cameriere non capì per nulla che cosa il padrone volesse dire con quella richiesta.

– La contessa… che cosa?

Langosco provò una specie d'irritazione nel doversi spiegare, e rispose con accento d'impazienza e di collera contro il cameriere, che non aveva avuto il talento di dirgli ciò ch'egli desiderava senza ulteriori spiegazioni.

– Ve ne domando le nuove: ha ella dormito bene, come sta?

La cosa era così straordinaria che il cameriere rimase a bocca larga con in mano il pettine con cui ravviava quel po' di chiome che ancora rimanevano in capo al padrone.

– Signor conte, io non ne so nulla: diss'egli; ma se Lei desidera che me ne informi…

Amedeo fece un cenno affermativo colla testa, assai brusco: il cameriere non attese altro ed uscì dallo stanzino col suo pettine in mano, ma per rientrare dopo nè anche trascorso un minuto secondo.

– Ho mandato Battista ad informarsi dalla cameriera della signora contessa.

Battista di lì a due minuti veniva a render conto della sua ambasciata.

– La signora contessa deve star benissimo, perchè è già uscita.

Langosco fece un trasalto sulla seggiola.

– Già uscita!.. Davvero?

– Sì, signor conte.

Questi non dubitò menomamente, che la causa di tale mattutina e sollecita uscita non si attenesse a quel mistero ch'egli aveva sempre più voglia di penetrare. Decise recarsi il più presto possibile dall'orafo, e vestitosi in una fretta che molto stupì il suo cameriere, corse al fondaco del signor X; dove Gian-Luigi lo trovò entrandovi affrettato egli pure.

La vista del conte era tale un colpo da far perdere le staffe ad uno meno valente in arcioni del sedicente dottore. Gian-Luigi, per quanta fosse nel suo interiore la contrarietà, per quanto il timore di esser giunto troppo tardi, non mostrò tuttavia la menoma ombra di turbamento sulla sua faccia serena ed allegra.

– Qui costui! pensava frattanto il marito di Candida. Gli è certo venuto per intendersi col gioielliere affine di nascondermi la verità. Ben sospettavo che nell'imbroglio ci entrava questo sciagurato.

– Il conte mi ha preceduto: diceva da parte sua fra se stesso Gian-Luigi: diavolo! purchè io sia arrivato ancora in tempo.

Si avanzò col suo solito contegno elegante e spigliato, e con una famigliarità che gli permetteva il trattare verso di lui del conte, porse a quest'ultimo la mano.

– Eh buon giorno, conte: diss'egli: come mai già in giro a quest'ora? Sono appena le undici!

Amedeo Filiberto toccò lievemente la destra di Quercia e con una tinta di freddezza orgogliosa nella sua gentilezza aristocratica, per cui nè anche il più suscettivo avrebbe potuto trovar pretesto di adombrarsi, disse a sua volta:

– Buon giorno.

E poi si volse al gioielliere, come per significare dovess'egli continuare il colloquio cui l'arrivo del nuovo venuto non aveva punto da interrompere.

Il signor X, che stava innanzi al suo nobile avventore nel contegno d'un umile soggetto innanzi ad un'autorità, s'affrettò ad ubbidire a quel muto cenno, dando la risposta che ancora doveva ad una interrogazione che il conte, entrato appena pochi minuti prima, gli aveva mossa.

– No, signor conte, diss'egli, di questa mattina io non ho avuto l'onore di vedere la signora contessa.

Gian-Luigi capì che la compiuta spiegazione non era ancora avvenuta, ma che s'egli tardava ad intromettersi non c'era più rimedio.

Il marito di Candida aveva presa in mano una busta aperta in cui brillava di mille fuochi una collana di diamanti, e pareva tutto preso dal piacere di contemplarne gli smaglianti riflessi alla luce.

– Bellissimi questi diamanti: diss'egli; somigliano un poco a quelli di mia moglie… E gli è appunto a proposito di que' suoi diamanti, che credevo fosse venuta ella stessa a parlarvi.

Il gioielliere a cui, come abbiam visto, era capitato di vedere il giorno prima quei diamanti, di cui ora gli si parlava, in casa dell'usuraio Nariccia, non capì punto a che mirassero le parole di Langosco, ma travide esserci in codesto qualche pasticcio in cui conveniva star guardingo per non commettere delle balordaggini; laonde non sapendo bene che cosa rispondere andava cercando qualche innocente parola che non dicesse nulla, allorchè, come per influsso di magnetismo, i suoi occhi furono attirati dagli occhi neri di Gian-Luigi che lo fissavano con un'insistenza e con una forza indicibile. Non un muscolo della faccia del giovane si mosse, non un lineamento ebbe la menoma contrazione; ma quello sguardo vivo, brillante, imperioso comandava così assolutamente e con tanta chiarezza tacere, che il signor X, il quale aveva incominciato ad emettere la voce per quella risposta indifferente, cui credeva dover fare, soffocò le parole in una esclamazione che pareva di meraviglia e svelava tutto il suo imbarazzo.

Quercia levò l'indice della mano destra e se lo pose sulle labbra a riaffermare con quest'atto il suo muto comando di silenzio.

Il conte s'avvide che qualche cosa intravveniva fra que' due: si voltò in fretta e colse l'impaccioso stupore sulla faccia del gioielliere e il dito inguantato di Gian-Luigi sulle labbra, dove finse di subito ravviare la curva leggiadra dei baffi. Depose la busta che avea presa in mano e continuò tranquillamente, come se di nulla non si fosse accorto:

– Avete fatto benissimo a consigliar mia moglie di rifarne l'aggiustamento. Quello in cui sono incastrati attualmente è già antiquato, e son persuaso che con una rifornitura più leggiera e più elegante, ben bene ripuliti, faranno del doppio la loro figura.

Il povero orafo, imbrogliatissimo, non rispose che con un inchino e con un – «certo, certo» che non lo comprometteva in nessun modo.

Gian-Luigi pensò non dover indugiar più ad intervenire.

– Scusi, signor conte, se vengo ad interromperla, ma ho una commissione di premura ed importante da fare al signor X, e subito subito, perchè sono aspettato fra pochi minuti ad un convegno in cui è un dovere l'essere esattissimo. Le chiedo perciò licenza di poterle rubare per un momento il signor X, tanto da dirgli quattro parole.

Amedeo Filiberto tenne un istante il suo sguardo ironico, diffidente, malizioso, fisso sulla faccia franca del giovane, che lo sostenne senza batter di ciglia, poi per risposta fece col capo un lieve segno di annuire.

– Abbia dunque la compiacenza, signor X, soggiunse Quercia, di darmi due minuti.

Passarono nel gabinetto vicino che serviva da scrittoio, e il giovine diede all'orafo senz'altro la lettera di Candida.

 

– Da parte della contessa di Staffarda, diss'egli vibratamente con tono che era insieme di preghiera e d'autorità: le renda il servizio di fare quello di cui essa la prega.

Il gioielliere la lesse in fretta.

– Per bacco! diss'egli di poi: l'affare non è mica tanto semplice come la contessa crede… Dire a suo marito che ho io presso di me quei diamanti!.. Non è mica una bazzecola… E se per caso andassero perduti?

Gian-Luigi fece un atto d'impazienza.

– Impossibile! interruppe tronco ed asciutto. La non corre rischio alcuno, l'assicuro io… E poi, tenendo Ella in mano questa lettera della contessa, non ha forse una sufficiente guarentigia?

– Eh! fino a un certo punto codesto è vero.

– La contessa ha momentaneamente disposto di quei gioielli…

– E so ben io dove sono; pensò il signor X che indovinò molta parte di vero.

– Ha gran desiderio ed interesse che suo marito non sappia nulla… Essa le sarà riconoscentissima, signor X, se Lei le vorrà rendere questo piccolo servigio.

Il gioielliere stette ancora un mezzo minuto a riflettere. Per affrettarne la decisione nel senso che egli voleva. Quercia soggiunse:

– Per lunedì la contessa conta come cosa sicura riavere i suoi diamanti; Ella terrà in suo potere la lettera di lei finchè non li veda coi proprii occhi nello stanzino di teletta della contessa. Questa la farà venire presso di sè per mostrarglieli, ed allora Lei renderà alla contessa medesima quel bigliettino.

L'orafo pensò che di questa guisa egli non poteva correre più nessun rischio, che rifiutandosi a ciò che gli veniva chiesto, perdeva sicuramente un'avventrice che gli fruttava buoni guadagni: acconsentì di fare secondo il desiderio della contessa.

Ripassando per la bottega Gian-Luigi salutò con pochi detti il conte, che gli rispose con anche meno parole, e poi si affrettò verso il caffè Fiorio, dove Giovanni Selva, mandatovi da Benda, già stava attendendolo.

Il marito di Candida al gioielliere, che gli era tornato dinanzi, disse ripigliando il discorso di guisa da non lasciar apparire che il menomo sospetto fosse entrato in lui:

– Temo soltanto che questo riaggiustamento e questa ripulitura di diamanti non ci sia tempo da farli prima di lunedì, e lunedì sera pel ballo di Corte bisogna che mia moglie li abbia.

Il gioielliere si percosse la fronte come uomo a cui si affaccia subitamente un'idea a cui non aveva pensato.

– È vero! esclamò. Ella ha ragione, non c'è tempo. Nè la signora contessa, nè io non ci abbiamo badato. Per assestarla faremo così: non darò loro che una pulitura superficiale, ed alla rimontatura ci penseremo di poi.

– Va bene… Intanto lasciatemeli un po' vedere; desidero che li guardiamo insieme per intendere d'accordo la nuova rifornitura da farsi.

L'orefice fu il più imbarazzato uomo del mondo.

– Scusi, balbettò egli, vorrei subito contentarla… Sarebbe un onore per me sentire il suo gusto e ricevere i suoi ordini… Ma il caso vuole… è anzi la prudenza che mi ha consigliato così… capisce che non si tiene qui in bottega un tanto valore… Il fatto è che quei diamanti li ho rinchiusi nella mia gran cassa di ferro che ho nell'officina.

– Ah! esclamò il conte con una certa espressione che poteva significare di molte cose. Però non insistette, raccomandò al gioielliere che non mancasse di restituire i diamanti per la giornata del lunedì e se ne andò.

– Signora contessa, diss'egli fra sè coi denti stretti, voi mi prendete troppo per un marito da commedia… Voglio penetrare questo mistero.

Egli non doveva penetrarlo che più tardi, in conseguenza d'un'orribile tragedia.