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La plebe, parte III

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CAPITOLO XXII

Era Graffigna; ma al solo vederlo, si sarebbe difficilmente conosciuto, con tanta arte egli si era camuffato, cambiando capigliatura, vestire, portamento, quasi dico le sembianze e la persona.

Ciò nulla meno, il medichino camminò verso di lui minaccioso colle sopracciglia aggrottate:

– Sciagurato! esclamò egli, ti ho proibito di venir qui in casa mia… Vuoi tu perder me, e te stesso, e tutti?

– Oh la si rassicuri: disse umile umile il galeotto; non sono mica un ragazzo, e la vede se c'è barba di spia o di arciere capace di riconoscermi; e ancora non son venuto che a notte. Ci ho cose molto interessanti da comunicarle e una domanda che preme da farle, e non avrei saputo come altrimenti poterla accostare.

– Tu hai detto che Ester era qui?

– Già.

– E tu l'hai condotta via?

– Ho pensato che qui le sarebbe stato d'impaccio.

– Che cosa ne hai tu fatto?

– L'ho rintanata in Cafarnao.

– Colà! esclamò Gian-Luigi che pensò ad un tratto come la fanciulla avrebbe potuto trovarsi da un momento all'altro in presenza dell'ira di suo padre, che certo sapeva tutto se ella era fuggita, o della gelosia di Maddalena, che non avrebbe mancato di indovinare in essa una rivale.

Graffigna capì il senso di quella esclamazione del medichino, e s'affrettò a soggiungere per iscusarsi:

– Non sapevo dove cacciarla altrimenti. A casa sua… la lo vedrà anche Lei… non era manco da pensarci di farla tornare; qui non ce la volevo lasciare a niun patto. Per un po' di ore non è probabile che nessuno penetri sino da lei; ed Ella sor medichino, se vuole, potrà poi tosto, anche subito, farla entrare nel suo gabinetto colaggiù che manco il diavolo, se a Lei non piace, potrà ficcar il naso a vederla.

– Hai ragione. Ma dimmi frattanto tu, che cosa le è avvenuto, e come e perchè venne qui.

– Eh eh! fece Graffigna col suo sorriso malizioso: questa è una storiella piuttosto lunga che saprà raccontarle assai meglio e più esattamente di me la ragazza medesima. Io ci ho altre e più importanti cose e di premura da dirle, per cui la prego darmi tutta la sua attenzione.

Varullo ebbe ordine di rispondere a chiunque venisse cercando di Quercia, che egli non c'era; e il medichino e Graffigna, chiusi accuratamente in istanza fuori dell'arrivo delle orecchie anche del domestico, ebbero a voce bassa il seguente colloquio:

– Ho qualche inquietudine, cominciò l'omiciattolo, intorno al colpo di ieri sera!

– Quel di Barnaba?

– Già.

– Come! Perchè?.. Hai ragione da temere che si sospetti il giusto e si sia sulle tue traccie?

– No; ma v'è una circostanza che mi mette sopra pensiero.

– Quale?

– La cosa è passata troppo liscia; oggi nessuno ne discorre; la polizia non s'è messa in campagna Pelone non ebbe il menomo onore d'una chiamata dal Commissario. Un poliziotto trivellato, e che la autorità non se ne dia fastidio… Uhm! trova Lei naturale codesto?

– L'osservazione è giusta: rispose il medichino alquanto preoccupato ancor egli.

– Ma c'è di più.

– Che cosa?

– Sta notte, appena fatto il colpo, udimmo gente che s'avvicinava; quel pan bollito di Marcaccio credette vedere gli schioppi de' soldati, gridò che l'era una pattuglia, in quel momento non tirava buon'aria a star lì per chiarirsi se fosse o non fosse vero; scappammo come scoiattoli; ma pattuglia o no che quella si fosse, il fatto era che appena pagato il conto a quel mariuolo, alcuni sopraggiunsero che dovettero trovare il cadavere caldo caldo, e forse lo raccoltarono seco, e la probabilità sarebbe che tosto tosto fossero andati o ad un Corpo di Guardia od al Palazzo Madama.

– È vero.

– E potrebbe anche darsi che quello sciagurato… quella razza di gente ha la vita cotanto invitiata alle loro maledette ossa!.. non fosse ancora morto del tutto.

– Diavolo!

– È quello che esclamai ancor io, facendo tal supposizione questa mattina con quel pulcin bagnato di Marcaccio che ha una tremarella addosso da non dirsi. «Che il diavolo ti strozzi. Marcaccio, amico mio, gli dissi, che se quel minchione è cascato vivo in mano dei sopraggiunti, colla smania di chiaccherare che hanno prima di crepare quegli stolidi, come se loro ne tornasse qualche cosa ad accusare Tizio o Caio, può benissimo farti avere dei dispiaceri non ostante il tuo fazzoletto sulla faccia.» Ma ora quello che mi cruccia di più è il silenzio che si fa intorno a questo caso.

Gian-Luigi stette un poco a meditare.

– Non so vederci rimedio: diss'egli poi. Nulla v'è da fare che attendere… E d'altronde avremo poco tempo da stare in sospeso. Domenica saremo fuori di tutte queste paure.

– Buono! Gli è appunto di ciò eziandio che voglio parlarle.

– Sentiamo.

– Quello che a me toccava fare ho già fatto; e son sicuro dell'esito. Che gli altri compiano la loro parte come io la mia, e noi siamo a cavallo. Ho arruolato sotto le nostre bandiere la maggior parte degli operai e i più risoluti di questi opifici (e nominò alcuni dei principali, fra cui era pure quello dei Benda); domenica sera adunque, dopo avere per nostra cura ben mangiato e meglio bevuto, si raccozzeranno in varie frotte e colle grida: abbasso i padroni, aumento di salari, morte ai ricchi, invaderanno parecchie fabbriche; noi provvederemo le armi, ci s'intende, e noi li guideremo come conviene, già si sa… Le belle parole ch'Ella mi ha mostrato a dire di tirannia di chi possiede contro chi non ha, di diritto nel povero alla vita, di prepotenza ed ingiustizia della legge che lascia crepar di fame i tanti per assicurare i milioni ai pochi, e va dicendo; tutte queste belle parole hanno pure prodotto il loro effetto, ma ciò che ne ha prodotto di più è il denaro che abbiamo sparso e le promesse di denaro ed altro che abbiamo fatte… Quanto a me, bisogna che di questa sera stessa faccia una nuova distribuzione di rotondetti che l'ho promessa… Ci sono ancora alcuni, e dei caporioni più influenti, che nicchiano… Un buon pizzico di marenghini leva loro ogni scrupolo; io li conosco… Ed ecco perchè sono venuto da Lei, e mi premeva tanto vederla… Ho bisogno dei quibus.

Il medichino fissò un istante il suo interlocutore con uno sguardo che pareva volergli penetrare nell'anima; e Graffigna sostenne quella scrutatrice occhiata con uno dei più ameni sorrisi che illuminassero mai la sua faccia da faina.

– Va bene, disse poi Gian-Luigi; ti conterò i denari onde abbisogni.

Graffigna non mentiva, e quella sera medesima in una bettolaccia compagna a quella di Pelone, Tanasio, l'operaio più riottoso della fabbrica Benda, condotto al colloquio da Marcaccio, prometteva per sè e per altri parecchi di quell'officina la più vigorosa cooperazione nei preparativi prima e poi nello scoppio della rivolta, nella lotta contro i padroni, i ricchi e la legge.

Gian-Luigi frattanto, congedava Graffigna coi denari, gli ordinava recarsi da Pelone e da Baciccia ed intimar loro a suo nome non lasciassero penetrar nessuno in Cafarnao, finchè loro non mandasse egli stesso un cenno in contrario; sì vi si introducesse Graffigna per recare ad Ester quel che le occorreva da sostentarsi, e insieme, per acquietarla, la promessa ch'egli, Luigi, sarebbe andato presso di lei a parlarle, ad apprenderne i casi, fra parecchie ore, che prima eragli ciò affatto impossibile. Quindi vestitosi da visita si recò alla locanda d'Europa dov'era solito pranzare, incantando i commensali della table d'hôte colla vivacità del suo spirito, il suo brio di buona lega, e la costante allegria del suo umore. Stette colà due ore mostrando sempre la maggior libertà di mente, proprio da giovane, ricco, senza contrasti, che non ha altri pensieri pel capo fuor quello di darsi sollazzo e goder della vita. Uscito dalla locanda fece un giro sotto i portici fumando un sigaro, e poi verso le nove si recò al teatro Regio.

Andò all'usciòlo che mette sul palco scenico, ed al cerbero che stava là a contendere l'entrata di quel paradiso di virtù ballerinesche mise in mano uno scudo e disse queste parole:

– Lasciatemi passare: non mi fermo che cinque minuti.

Il cerbero trovò che una lira per ogni minuto era un pagar bene, e dimenticò senza rimorso l'obbligo del suo ufficio. Quercia corse là dove sapeva che era il camerino di Mario.

Battè in una certa guisa speciale colle nocca delle dita nell'imposta dell'uscio: questo si aprì sollecitamente, e comparve Mario.

– Ah voi finalmente! esclamò egli; vi ho aspettato tutto il giorno.

– Non ho potuto andare a casa mia che stassera; voi avete gravi cose da dirmi?

– Gravissime.

– Riguardo l'impresa?

– Sì.

– Questo non è luogo adatto a tali discorsi; nè conviene pure che ci vedano parlare a lungo insieme, massime dopo il vostro arresto di stamane; dopo il teatro vi aspetterò colla mia carrozza sull'angolo di Doragrossa, salirete meco e vi condurrò in luogo dove potremo liberamente discorrere.

– Sta bene.

Quercia si allontanò frettoloso, andò a scambiare quattro parole colle principali corifee del corpo di ballo, tanto da dar ragione alla sua venuta, e poi si recò nella sala degli spettatori, dove al suo palco di second'ordine brillava in elegantissima acconciatura la contessa di Staffarda.

Se Candida fosse ansiosa di sapere ciò che era avvenuto la mattina dal gioielliere, ve lo lascio immaginare. Suo marito non aveva pronunziato verbo intorno a ciò, ned essa lo aveva interrogato: aspettava dunque con ansietà di veder Luigi, perchè egli le dicesse il risultamento della sua gita dall'orafo. Quindi, appena vistolo comparire in fondo alla platea del teatro, essa fissò su di lui il suo cannocchiale con una insistenza che chiaramente lo invitava a recarsi sollecito da lei. Luigi ubbidì. Nel palchetto della contessa eravi la solita frotta di visitatori, il solito genere di discorsi mondani composti di mormorazioni, di nullaggini e di malignità. Grande argomento di ciarle quella sera, e quasi l'unico nel teatro, come per tutta la città, in ogni ordine di loggie, traverso le file dei banchi e quelle dei seggioloni di platea, nei capannelli dell'atrio e intorno ai tavolini dell'acquacedrataio, era il duello avvenuto nel pomeriggio medesimo fra il marchesino di Baldissero e l'avvocato Benda.

 

Sul fondamento della verità, secondo suol sempre accadere, s'erano fabbricati i più diversi e più strani adornamenti di circostanze inventate, d'interpretazioni e d'aggiunte. Ciascuno raccontava il fatto in modo diverso e ciascuno voleva essere il meglio informato di tutti; secondo alcuni Francesco era morto addirittura sul colpo e non s'era più menato indietro che un cadavere; a detta d'altri la ferita era una semplice scalfittura da non farne caso: i primi imprecavano alla manìa del duello, i secondi ghignavano con ischerno di que' pericoli da burla per cui tentano di farsi scambiare per eroi i moderni paladini in guanti bianchi.

In mezzo a ciò era venuta a ficcarsi la passione politica, o per dir meglio, quel sentimento di rivalità e di nemicizia che allora esisteva assai più spiccato fra le due classi onde va composta la parte colta della società, l'aristocrazia privilegiata e la borghesia istrutta e denarosa, nemicizia e rivalità che a quel tempo accrescevano ed inasprivano le immanenti ingiustizie degli ordinamenti governativi.

Nello scontro fra il discendente dell'antica prosapia ed il figliuolo del fabbricante arricchito, le due parti avevano visto adombrata la lotta delle loro caste, e quelli che appartenevano alla nobiltà, senza essere compiutamente in mala fede, venivano narrando le cose di guisa che tutti i torti spettavano al borghese, lieti e superbi inoltre della vittoria toccata al loro campione, mentre nel ceto medio, per compenso, si esponeva il fatto con certe tinte che accrescevano la petulanza del nobile e stabilivano il feroce di lui talento, che aveva cercato sfogo in un duello che poteva dirsi un assassinio. Un terzo partito poi comprendeva in una imparzialità di riprovazione e l'uno e l'altro dei duellanti, e sopratutto i padrini ai quali, secondo codestoro, doveva accagionarsi massimamente l'infelice esito dello scontro. I padrini, essi affermavano, avrebbero dovuto impedire lo scontro, cosa, a lor senno, facile ad ottenersi; avrebbero dovuto quanto meno farlo cessare dopo il primo colpo che non s'aveva disgrazia nessuna a lamentare. Vero è che questi Catoni, se il duello non avesse avuto luogo, o fosse terminato con una incruenta riconciliazione, sarebbero stati dei più zelanti nella schiera degl'ironici motteggiatori. Che? Il mondo è così fatto, e non saremo noi a cambiarlo.

Dei personaggi che avevano preso parte a quel dramma sanguinoso, nessuno era comparso in teatro quella sera, il marchesino e i suoi due secondi sentendo che ciò sarebbe sembrato quasi un voler comparire a far pompa d'una vittoria, che se non il loro cuore, il loro tatto di società e la delicatezza di educazione facevano avvertire rincrescevole.

Luigi Quercia, soprarrivando in mezzo a quel susurrio di ciarle nel momento in cui le erano più vive, ottenne, come suol dirsi, un successo di curiosità. Le interrogazioni, le affermazioni suggestive, le supposizioni piovvero su di lui fitte come gragnuola; egli le accolse con una serietà diplomatica che si contentò di eliminare tutta la provvista delle menzogne più o meno maligne, difendendo Francesco senza accusare nè aggravar l'avversario, affermando, senza entrare nei particolari, che ogni cosa era passata nei modi i più onorevoli e, come si usa dire, cavallereschi. La curiosità della gente non ne rimase soddisfatta; ma ciò non tolse che molti audacemente citassero, in sostegno delle invenzioni della loro fantasia, l'autorità di Quercia dal cui labbro affermavano aver udito questo e quello ch'egli non si era mai sognato di dire.

La contessa, quando Luigi era pervenuto, dopo la partenza di parecchi visitatori, a sedersele in faccia, approfittò di un momento in cui la conversazione nel palco era più animata, per curvarsi verso il giovane e dirgli in fretta e sommessamente:

– Fra un'ora sarò a casa: t'aspetterò.

Quercia levò gli occhi alle ore che si leggevano sopra il grande architrave del proscenio, vide che erano le nove e mezzo, calcolò che prima della mezzanotte, ora a cui terminava lo spettacolo, il suo colloquio con Candida sarebbe conchiuso di certo, ed egli avrebbe potuto recarsi al ritrovo concertato con Mario Tiburzio, e chinando ancor egli il capo verso la contessa, rispose in pari maniera:

– Va bene.

Dieci minuti dopo egli usciva dal palco della contessa e prima assai che l'ora fosse trascorsa egli per la scaletta privata saliva agli appartamenti di Candida, dove lo accoglieva la cameriera assai troppo, come già sappiamo, con esso lui famigliare.

Appena terminato il ballo Candida abbandonava il teatro, mentre il marito, a suo credere, doveva essere, come tutte le altre sere, a giuocare al club. Luigi stava nel salottino di lei aspettando, e non aveva per niente l'apparenza d'essere impaziente di questa aspettazione. Candida udito dalla cameriera entrando, ch'egli era già colà, venne sollecita nel salotto, senza deporre la sua mantellina, ed a lui che le camminò all'incontro le braccia tese per darle un amplesso, disse, ritraendosi alquanto e guardandolo fiso, come per leggergli nell'anima:

– Ah siete stato molto sollecito.

Ma ci voleva ben altro sguardo che quello da poter imbarazzare quell'uomo o penetrare sotto la maschera onde sapeva coprire il suo volto.

Atteggiò egli le labbra al suo più seducente sorriso e rispose col più tenero accento della sua voce:

– Quando mi tocca la fortuna di esser teco, e non ho un ostacolo insuperabile che me ne trattenga, come non vuoi tu ch'io sia sollecito?

Levò egli stesso dalle spalle di Candida la mantelletta ond'era ancora vestita e la gettò sulla spalliera d'un seggiolone; poi prendendola per le due mani, e guardandola con una specie di ossequio ammirativo, soggiunse, sempre con quell'amorosissimo accento:

– Quanto sei bella!.. Ah! lascia ch'io ti contempli, lascia ch'io t'adori… tu sei la mia donna, tu la mia regina, tu sei la mia Dea.

E con atto pieno di passione e di grazia, pose un ginocchio in terra innanzi a lei, e raccogliendone le due piccole mani nella sua destra le coprì di baci infuocati.

Ella arrossì, sorrise; i suoi occhi balenarono di una fiamma di tenerezza.

– Ah! tu sei sincero come un adulatore.

– Sono sincero come un amante.

Sorse in piedi, la prese colle sue braccia, la strinse, le coprì di baci la fronte, gli occhi, le guancie, la bocca, le spalle, il seno denudato, con un trasporto che pareva furore.

– T'amo, Candida, t'amo più che la vita!

Essa, lieta, palpitante, invasa da quell'ardenza, obliosa di tutto il resto del mondo, s'abbandonò un istante con profonda gioia alla dolce violenza di quelle carezze; poi si sciolse dalle braccia di lui.

– Lasciami, lasciami: diss'ella con voce soffocata: lasciami un momento… Vado a deporre questi ornamenti che mi pesano… Aspettami un minuto.

E sparì dietro la portiera dell'uscio della sua camera, scoccando colle dita un bacio al giovane che l'accompagnava con uno sguardo acceso di violento desìo.

Non istette veramente più che due minuti a ricomparire in mezzo alle cortine dell'uscio, toltisi di capo, dal collo e dalle braccia i gioielli, deposto l'abito scollacciato ed avvolto invece il bel corpo d'una veste da camera di finissima lana bianca foderata di seta rosa. Ma Luigi non lasciò che la si inoltrasse nel salotto; vistala appena, con un grido di gioia e d'amore, le volò dappresso ed abbracciatala la portò seco nel profumato, più intimo ambiente della camera vicina.

Luigi raccontò ciò che premeva a Candida di sapere intorno alla visita fatta al gioielliere, e tornò ad assicurarla che i suoi diamanti non le sarebbero mancati per quel famoso ballo di Corte: ma i loro discorsi non si rimasero soltanto a questo argomento, e furono così interessanti che più d'un'ora era passata senza che nè l'uno nè l'altra pur se ne avvedessero.

Gettato lo sguardo sull'orologio e visto che erano oramai le undici e tre quarti, Luigi pensò essere gran tempo per lui recarsi al ritrovo dato a Mario, tolse congedo, s'avviluppò nel mantello che aveva recato seco fin lì, e cogli ultimi amplessi stava per ispiccarsi dall'amante, e già aveva la mano sulla gruccia della serratura per aprir l'uscio che metteva nel salotto cui doveva necessariamente attraversare per partirsi, quando in questo salotto medesimo s'udì il passo d'un uomo e la voce del conte Amedeo, che diceva, probabilmente alla cameriera:

– È inutile annunziarmi; a quest'ora la contessa non sarà ancora addormentata, m'annunzierò io medesimo.

I due amanti si guardarono; ella esterrefatta, egli vivamente contrariato. Era la seconda volta che il marito veniva a sorprenderli in quel modo; ma se la prima essi avevano potuto affrontare la sua presenza, ed allora entrava nei calcoli di Gian-Luigi di far così, questa seconda il conte vedendo il giovane in quella camera e ad ora sì tarda, e la moglie in quell'acconciatura, con quel turbamento più che accusatore, era inevitabile uno scandalo; e Luigi questo scandalo non lo voleva a niun patto. Girò egli intorno lo sguardo, vide la nera apertura dell'uscio socchiuso che metteva nello stanzino della teletta, ed egli che l'altra volta aveva superbamente rifiutato nascondersi, fu colà d'un balzo, vi si cacciò dentro, e chiudeva appunto il battente alle sue spalle, quando dalla porta del salotto penetrava nella camera cubiculare di sua moglie il conte Amedeo Filiberto.

Marito e moglie stettero un istante in faccia senza parlare; ella si sforzava di superare la sua emozione, egli osservava con isguardo scrutatore lei e la camera. Fu il conte che ruppe primo il silenzio; si accostò alla donna con quella sua ostentata galanteria e prendendola per mano la condusse a sedere presso il camino, dicendole:

– Come mai una mia visita può ella turbarvi a questo punto? Se foste stata in compagnia, comprenderei – sono abbastanza modesto per ciò – che la mia venuta potesse riuscirvi fastidiosa; ma essendo qui sola… e non potrebbe essere altrimenti, perocchè in codesto vostro santuario, permettetemi di chiamarlo così, nessuno (e pesò significantemente sulle parole) nessuno ha diritto d'introdursi fuorchè il marito… il quale confesserete anche voi che di questo diritto non abusa certamente… Ho potuto dunque, tutt'al più, interrompere una delle vostre meditazioni, e non giudico questa una ragione sufficiente per giustificare codesto turbamento che vedo sulle vostre belle sembianze.

Candida aveva ripreso in gran parte il dominio di sè.

– Il mio turbamento, rispos'ella senza tuttavia guardare in faccia suo marito, è un profondo stupore. Concederete che è abbastanza strano questo rinnovarsi d'una vostra visita ad una tal ora, perchè io abbia da meravigliarmi… Tanto più che una volta almeno usavate la gentilezza di farvi annunziare.

– La vostra meraviglia è poco lusinghiera per me, poco giusta per voi, e troppo vivace…

– Ah! non perdiamoci in marivaudages fuori di stagione… Che cosa mi volete di nuovo?.. Avete ancora bisogno della mia firma?

– Voi siete crudele: rispose con una certa asprezza il conte, e poscia dando al suo accento una espressione d'autorità che non aveva ancora fatto sentire per l'innanzi, soggiunse: siete voi che avete bisogno di nuovo dei miei consigli.

Candida a questo punto acquistò l'ardimento di levar gli occhi in faccia al marito: guardò ben bene la gialla calvizie, l'occhio acuto e il sogghigno ironico del conte, e domandò con orgoglio:

– Che consigli?.. Vi avverto che ho molto sonno…

– Sarò breve… e spero interessarvi abbastanza per tenervi desta… Voi avete accennato testè ad un'altra visita che ho avuto l'onore di farvi a quest'ora; vuol dire che la vi è stata abbastanza impressa perchè io possa lusingarmi che voi vi ricordate ancora dell'argomento di cui allora vi ho discorso.

– Mi avete parlato d'interessi, di obbligazioni, di firme…

– Questo non fu il solo soggetto di cui vi parlassi, avevo cercato eziandio porvi in guardia per certe attinenze con certe persone…

La contessa interruppe vivacemente:

– Circa quell'argomento mi pare che siasi detto fra noi tutto quello che s'aveva da dire e che non siavi più nulla da soggiungere.

– Pardon… Quando nuove circostanze sopraggiungono…

– Che nuove circostanze?

– Permettetemi ch'io mi spieghi con una novelletta.

 

– O mio Dio!

– Abbiate pazienza: vi ho già detto che sarò spiccio, e manterrò la promessa.

– Sentiamo la vostra novelletta.

– Eccola. È un fatto vero che avvenne al tempo della mia gioventù.

– È dunque cosa antica.

Il conte s'inchinò con atto d'ironico ringraziamento.

– Voi dite benissimo: è cosa antica pur troppo, ma l'insegnamento che se ne può trarre è di tutti i tempi. Si tratta d'una ricca dama che strinse una troppo imprudente e troppo intima relazione con un giovane di cui poco noti erano i precedenti; un bel dì questo cotale trovò modo di avere in mano tutti i gioielli della dama, un vistosissimo valore affè, e sparì con essi.

La contessa arrossì fino alla fronte.

– Non vedo, signor conte, diss'ella con accento pieno d'irritazione, nè l'insegnamento vantato, nè l'applicabilità possibile della vostra favola; e se mi volessi sforzare a trovarceli non vedrei altro che un insulto gratuito ed indegno di voi a vostra moglie e ad uno che voi chiamate vostro amico…

Amedeo Filiberto, coll'atto che gli era abituale, alzò la sua fine destra aristocratica per interrompere le parole della moglie.

– Ah pardon, pardon! diss'egli. Andate un po' più a rilento nell'onorare alcuno del titolo di mio amico. Quella persona di cui appunto intendo parlarvi (perchè voi colla finezza della vostra intelligenza avete subito indovinato il vero), quella persona può benissimo essere degnata d'una mia stretta di mano, ma non ha, e non può in nessun modo pretendere la mia amicizia… Per mostrarvi poi che le mie parole non sono un insulto gratuito all'onorabilità di quell'individuo, sentite le voci che incominciano a correre sul suo conto, e che io comincio a ritenere per fondate!

Candida incrociò le braccia al seno e disse con coraggio e colla sicurezza d'una donna amante che non crede niun'accusa possa mai arrivare all'altezza in cui ha posto l'oggetto dell'amor suo:

– Bene! Fatevi pure l'eco di codeste calunnie: le sentirò volentieri.

Il conte, quasi irritato da quella specie di sfida gettatagli sulla faccia, pronunciò con una ruvida crudezza:

– Quell'uomo lo si accusa d'essere un baro, giuocatore di vantaggio ed un falsario.

Candida balzò in piedi colle fiamme dell'ira nella faccia e negli occhi.

– Questa è un'infamia! esclamò ella: e dovreste voi, conte, rendervene complice?

Amedeo Filiberto fece più amaro che mai il suo solito sogghigno.

– Calmatevi! Tudieu! che ardenza d'amicizia è la vostra… Queste cose non le direi ancora ad un indifferente, ma le dico a voi perchè mi preme rendervi cauta… E se ve le dico, ben capite che gli è perchè, come vi ho già manifestato, comincio a temerle fondate.

– È un'infamia, ripeto…

– Badate un poco alle vostre espressioni, contessa, vi prego…

– E voi, badate voi alle vostre?

– Sì signora… Udite: la continua e soverchia fortuna di quel cotale al giuoco ha suscitato sospetti in molti: io che non avevo voluto credere a quei dubbi, li sentii pur finalmente entrare vittoriosi nell'animo l'altra sera al ballo dell'Accademia… Di Francia è venuto avviso alla nostra Polizia che colà da qualche tempo s'introducono in gran quantità biglietti di quella Banca con molta arte falsificati e che si ha quasi la certezza siffatti biglietti fabbricarsi in Piemonte. L'altro dì in un pagamento che dovette fare quel cotale diede parecchie polizze di banco francesi, ed una di queste fu trovata di quelle falsificate. Egli s'affrettò a scambiarla con denaro sonante, ma…

La contessa sentiva nel suo petto ribollire una generosa indignazione. Il suo amante così scelleratamente accusato ella credeva suo dovere difendere con ogni vigore: le pareva d'amarlo ancora più; coll'impulso generosissimo del suo animo di donna si pensava quasi obbligata a dividere il peso di quelle calunnie con esso, a mostrarne la insussistenza compromettendo sè stessa in una compiuta rivelazione dell'amor suo per lui. La sua mente concitata non vide più acconcio partito che quello di ribattere, confondere tosto quelle vili calunnie nella persona medesima del conte, e poi far compiuto lo scandalo con una separazione dal marito, con una fuga insieme all'amante. Luigi, che udiva quelle sciagurate parole, fremeva certamente di doloroso furore, e soltanto per riguardo di lei trattenevasi dal comparire colà tremendamente vindice del suo onore: ma quest'onore di lui, poichè lui amava cotanto, era a Candida più caro del proprio; per subita ispirazione determinò evocare essa stessa l'amante a schiacciare di presente l'accusatore e l'accusa.

– Signor conte: interruppe adunque Candida con violento scoppio di sdegno: quando un uomo come voi pronunzia di queste parole, dovrebb'essere pronto a ripeterle in presenza di colui che accusano.

Langosco drizzò la sua persona, ordinariamente incurvata, con una mossa piena di superba sicurezza e guardò tutt'intorno come per cercare quella presenza di cui gli si faceva cenno.

– E se il caso nascesse, diss'egli, sarei pronto anche a codesto.

– Come! se il dottor Quercia vi comparisse innanzi qui stesso, voi ardireste dirgli: siete un baro ed un falsario?

– Sì: rispose con forza il conte.

Gli occhi di Candida corsero all'uscio del gabinetto; ella si aspettava vedere spalancarsi quelle imposte e il suo Luigi apparire dicendo:

– Ebbene ripetetelo, se l'osate.

Gli occhi del conte seguirono quelli della moglie e si affisarono ancor essi sull'uscio dello stanzino. Nulla si mosse. Successe un momento di silenzio, in cui diede giù alquanto l'esaltazione di Candida. Luigi, pensò ella, aveva forse ragione di non rilevare in quel momento la disonorevole accusa: eppure ella avrebbe preferito vederlo prorompere con irrefrenato sdegno. Si lasciò cader seduta di nuovo con una specie d'abbattimento, e poichè le pareva che a lei si spettasse rompere quel penoso silenzio, disse con voce, con accento, con atteggio che dinotavano una grande stanchezza di quel colloquio:

– Non andrà molto, son certa, che avrete rimorso di aver parlato in tal guisa…

– Vorrei benissimo che così fosse, per lui… e per voi. Ma poichè queste parole sono dette, possano esse almeno riuscirvi opportune tuttavia… Non v'infastidisco più oltre e vi lascio la buona notte…

Parve voler partire senz'altro; ma poi, come essendosi improvviso ricordato di quest'altro argomento, soggiunse:

– Mi scordavo dirvi che questa mattina sono stato dal gioielliere. Siamo rimasti intesi che i vostri diamanti ve li rimandasse, e li avrebbe riaggiustati poi nella quaresima.

Uscì dopo questa frecciata del Parto, e Candida, in preda ad una tumultuosa indefinita commozione, si coprì colle mani la faccia; dopo un poco si fece udire un lieve rumore, essa levò il capo e vide sulla soglia del gabinetto Luigi pallido, assottigliate le labbra, il solco della sua ruga caratteristica sulla fronte.

– Ho udito tutto, diss'egli freddamente, e ti ho dato la maggior prova di amore che possa dare un uomo: quella d'indugiare la vendetta di sì sanguinosi oltraggi per non compromettere la donna che lo accolse…

Il fatto era che non questo riguardo, nè timore altro nessuno avrebbe trattenuto il giovane, ma il suo interesse soltanto a cui egli pensava avrebbe fatto danno la violenza d'una crisi provocata.

Ma Candida era già passata in altro ordine di pensieri e di sensazioni: si slanciò essa al collo dell'amante ed abbracciandolo con passione gli disse:

– Tu se' innocente, non è vero?

Luigi l'allontanò da sè con quasi ostile freddezza, e guardandola fisso, amaramente ironico, le domandò:

– Tu ne dubiti?

– Oh no, oh no! s'affrettò ella ad esclamare, t'amo! Posso io creder male di te?

Quercia uscì dal palazzo di Staffarda che la mezzanotte da tempo era suonata; e quindi per quanto si affrettasse verso il luogo del convegno, Mario non era più colà ad attenderlo. Il medichino ne provò una viva contrarietà; la scena fra il conte e sua moglie, a cui egli aveva assistito, lo ammoniva che sempre più difficile gli si faceva il sottrarre più oltre il mistero della sua esistenza alla curiosità diffidente del mondo; mille indizi già gli avevano fatto avvertire che i sospetti erano cresciuti e ronzavano, per così dire, intorno alla verità; sentiva mancarsi sotto i piedi il terreno; le parole del conte gli avevano mostrato imminente il pericolo.