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La plebe, parte III

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CAPITOLO XXVII

Siamo alla sera della domenica. Il tempo è freddo e nuvoloso; la città, non ostante gli accesi lampioni, allora più scarsi che adesso non sieno, è avvolta nelle tenebre a cagione della densa nebbia che tutta la ricopre. In Piazza Castello, al fondo della spianata del Palazzo Reale, questo risplende per tutti i finestroni della luce che mandano i mille doppieri ond'è internamente illuminato: luce che, per la nebbia traverso cui è rifratta, diventa all'occhio del riguardante di colore rossigno. Anche i portici del Teatro Regio sfavillano d'una maggior luce, e sotto di essi passa, entrando ed uscendone, una doppia corrente di carrozze che colle loro lanterne dànno immagine d'un'ordinata, lenta processione di lucciole, il cui fuoco tremola palpitante traverso la nebbia della notte.

Tutto luce, animazione, sfarzo è nell'interno la sala del teatro illuminata a giorno, brillante per le acconciature elegantissime di quante più ricche e belle dame contenga l'eletta cittadinanza.

Si aspetta la venuta della Corte che deve comparire fra poco nel Palco Reale in cui centinaia di fiammelle de' doppieri si riflettono sulle dorature delle pareti, sull'oro dei ricami delle drapperie di velluto cremisino.

Il teatro è pieno zeppo di gente, le conversazioni da capo a fondo della vasta sala, su per ogni ordine di loggie, sono vivacissime, ma non potreste dire quella essere allegria che agiti quelle numerose teste, come il vento agita nel campo le rigonfie spighe della messe. È un'agitazione che ha tutte le arie d'un'aspettativa quasi ansiosa, è come un sentimento di affanno e di paura istintivo. Di che? Nessuno forse lo sa ben chiaro: ma si sente qualche cosa nell'atmosfera medesima che si respira che v'inquieta. Tutto il giorno quella specie di intima emozione ha dominato la città. Voci vaghe sono corse, piene d'un certo terrore, misterioso perchè indefinito; fu come se moralmente si sentisse il terreno vacillare sotto i piedi, accadde allo ambiente degli animi quello che alla natura, quando appressandosi un temporale, di cui non si vede neppure ancora la minaccia, già tuttavia si avverte una inquietudine febbrile anche negli esseri inanimati traverso la campagna. Questa disposizione degli animi è venuta crescendo. Si temeva che avvenisse qualche cosa, e si aveva una curiosità estrema di assistervi. Mai il teatro non era stato così gremito di spettatori. Voltavano le loro faccie aspettanti verso il palco reale che in mezzo a quella ricurva parete di loggie piene di gente, vuoto ancora, colla tanta luce che mandava, pareva appunto il campo in cui avesse da venirsi a scrivere la parola del destino.

Lungo tutta la giornata avevano occupati i viali della città e le più basse osterie dei sobborghi le turbe degli operai di quasi tutte le fabbriche, i quali con una meravigliosa intesa avevano intimato ai padroni la guerra dello sciopero. Nel pomeriggio, alcuni gruppi di plebei, mezzo avvinazzati, con faccie truci e minacciose, s'erano avventurati nelle strade perfino della città, tenendosi a braccia, urtando nel passaggio con villana provocazione i tranquilli cittadini, sbraitando a squarciagola sciagurate canzonaccie; una frotta di cenciosi era entrata in uno degli eleganti caffè, s'era fatta servire di quanto vi aveva di meglio, poi per paga avevano rotto chicchere e bicchieri, minacciato i garzoni, ed eran fuggiti solamente innanzi alla guardia che era accorsa. Una nuvola di arcieri, di veterani del Comando militare, di carabinieri e di guardie municipali aveva dato la caccia a queste squadre di tumultuanti penetrate in città e le avevano facilmente fatte ritrarsi; ma colà sui viali pareva che temessero ad andarli perseguitare e disperdere. I buoni borghesi se ne stupivano. Bene susurravasi che le due brigate di guarnigione avevano tutti i loro uomini consegnati alle caserme per essere pronti ad ogni evento, e diffatti non un soldato vedevasi per le vie; ben sapevasi che le guardie al Palazzo Reale, al Palazzo Madama ed alle quattro porte erano state rinforzate, ma pure la paura del tranquillo proprietario e del poco eroico bottegaio si domandava il perchè della tolleranza della Polizia verso quelle sembianze di riottosi. Erano i primi sintomi d'un'agitazione rivoluzionaria qualunque che si mostrassero all'aperto in quella monotonia di sistema repressivo: il Re, dicevasi, n'era sdegnatissimo; chi poteva recarsi a teatro era ansioso di accorrervi quella sera per leggere sulla faccia pallida e misteriosa di Carlo Alberto il riflesso, il ripercotersi, l'effetto di quegli eventi.

Nella folla che si serrava fra le pareti del teatro, c'erano eziandio molti dei giovani liberali che avevano ordita la trama di quella temeraria congiura politica per la libertà della patria. Avevano rinunziato, per le ragioni che sappiamo, al matto loro proposito; ma pur tuttavia erano accorsi colà dove la scena principale dell'immaginato dramma politico avrebbe dovuto avvenire, ed essi avervi sì gran parte. Pensando all'audacissima opera che s'erano assunta, il cuore palpitava ancora nel loro petto, e forse, nell'intimo, quasi tutti si rallegravano che la Provvidenza li avesse sciolti, senza lor fallire, dal terribile impegno. Più che agli altri batteva agitato il cuore a Mario Tiburzio. Quanto a lui, probabilmente, più tranquillo e' sarebbe stato, se l'arditissimo disegno avesse avuto da compiersi. La sua fede nel patriottismo del monarca era troppo ancora recente, e con troppo lieve forza radicata, perchè il suo animo vi si potesse acquetare.

– Noi abbiamo rinunziato ad una realtà forse, per un'ombra: dicevasi.

Gli tornavano alla mente le parole di Quercia e si domandava se non aveva questi ragione, se in lui, Mario, non era ufficio, quasi dovere di patriota, far violenza al destino. Coll'aiuto delle turbe suscitate da Gian-Luigi, la rivoluzione in Torino avrebbe vinto; le altre città sarebbero state trascinate dall'esempio; era questa una prospettiva possibile, più reale e più prossima che non la problematica promessa di un re, legata a circostanze che forse non si verificherebbero mai. Ora egli sta per comparire là in faccia a questo re, segretamente impegnato colla rivoluzione, in apparenza fiero sostegno d'ogni più stretta forma del passato, consacratosi, nell'ombra, campione dell'indipendenza della patria, alla luce della vita pubblica e del mondo diplomatico, devoto amico allo straniero oppressore. Da quelle tavole del palco scenico egli doveva gridare a quel discendente di principi la parola del popolo, a quell'erede di tante generazioni nella storia, il motto della generazione novella in un nuovo ciclo storico che doveva aprirsi; ora invece gli verrà innanzi a mandargli le note di un canto d'opera.

E pensava a Quercia, al principio ch'esso rappresentava, di cui fin allora egli non aveva tenuto calcolo a dovere, al suo persistere nella risoluzione della lotta, malgrado il ritrarsi di lui, Mario, e dei suoi. Aveva cercato più volte di Luigi affine di tentare ancora dissuaderlo, e non aveva potuto trovarlo mai; gli aveva scritto e non ricevutane risposta nessuna. Ora sentiva incomber su di sè una tremenda responsabilità di quanto fosse per avvenire. Non avrebb'egli dovuto, poichè da mutuo, solenne impegno eran legati, continuare a correre colla plebe la sorte medesima? Ma poichè, a suo senno, la riuscita impossibile e i danni crudelmente inutili, non era obbligo suo l'aver impedito in ogni modo che la fatal lotta succedesse? Gli elementi del suo giudizio morale si confondevano così stranamente e penosamente in lui, ch'e' non ci vedeva più lume. Si diceva che avrebbe dovuto morire coi rivoltosi che morrebbero; si diceva che avrebbe dovuto rendere impossibile lo scoppio, anche denunziandone il disegno: egli invece non aveva saputo che farsi, era stato inoperoso in una indecisione che era forse la peggiore delle colpe.

Mentre Mario Tiburzio stava tormentandosi di questa guisa nel camerino dove si vestiva, il teatro empitosi per l'affatto era tutto un brulichio. Fra gli habitués notavasi chi c'era e chi non c'era. Mancava la famiglia di Baldissero che aveva dato ad altri il suo palchetto, ma sapevasi che il figliuolo primogenito del marchese, in seguito al suo duello, era stato, d'ordine espresso del Re, condotto agli arresti nella Cittadella, e si capiva quella mancanza dai più, quantunque alcuni zelanti la giudicassero pur tuttavia quasi una colpa verso il Re, da parte del vecchio ministro di Stato: c'era invece la contessa Langosco di Staffarda, alla quale tutti s'accordavano nel trovare un'aria sempre più originale in quella evidente preoccupazione onde appariva posseduta.

Luigi Quercia, abbandonatamente seduto nella sua poltrona d'orchestra, guardava di qua e di là col suo cannocchiale, e scambiava parole allegre e vivaci coi suoi vicini dintorno, fra cui poco discosto il conte San Luca. Fuori di quel caldo e splendido ambiente, nella fredda oscurità di quella notte nebbiosa, stava per giuocarsi una tremenda partita, da cui dipendeva il suo destino: ed egli era là, sorridente di naturale e tranquilla gaiezza, con animo così leggiero e mente così libera, come se di nulla si trattasse. Fino al momento appunto di venire in teatro, egli ai capi della rivolta raccolti in Cafarnao aveva dato le ultime istruzioni, ed accomiatandoli aveva detto loro: – «Nel migliore della danza mi vedrete poi comparire e mettermi a vostro capo.» Li aveva guardati ad uscire con una strana espressione che pareva di sollievo, e gli era venuto in mente l'Ave Caesar, morituri te salutant dei gladiatori, i quali non dovevano uscir più dall'arena che morti. Aveva fatto dietro di essi un feroce sorriso; e levandosi i guanti che avevano toccato quelle mani, li aveva gettati per calzarne un altro paio di nuovi.

Mentre egli discorreva il più lietamente del mondo, di piacevolezze, di avventure galanti, di arte, di aneddoti più o meno maligni, andava pure seco stesso pensando: «Or ora incomincia l'azione: farsa o tragedia? Quei grulli birboni non sanno che in questo momento traggono il dado per sapere s'e' saranno predoni impiccati, od eroi celebrati nella storia… Forse a questo momento la è già incominciata. Ne udremo ben tosto ripercotersi qui dentro il rumore.»

 

E con questi pensieri il suo cuore non aveva pur tuttavia un solo palpito più affrettato, il suo volto non un lineamento scosso dalla menoma emozione. Ah! egli era fatto veramente per dominare il pericolo e comandare anco al destino.

Di tratto in tratto egli volgeva il suo cannocchiale verso la contessa Candida e le faceva un cenno leggerissimo, un fugace ammicco che conteneva un'assicuranza, una risposta affermativa ad un'ansiosa interrogazione che gli occhi della contessa con febbrile ardore, come spinti da una forza oltre la volontà di lei, continuavano a rivolgergli. Era la continuazione, o meglio la ripetizione d'un dialogo che quel dì medesimo aveva avuto luogo tra di loro per lettere.

Essa gli aveva scritto, secondo il solito, in francese:

«Non dimenticate, per amor di Dio, l'affare dei diamanti. Io sono in un'ansietà inesprimibile. Domani mattina, per tempo, fate che io li riabbia, ve ne prego.

«T'amo sempre alla follia, e più ancora.»

Luigi aveva risposto sulla medesima cartolina profumata, e rimandatogli per lo stesso messaggiere fedele e sicuro, queste parole pure in francese:

«Li avrete domani al vostro svegliarvi.

«T'amo del pari.»

Verso le otto e un quarto una nuova agitazione commosse la fitta siepe di teste che si stipavano in platea; un'onda dalla porta si spinse e rifluì verso il centro: «È qui il Re» corse di bocca in bocca; tutte le faccie si volsero in su, verso la loggia reale; i suonatori nell'orchestra, incravattati di bianco e vestiti di nero, intuonarono la marcia d'ordinanza; nella gran loggia, al centro del teatro, entrò il Re e presso di lui la Regina, e dietro loro tutta la Corte che s'allargò in cerchio per la loggia fiammante di luce, come un fiotto di ori e di gemme, colle sue monture ricamate, collo sbarbaglio delle sue decorazioni, coi gioielli delle sue dame.

Carlo Alberto si avanzò fino al parapetto, da cui pendeva il tappeto, largo quanto l'apertura della loggia, di velluto cremisi con suvvi ricamato in oro lo stemma reale, ed intorno un'alta e grossa frangia d'oro. Tutte le signore nei palchetti s'erano levate in piedi e fecero la riverenza: tutti gli uomini in platea, ne' banchi ordinari e ne' seggioloni d'orchestra, s'erano drizzati del paro e voltati verso la loggia reale; alcuni applausi, ma freddi, cerimoniosi, senza spontaneità, suonarono dalle mani inguantate dei nobili e degli ufficiali dell'esercito, che smaltavano di loro spalline d'argento e dorate la massa compatta degli abiti neri.

Il Re s'inchinò leggermente, salutando a destra e sinistra con un cortese cenno del capo; questo saluto fece eziandio la Regina che gli veniva accosto, mezzo passo più indietro; poi sedettero, il Re in metà, la sua consorte a destra, e i Principi del sangue a loro lato dall'una e dall'altra parte; formavano così una linea smagliante in cui ripercotevano a gara i raggi della luce e i bottoni lucenti delle monture e le decorazioni che coprivano il petto degli uomini, e i diamanti che sfavillavano intorno al capo ed al collo della Regina e della moglie del Principe ereditario. Dietro questa linea, le dame sedettero in semicerchio presso le pareti della loggia; in piedi, secondo il rango assegnato dalle leggi supreme della gerarchia e dalla autorità irrefragabile dell'etichetta, stettero i dignitari dello Stato, i funzionari di Corte, i brillanti parassiti di vario genere che debbono dar lustro alla monarchia e vivere dello splendore di essa. Notavansi in quel gruppo numeroso di divise, di abiti ricamati, di gran cordoni e di crachats, tutti i ministri, S. E. il Governatore di Torino, il Generale comandante dei Carabinieri, conte Barranchi, l'Intendente Generale, tutte le Eccellenze possibili ed immaginabili; dietro la seggiola del Re, a pochi passi di distanza, da poter tosto esser pronto al menomo cenno sovrano, si teneva rigido, impettito, coll'aria d'importanza d'un uomo che fa da Atlante ad un mondo, il gran Cerimoniere di Corte. Egli diffatti regolava tutto quel mondo speciale – che a lui pareva più rilevante e maggiore dell'intiero universo – col codice dell'etichetta; per suo cenno passavano e sfilavano i varii fortunati personaggi a cui la carica o la volontà sovrana dava il privilegio di poter accostarsi colla persona incurvata alla spalliera della seggiola reale, udire qualche parola dell'augusto labbro, risponderne alcuna anche loro nello sprofondarsi in riverenze, e tornare a perdersi nel serbatoio comune de' cortigiani.

Gli spettatori si erano seduti di nuovo ancor essi e tosto dopo il telone si era levato per dar principio al secondo atto dell'opera. Mario Tiburzio era, come si suol dire, di prima scena, e si avanzò verso la ribalta, precisamente in faccia del Re. Fissò egli lo sguardo in quella pallida figura che aveva un vago sorriso sulle labbra, una nube di mestizia sulla fronte e il riflesso d'un segreto ardore negli occhi.

– Eccomi in faccia ancor io all'enimma coronato: pensò l'emigrato romano. La parola ch'esso disse di sè a Massimo d'Azeglio è la vera?

Pochi degli spettatori e nessuno dei nobili occupanti il palco reale, facevano attenzione allo spettacolo: e quindi non fu menomamente notata l'audacia di quella fissità di sguardo dell'umile artista di teatro verso l'augusta persona di chi sta sopra a tutti e a tutto nello Stato; ma ben la vide il Re. Svanì dalle sue labbra il sorriso; si accrebbe la nuvola sulla fronte, si smorzò come dietro un velo la ardenza degli occhi. Il Re si volse al Cerimoniere di Corte e fece un legger cenno di richiamo; l'importante personaggio accorse sollecito, il corpo ripiegato in due.

– Sa Ella dirmi il nome di quel cantante?

Il cortigiano guardò stupito la faccia del Re, da cui non si sarebbe mai più aspettato una simile domanda, essendo conosciuta da tutti la profonda di lui indifferenza per le cose dell'arte teatrale, e poi fissò, aggrottando le sopracciglia, quel miserabile di un artista che aveva l'onore di destare la curiosità sovrana.

– Non lo so davvero. Maestà, rispose: non è del resto che una seconda parte…

– Voglio sapere come si chiama: disse il Re.

– C'è qui il Presidente della R. Direzione dei Regi teatri; e certo egli potrà soddisfare al desiderio di V. M.

– Lo faccia venire.

Il Gran Cerimoniere indietrò di alcuni passi, la faccia sempre volta alla spalliera della seggiola del Re, la schiena orizzontale; poscia si drizzò, e visto nel mazzo dei ricamati e decorati il nominato Presidente, gli fe' segno di accostarsi.

– S. M. desidera parlarle: gli disse.

Il personaggio così chiamato s'avvicinò a sua volta nella medesima guisa al Re, il quale gli fece la domanda rivolta poc'anzi al signor Cerimoniere.

– Si chiama Medoro Bigonci, rispose il Presidente: è secondo baritono, e fa eziandio da supplimento al primo. Ha dei mezzi naturali, buona voce, manca di studio, fa inappuntabilmente il suo dovere.

Carlo Alberto avevasi recato agli occhi il cannocchiale ed onorava d'un particolare esame il giovane artista.

– Ha un aspetto ardito molto: diss'egli. È romano, non è vero?

– Sì, Maestà.

– Fu arrestato pochi giorni sono…

– Sì, Maestà, per un equivoco, ma il conte San Luca, e S. A. R. il Principe di Lucca chiarirono la sua innocenza, e fu tosto rilasciato.

Carlo Alberto fece il suo strano e misterioso sorriso; ad un tratto, come se per l'associazione di idee gli fosse venuto un nuovo e diverso pensiero, abbassò il cannocchiale e disse al cortigiano:

– Preghi il conte Barranchi di venirmi a parlare.

Diede con un lieve cenno di capo il congedo al Presidente della nobile Direzione teatrale; e questi rinculò, come aveva fatto il Cerimoniere, per allontanarsi. Fece l'imbasciata al generale Barranchi che recò sollecito i cordoni argentati del suo uniforme, lo sbarbaglio delle decorazioni che gli occupavano tutto il petto, ad inchinarsi alle spalle del Re.

– Conte, gli disse questi; sa Ella darmi notizie dell'avvocato Benda?

La domanda riuscì così strana ed inaspettata al signor generale che non ebbe di subito parole fatte per la risposta; il Re lo guardò stupito della tardanza di questa, e lo sguardo reale gli diede subito ispirazione e voce.

– Sì, Maestà, s'affrettò a dire. Sta meglio, sta molto meglio: è in fin dei conti cosa di poco momento.

– Mi fu detto invece, disse lentamente il Re, che la fosse una ferita gravissima.

– Pareva da principio, ma poi…

– Godo assai che sia com'Ella dice; e se il signor Benda guarisce presto e agevolmente, ciò vorrà di tanto migliorare la condizione del marchese di Baldissero innanzi a' suoi giudici.

Barranchi mostrò tanto stupore nella sua faccia da tracotante atteggiata ora all'umiltà ossequente di cortigiano, che il Re si compiacque di dare più ampia spiegazione del suo pensiero.

– Com'Ella sa, conte, io ho pubblicato un Codice Penale, in cui il duello è punito quale reato.

– Ma il figliuolo del marchese?.. susurrò Barranchi.

– Il figliuolo del marchese è un suddito come un altro, che non è per nissun modo al di sopra delle leggi.

Il generale ebbe tuttavia l'ardire di soggiungere:

– Credevo che gli arresti…

E Carlo Alberto, interrompendolo con una certa vivacità:

– Gli arresti glie li abbiam fatti intimare come nostro gentiluomo di Corte, e quindi soggetto ad una disciplina di obbedienza al nostro volere (cui noi gli avevamo fatto specialmente conoscere) e ch'egli ha audacemente infranto. Ciò però non lo assolve di dover rispondere all'Autorità competente della sua violazione della legge. Desidero anzi che sia dato un esempio, perchè si conosca che chi nella gerarchia sociale è più vicino al Trono, deve mostrarsi ed essere di tanto più zelante nell'ossequio alla legge.

Fece il piccol cenno di capo che equivaleva al congedo, e il conte, camminando a ritroso, andò a nascondere il suo stupore, per quelle parole del Re, fra la giubba ricamata d'un ciambellano e l'uniforme d'un aiutante di campo.

– Questa sera il Re è di cattivo umore, mormorò egli all'orecchio del ciambellano.

L'atto dell'opera era finito e passava l'intermezzo fra questo e l'azione coreografica, quando ad un tratto un certo movimento si manifestò nella massa dei corifei e delle comparse di Corte che riempiva la loggia reale, e questo movimento rapido si propagò nel resto del teatro, crescendo di vivezza e d'intensità, d'uno in altro ordine di palchi e fino nel mare onduloso di teste della platea. Che cosa era avvenuto?

Qualcheduno degli staffieri s'era presentato alla soglia della loggia reale ed aveva detto poche parole a quello de' suoi compagni che stava là impalato, a due passi dalle Guardie del Corpo in sentinella. Questi s'era inoltrato ed aveva parlato a sua volta piano ad uno scudiere, che era andato dal Ministro degl'interni a trasmettergli, come un'ambasciata, le parole che aveva udite, le quali erano le seguenti:

– C'è costì nella galleria un messo che dice avere gravi ed urgenti cose a comunicare a S. E. il Ministro degl'interni intorno a tumulti che hanno luogo in un punto della città.

La novella parve abbastanza interessante a S. E. perchè s'affrettasse ad uscire della loggia ed a recarsi colà dove il messo aspettava. Era un agente particolare addetto al servizio segreto del Ministro; e il suo aspetto scalmanato, il respiro affannoso e la faccia turbata dicevano abbastanza fin dalla prima il peso delle novelle che arrecava.

Non erano due minuti che il Ministro aveva lasciato la loggia reale, quando da parte di lui venivano sollecitamente pregati a venire nella galleria, dov'egli li attendeva il Governatore di Torino e il Generale dei Carabinieri.

– Che cos'è? Che cos'è? si domandarono dall'uno all'altro i cortigiani e le dame, vedendo uscire a quel modo con una certa premura gl'indicati personaggi.

Lo scudiere che aveva trasmessa al Ministro l'imbasciata parlò di novelle gravi di tumulti che stavano avvenendo nella città, e siccome nessuno ne sapeva dare i particolari, la cosa, secondo quel che sempre suole, prese tosto nell'immaginazione di chi diceva ed ascoltava, le maggiori proporzioni. La grandissima curiosità suscitatasi faceva friggere i nobili nervi dei cortigiani e delle dame, e sarebbero di sicuro corsi tutti quanti dietro le LL. EE. a cercare di apprendere tutta la verità, se non fossero state a tenerli colà le catene – d'oro, se volete, ma sempre salde – dell'etichetta e del cerimoniale di Corte.

 

Qualche uffizialetto sgattaiolò fuori della loggia reale e corse, per avere il merito d'esser il primo, a recare l'importante novella nel palchetto di alcuna nobile signora alla moda, assiepata da visitatori. Ciò bastò perchè in un attimo la notizia circolasse in tutto il second'ordine dei palchi, si trasmettesse al primo ed al terzo, salisse fino alle alte regioni del quarto e del quinto.

Ed anco in platea non tardava a penetrare e spargersi il tristo annunzio. Qualcheduno era pur sopraggiunto dal di fuori che aveva recato, una turba immensa, migliaia e migliaia di rivoltosi avere assalito, saccheggiato, incendiato, tre, quattro, tutte le fabbriche che si contavano nei sobborghi e nelle vicinanze di Torino, ed ora quelli indemoniati, avanzarsi, vincitori, trionfanti, ebbri di liquori, di ferocia e di bottino, verso l'interno della città.

Se nel cortèo reale, fra i titolati e decorati mannechini di Corte, l'emozione era frenata e doma dalla legge infrangibile dell'etichetta, questa ragione non esistendo più per la folla degli spettatori stipati ne' palchetti e nella platea, l'agitazione dei discorsi, degli atti, di tutte quelle teste fu somma allo scorrere sopra di loro di sì nuova e tremenda novella; ed un susurrio, un bisbiglio, un fremito di voci si elevò a dispetto del silenzio che doveva imporre l'ossequio per la presenza dell'Augusta famiglia regnante.

Carlo Alberto non tardò a notare questa novità: fece il solito cenno al signor Cerimoniere, e questi s'affrettò a venire curvo come un tenero alberello piegato dal vento, all'arrivo della voce sommessa di S. M.

– Che cos'è stato a produrre questo commovimento che vedo in tutto il teatro?

– Non saprei bene, Maestà: rispose il Cerimoniere, il quale in fatti non sapeva in che modo rispondere per non dispiacere a nessuno e non compromettersi per nulla.

– Non ha Ella udito dir niente?

Il valente uomo non avrebbe mancato del coraggio di dire anche una bugia per trarsi d'impaccio: ma la menzogna gli parve tornasse troppo improbabile.

– Pare che si dica che vi possa essere qualche cosa di nuovo per Torino… Sembrerebbe che alcuni mascalzoni avrebbero cominciato a far chiasso.

Tutti questi dubitativi e questi condizionali impazientarono il Re.

– S'informi di tutto esattamente, disse con una certa vivezza: voglio conoscere, e tosto, intiera la verità.

Il Cerimoniere stava per allontanarsi, quando il Re, come ravvisato, domandò:

– Il Ministro degli interni?

– Si è allontanato adess'adesso per un istante, chiamato appunto, se pure non erro, da questo incidente.

Carlo Alberto volse alquanto il capo e fece scorrere il suo occhio velato sopra la cerchia dei cortigiani.

– E il Governatore?

– Andato ancor egli col Ministro.

– Ed è con loro eziandio il conte Barranchi?

– Sì, Maestà.

– Faccia il piacere, mandi subito per essi, affinchè vengano tutti e tre a parlarmi senza ritardo.

Il gran Cerimoniere s'affrettò a trasmettere l'ordine sovrano; e tosto dopo i tre personaggi designati rientravano nella loggia. S'inoltrarono presso al seggio reale fino alla distanza cui soleva tenersi il Cerimoniere, e s'inchinarono. Il Re fece segno al Ministro degl'interni che venisse a parlargli il primo. Il Ministro mosse due passi innanzi e si curvò verso il capo canuto del Re: gli altri due stettero dritti impalati, in riga col Cerimoniere di Corte.

– Che cos'è che succede? interrogò Cario Alberto. Dica tutto. Ella sa ch'io non voglio che mi si nasconda il vero.

– Ho avuto l'onore, rispose il Ministro, di prevenire V. M. che si tentava di far sorgere de' guai fra la sua buona popolazione di Torino.

– Ed io le aveva detto, si prendessero tutte le più efficaci misure perchè questi guai non avvenissero.

– Non si è mancato al dover nostro, Maestà. Mi sono messo in relazione coll'autorità militare per mezzo del signor Governatore e del Generale Comandante la divisione, e colla Polizia per mezzo del Generale dei Carabinieri, affine di stabilire un accordo comune in un'azione di concerto.

– E non ostante questo accordo e questo concerto, disse il Re con una certa ironia, ma velatissima, i guai non si sono evitati.

– È cosa di poco momento, Maestà. Non tarderà ogni tumulto ad essere represso, e la compiuta tranquillità ristabilita; anzi… gli ordini sono già trasmessi… a quest'ora scommetterei che tutto è finito.

– Ma, in fine, quali sono i particolari del fatto?

– Una mano di sciagurati, la feccia proprio della plebe, fra cui alcuni operai, o tristi o traviati, tentarono penetrare in alcune fabbriche; ma noi che avevamo avuto sentore della cosa, abbiamo guernite le principali e le più minacciate, d'un certo presidio di guardie di polizia e di carabinieri; inoltre, siccome le truppe erano consegnate nelle caserme fin da questa mattina e l'ordine opportuno era dato, alla prima chiamata degli agenti di polizia, accorsero sopra luogo dei forti picchetti di fanteria. I tumultuanti, che al trovare l'inaspettata resistenza ed al vedere le divise dei carabinieri nelle fabbriche cui movevano per assalire, già nicchiavano, al sopraggiungere dei soldati, se la diedero a gambe; e così avvenne presso quasi tutti i minacciati opifizi.

Il Re, a prima giunta, non badò a quel quasi.

– E tutto è dunque finito così?

Il Ministro esitò.

– Mi dica ogni cosa: soggiunse vivamente Carlo Alberto.

– Disgraziatamente, riprese il Ministro, una di codeste fabbriche, la quale non si credeva minacciata, non fu custodita come le altre.

Il Re sollevò vivamente gli occhi in volto al Ministro.

– Ebbene?

– I riottosi, scacciati da tutti gli altri luoghi, si raccozzarono e si gettarono tutti quanti contro di quella; riuscirono facilmente a penetrarvi, e pare che abbiano incominciato a saccheggiarla.

Carlo Alberto aggrottò le sopracciglia ed espresse nella faccia un vivo dispiacere.

– Ah codesto mi duole, diss'egli, mi duole assai; e non avrei voluto che una simil cosa succedesse sotto il mio regno… Le sarei stato molto obbligato, conte, s'Ella avesse saputo fare in modo che Lei ministro, questo dispiacere mi fosse risparmiato.

Il Ministro arrossì a quel rimprovero.

– Creda, Maestà, che per parte mia…

Il Re l'interruppe.

– Ed ora si è provvisto a che sì disgraziata vicenda abbia fine?

– Sì, Maestà. Il Governatore e il Generale dei Carabinieri hanno mandato i loro ordini; uno squadrone di questi ed una compagnia di Bersaglieri furono spediti a passo di corsa; e benchè quella fabbrica sia un po' lontana, ritengo che a quest'ora saranno già arrivati o saranno presso ad arrivare sul luogo.

Carlo Alberto che non aveva ancora dimandato quale si fosse questa fabbrica, ebbe curiosità di saperlo.

– Ella non mi ha ancora detto di chi sia quello sventurato opifizio.

– È l'officina di ferro del Benda.

S. M. fece un lieve moto della persona.

– Me ne dispiace, disse con tono di vero rincrescimento; oh mi dispiace tanto di più… Dica al Governatore che mi si accosti.

Il Ministro si ritrasse, e il Governatore prese sollecitamente il suo posto.

Carlo Alberto parlò molto severamente.

– Come non prese Ella tutte le disposizioni necessarie perchè gli sciagurati fatti che ho inteso dal Ministro non avvenissero?

Il vecchio militare rispose con rispettosa fermezza:

– Io ho fatto tutto quello che mi spettava nelle mie attribuzioni. Appena ricevuta in proposito la comunicazione del Ministero, io provvidi perchè ci fosse pronta ad ogni qualunque momento una forza bastevole a reprimere la sommossa, tutta la forza disponibile che abbiamo a Torino; ma l'impiego poi di questa forza non si apparteneva a me il determinarlo, nè pel luogo nè per l'ora, sibbene alla Polizia a cui disposizione l'avevo messa.