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La plebe, parte IV

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– Ah! gli è suo segretario?

Ma dinanzi alla nobile fisionomia del marchese ogni ombra di sospetto s'affrettò a sparire dalla fronte di Carlo Alberto.

– Ha fatto benissimo: soggiunse vivamente: e l'aspetto di colui, la parola, come sono?

– Ha l'aspetto d'un uomo che ha sofferto: rispose mestamente il marchese, il quale abbassò gli occhi pensando con rimorso seco stesso di chi fosse la colpa di quelle sofferenze. A prima vista le sue sembianze possono tornare poco o punto piacevoli; ma la sua fisionomia non è quella d'un indifferente. Interessa di botto e la sua fronte fa pensare. Quando parla è in sulle prime peritoso ed impacciato; ma poscia la lingua gli si snoda e l'eloquenza del labbro asseconda assai bene la vivacità dell'idea.

Carlo Alberto atteggiò la bocca a quel suo indefinibile sorriso melanconico e stentato, che pareva insieme timido e falso.

– M'è venuta una curiosità da Califfo di Bagdad. Voglio vedere quest'uomo e discorrere con lui. Ma il Re in questo colloquio non ha da comparire. Lo lascieremo alla porta. Vuol Ella rendermi un servizio, marchese?

– Comandi, Maestà.

– Questa sera conduca da me il suo segretario… non qua, nella palazzina che ho recentemente acquistata sotto il giardino. Alle nove una persona fidata aprirà loro il cancello e li introdurrà in una camera terrena, dov'io sarò ad aspettarli. Quel giovane non deve in alcun modo sapere a chi dovrà parlare.

Il marchese s'inchinò in segno d'ubbidienza.

– Farò secondo gli ordini di V. M., ma le faccio osservare che sarà molto difficile che quel cotale non riconosca l'interlocutore con cui avrà l'alto onore di trovarsi.

– Non credo, disse il Re sorridendo, che le mie sembianze possano essergli tanto famigliari: mi acconcerò di modo e farò che vi sia una luce che giovino a trarlo in inganno…

S'interruppe, esitò un momentino e poi riprese con voce più bassa:

– Se però Ella crede che in ciò possa essere qualche inconveniente…

– Oh no, s'affrettò a rispondere il marchese. Spero che quel giovane sia degno d'ogni fiducia…

Il marchese era sul punto di svelare al Re il segreto della nascita di Maurilio: ma Carlo Alberto pose fine al colloquio.

– Allora siamo intesi: diss'egli tendendo la mano a Baldissero. Questa sera alle nove.

Il marchese s'inchinò colla dignità d'un gentiluomo: toccò rispettosamente quella mano che gli veniva pôrta, e rispose:

– Alle nove senza fallo.

Carlo Alberto guardò fisamente per un poco la portiera che era ricaduta dietro le spalle del marchese partitosi: e poi disse fra sè, curvando il capo:

– Ho fatto bene? ho fatto male?.. Al postutto son sempre in tempo di mandare dire al marchese che non se ne fa nulla.

Il marchese nella sua carrozza, tornando al suo palazzo, era occupato da molti e varii pensieri. Nell'apprezzamento delle cose egli subiva pure l'influsso del suo grado, della sua qualità, della sua educazione. Non si è impunemente nobili, nati ed allevati in corte, servitori devoti di monarchi, senza acquistare una certa dipendenza d'animo verso chi occupa quel supremo dei gradi sociali; anche pel vecchio, valoroso gentiluomo, una parola del Re formava un'autorità indiscutibile. Dei talenti di Maurilio ben aveva egli potuto persuadersi e dalla lettura di quello scritto e dai discorsi dal giovane tenutigli; capace com'egli era d'apprezzar giustamente il vero merito, il marchese non aveva tardato a riconoscere la superiorità di quell'intelligenza; ma pur tuttavia, dopo le parole intorno a quel cotale dettegli dal Re, dopo il desiderio manifestato dal Re di avere con questo sconosciuto un colloquio, s'accrebbe ancora in lui il concetto ammirativo che si era formato del trovatello, e nacque in esso un nuovo sentimento che ancora non s'era fatto vivo verso quell'infelice che gli era venuto innanzi, raccattato, per così dire, nel fango della strada: un sentimento d'orgoglio ch'egli avesse di suo sangue nelle vene, che fosse nato di sua sorella.

– Coi suoi talenti, col mio appoggio e colle aderenze della nostra famiglia, colla stima del Re (e potesse anco acquistarne la benevolenza!) dove non può egli giungere?

Così pensava non senza compiacenza il marchese; ma di colpo venne a turbarlo il ricordo delle parole dettegli da fra' Bonaventura: e se Maurilio fosse davvero quell'incorreggibile rivoluzionario, reo di sovversivi intendimenti da far inorridire? Che farne? Come gloriarsi d'averlo tralcio del proprio tronco? Il Re se ne sarebbe sgomentato ben presto, poi sdegnato: egli stesso, il marchese, quando manifestasse i legami di parentela che a lui annodavano quel temerario, correrebbe pericolo di scadere nella estimazione e nella benevolenza del Re.

Giunse a palazzo e scese di carrozza con animo perplesso. Il suo cameriere gli venne incontro e gli disse coi soliti accento e modi pieni di rispetto:

– Il parroco Don Venanzio attende gli ordini di V. E. nello studio.

Il marchese mandò un lieve sospiro di soddisfazione; avrebbe udito sulle labbra del vecchio prete i consigli della vera religione e la vera voce del dovere.

– Solo? domandò egli.

– Signor no: vi è pure il segretario.

Baldissero sostò un momento; parve esitare; si domandò a sè stesso se dovesse o no vedere in quel momento il giovane della cui sorte trattavasi, se e quale effetto la vista di lui avrebbe prodotto sulla definitiva risoluzione ch'egli doveva prendere. L'esitazione fu corta: si disse che era appunto il meglio lo studiare ancora, subito, in tal punto, la fisionomia di quel giovane; entrò risolutamente nel gabinetto di studio. I due che stavano colà seduti si alzarono con rispetto; e il vecchio sacerdote fece un passo verso il marchese, come si fa per la persona che giunge desiosamente aspettata; ma Baldissero aveva rivolto lo sguardo e l'attenzione esclusivamente sopra Maurilio. In quel momento la sua impressione tornò ad essere quella poco favorevole che ne aveva avuta la prima volta in cui il giovane era comparso ai suoi occhi. Quella testa grossa, ispida, direi quasi, e quelle sembianze tormentate; quell'occhio affondato e quella bocca larga a labbra pallide e sottili; quel corpo ricurvo e quelle manaccie grossolane gli presentavano un complesso così lontano dal tipo aristocratico di eleganza e di leggiadria che era quello della sua famiglia, e il quale così egregiamente era incarnato nella infelice sua sorella, che il marchese non potè a meno di dirsi: «È impossibile che costui sia mio nipote.»

Don Venanzio cominciò egli a parlare.

– Signor marchese, eccoci ancora ad implorare la sua protezione per un altro massimo favore.

– È cosa che riguarda Lei? domandò Baldissero sviando finalmente gli occhi dalla faccia di Maurilio, il quale sotto a quello sguardo, freddamente scrutatore e quasi ostile, sentiva, per la naturale sua timidità, confondersi e smarrirsi. Il tono poi con cui era fatta la domanda del marchese diceva chiaramente: «Badate che se si tratta d'un interesse vostro, Don Venanzio, sono dispostissimo a soddisfarvi, non così se si tratta d'altri.»

– No, signore, rispose il parroco, riguarda anche ciò questo mio figliolo d'adozione.

Il marchese non diè risposta alcuna; sedette e fe' cenno agli altri due sedessero anche loro; la sua mossa era quella d'un uomo disposto ad ascoltare.

Don Venanzio, senz'attendere altra licenza, prese ad esporre ciò che per essi volevasi. Disse della misteriosità della nascita di Maurilio, dei segni di riconoscimento trovati appo lui, del caso meraviglioso che pochi giorni prima li aveva posti a contatto colla Gattona, della certezza che ci aveva costei conoscere la famiglia a cui apparteneva il giovane, dell'obbligo che quella vecchia mendicante si era assunto di svelare la verità dopo due giorni. Soggiunse come fosse allora intravvenuto un nuovo fatto, l'intromettersi cioè del gesuita, fra' Bonaventura, di cui narrò il colloquio cercato ed avuto la sera innanzi con Maurilio. Stupito e messo in sospetto da ciò, egli stesso, Don Venanzio, era tornato dalla Gattona ad interrogarnela, e non aveva potuto trarne fuori se non che la chiave del segreto era davvero in mano di quel gesuita di lei confessore, e ch'ella non altrimenti avrebbe parlato che se il frate glie ne avesse dato licenza. Don Venanzio aveva capito che quella vecchia, o direttamente o per mezzo del gesuita, aveva fatto conoscere alla famiglia, forse potente, di cui Maurilio aveva diritto di portare il nome, che il fanciullo voluto smarrito era lì, pronto a rivendicare i suoi diritti; e quella famiglia aveva forse empiamente deciso di respingerlo. In tale emergenza egli aveva pensato ricorrere eziandio alla efficace protezione del marchese. Era un'opera di giustizia e di carità che doveva tentare il generoso animo d'un tant'uomo. Come se già sapesse appuntino i dubbi e le obbiezioni che voleva sottoporgli e intorno a cui voleva consultarlo il marchese, tutte combattè e distrusse le sofistiche ragioni che si vorrebbero accampare per esimersi dal sacrosanto dovere di riconoscere quell'abbandonato fanciullo, e lo fece con quell'eloquenza bonaria e semplice del cuore che è la più efficace su persona d'animo eletto, e ci mise tanto calore che non so chi non ne sarebbe stato vinto.

Il marchese ascoltò immobile, curva sul petto la testa, nascondendosi colla palma la faccia sotto il pretesto di sostenervi la fronte: quando il sacerdote ebbe finito, stette un momento ancora in silenzio e senza fare atto di sorta: poi trasse giù dal viso la mano, e rivolse a Maurilio uno sguardo che non era più quello quasi ripugnante di prima.

– Signor… Maurilio. (Esitò un momento a pronunziare questo nome, quasi avessero difficoltà le sue labbra a spiccarnelo, ma poi lo disse con una certa emozione poco meno che affettuosa). Signor Maurilio, così parlò con voce lenta e sommessa, Ella ha dunque alcuni contrassegni. Desidererei vederli. Vorrebbe favorire di mostrarmeli?

 

Maurilio, che li aveva presso di sè, fu lesto a porgerli al marchese. Questi riconobbe al primo colpo d'occhio il rosario di sua sorella, e lo prese affrettatamente, con mano tremante. Sentì una subita tenerezza ineffabile invadergli l'anima. Avrebbe voluto portarselo alle labbra e baciarlo: ma non osò. Ogni suo dubbio a quella vista era dileguato: gli parve scorgere Aurora medesima uscita dal suo sepolcro e venutagli innanzi a dirgli: «questo è mio figlio.» Quante preghiere non aveva ella innalzato al cielo, tenendo quel rosario tra mano! Di quante lagrime non l'aveva essa bagnato! Sotto la protezione di quel pietoso amuleto, di quella preziosa reliquia famigliare, aveva ella voluto porre il suo figliuolo, raccomandandolo alla Divina Consolatrice di tutti gli umani dolori; ed ecco che quella reliquia appunto riconduceva alla famiglia di lei quel figliolo cui una barbara malignità aveva voluto sbandire. Si domandò s'egli non dovesse di subito aprirgli le braccia e dirgli: «tu se' mio sangue.» Guardò ancora la faccia strana del giovane. Non ostante la sua emozione, durava nel suo animo verso Maurilio un segreto sentimento, quasi un istinto, di ripulsione. Si disse che non conveniva lasciarsi guidare ad un passo irrevocabile dalla commozione d'un momento, che occorreva prendere una decisione definitiva a sangue più raffreddo: desiderò parlare ancora e più specialmente di ciò con Don Venanzio.

– Mi lasci questi oggetti, la prego, diss'egli a Maurilio. Nessuno più di me, le assicuro, s'interessa nè può interessarsi per Lei e per questi suoi casi… E di ciò appunto, e di quel che sia da farsi, desidero ora stesso parlare con Don Venanzio.

Maurilio s'alzò e tolse commiato. Era uscito appena dallo studio del marchese, che un domestico venne a dirgli come la contessina Virginia desiderasse parlargli. Il giovane ebbe in pensiero per prima cosa rifiutarsi d'andare da lei, ma non l'osò: si compresse con una mano il cuore e seguì il domestico che lo conduceva nel quartiere della nobile donzella.

Il marchese teneva sempre in mano il rosario di Aurora, e lo guardava con occhi umidi di pianto; quando Maurilio fu fuor della stanza, egli non resse più alla piena del suo affetto e baciò quel rosario con passione.

Don Venanzio sorse di scatto in piedi, tutto commosso.

– Che? esclamò egli. Ella dunque, signor marchese, riconosce questo contrassegno? Ella forse sa?..

– Tutto. La famiglia del suo protetto è la mia: sua madre fu mia sorella.

Il vecchio prete alzò le mani tremanti verso il cielo, e con voce piena d'esultanza, di riconoscenza, di ammirazione, esclamò:

– Divina Provvidenza! Come sono profondi i tuoi disegni! come imperscrutabili le tue vie!.. Tu il figliuolo scacciato l'hai ricondotto al focolare domestico, oltre l'arrivo del senno umano, e me hai voluto stromento della tua grazia al miserello. Posso io dunque cantare il nunc dimictis?

– La sua parte non è finita, Don Venanzio, disse il marchese. Le tocca ancora rassicurare la mia coscienza, dileguare i miei dubbi, illuminare la mia mente.

Senz'altro più, espose francamente, cordialmente, interamente il più segreto dei suoi pensieri a questo riguardo e confessò tutte le sue esitazioni e ripugnanze. Il vecchio sacerdote combattè ogni cosa ad una ad una: affermò che non ostante i varii errori che riconosceva egli stesso nei giudizi e nelle opinioni di Maurilio, la mente di costui elettissima e l'animo nobilissimo lo facevano tuttavia degno della miglior sorte e del miglior nome del mondo; soggiunse che quand'anche non fosse così, il dovere della famiglia ond'egli era nato rimaneva pur sempre il medesimo e bisognava compirlo; certo era meno piacevole lo aver da accogliere un cotale che aveva sempre vissuto in isfera diversa da quella che si avrebbe voluto, con idee e costumi affatto diversi, colla disgrazia d'aver dovuto assaggiare della carcere per delittuosa imputazione; ma di tutto ciò a chi la colpa? alla famiglia medesima che lo aveva rigettato e posto in quelle condizioni; e parte dell'ammenda che ella doveva farne, sarebbe stato eziandio il passar sopra a codesto, il superare quelle antipatie e quelle ripugnanze. Il marchese era troppo uno spirito superiore per non comprendere codesto, per volere ad un individuo fare pagare il fio di risultamenti dovuti alle circostanze ed al fatto altrui: d'altronde Maurilio, ingiustamente accusato, aveva visto solennemente proclamata la sua innocenza ed aveva da quella bolgia infernale dove era stato precipitato, della miseria, della carcere, della malvagia compagnia, portata fuori un'anima sempre onesta, la qual cosa era merito maggiore di molto che non quello di chi, favorito da ogni condizione, non fallì mai.

Un'ora durò il colloquio fra Don Venanzio ed il marchese. Questi che aveva ad un tratto affacciate in corpo tutte le sue obbiezioni, non le venne più ripetendo a seconda che il buono ed umile prete di campagna, coll'impeto della sua eloquenza naturale, rozza anzi, ma efficace, col calore d'un'anima sempre giovanile ed ardente pel bene, il quale si crede compire un'opera di apostolato, le andava distruggendo ad una ad una. Ascoltava e li, il marchese, con mossa che dinotava tutta l'attenzione prestata al suo interlocutore e la potenza riflessiva impiegata dalla sua mente; sorreggeva secondo il solito la testa alla sua mano bianca ed affilata, mentre lo sguardo stava fiso sulla fiamma che volteggiava nel focolare; di quando in quando frammischiava alle argomentazioni del parroco un dubbio, un'osservazione, una richiesta, che erano come un nuovo incentivo al fuoco del discorso del protettore di Maurilio.

Quando fu trascorsa quell'ora che ho detto, il marchese finalmente si mosse, tirò giù dal capo la destra e lasciò scorgere la sua nobile fisionomia colle traccia di alquanta commozione, si alzò in piedi, drizzando la sua alta e distinta persona e mandò un sospiro che avreste potuto interpretare come di rassegnazione o come di sollievo.

– Sia fatta la sua volontà, Don Venanzio…

Questi fece un atto come volendo protestare; il marchese s'affrettò a soggiungere:

– Che credo sia pure quella di Dio. Il figliuolo di mia sorella sarà accolto in casa mia… come il figliuolo di mia sorella.

Pose mano al fiocco del cordone che pendeva presso il camino, ed una scampanellata ferma, risoluta, imperiosa avvisò il cameriere che S. E. aveva bisogno di lui.

– Dite al segretario si compiaccia di venir qui subito; comandò il marchese al servo presentatosi sollecito alla porta.

Il cameriere notò l'uso del verbo compiacersi, acquistò una maggiore stima che non avesse per l'innanzi ad un segretario, in favore de! quale S. E. si serviva di tali termini, e si affrettò verso il quartiere di Maurilio più rispettoso che non avrebbe mai creduto di dover essere verso un cotale che egli aveva visto entrare in quella casa in sì poveri arnesi.

Don Venanzio ed il marchese attendevano con una certa emozione d'ansietà. Dieci minuti passarono e nessuno venne; il marchese, impaziente, lasciò trascorrere ancora altri cinque minuti e poi diede con forza un'altra tirata al cordone del campanello.

Si vide poco dopo fra la portiera dell'uscio la faccia del solito cameriere; ma questa faccia aveva un'espressione di contrarietà mortificata, di disappunto, d'imbarazzo che dinotava essere avvenuta qualche novità che lo turbava.

– E così? domandò asciuttamente il marchese.

– Il segretario non c'è: rispose il cameriere con quell'impaccio nella parola che aveva nell'espressione del volto.

– Perchè non venire ad avvisarmene subito?

– Volli far cercare più accuratamente di lui e sapere che cosa ne fosse…

– Avete fatto male: interruppe con severo accento il padrone; ciò ch'egli faccia o non faccia non ha da chiamare in nessun modo la vostra attenzione.

Il cameriere mandò giù il rimprovero con un inchino.

– Appena torni il signor Maurilio, lo si mandi da me.

Il servo non si mosse e fece un atto come chi ha qualche cosa da dire e non osa.

– Che avete da soggiungere? domandò il marchese, il quale di ciò si accorse.

– Vorrei dire a S. E. che dubito molto che il signor segretario torni a palazzo.

Baldissero e Don Venanzio si riscossero e si guardarono in viso meravigliati.

– Perchè dite voi questo? domandò il primo.

– Perchè il signor Maurilio è partito svestendo gli abiti che qui gli erano stati dati e riprendendo i suoi logori che aveva deposti, ed il custode, al quale diede una lettera, mi disse che egli aveva un'aria talmente stralunata che da lui ad un pazzo ci correva poco.

Nuova e dolorosa meraviglia nel marchese e nel sacerdote.

– Ma gli è forse successo qualche cosa? domandò Baldissero: nessuno saprebbe dire alcuna cosa che ci guidasse a scoprire la ragione di questo fatto?

Il cameriere si strinse nelle spalle come uno che non sa niente.

– Voi avete detto che ha lasciato una lettera al custode: disse Don Venanzio.

– Sì signore.

– E questa lettera?

– L'ho qui. Il signor Maurilio aveva pur detto al custode di non consegnarla che fra un'ora; ma io ho creduto bene di farmela tuttavia rimetter subito. È appunto diretta a Lei.

– A me! esclamò Don Venanzio, date, date qui.

La prese con mano premurosa dal domestico che gliela porse, e ne guardò con sollecitudine la soprascritta; era di mano di Maurilio, ma nel tracciare i caratteri dell'indirizzo quella mano era così fattamente agitata che tutta sconvolta era riuscita la scrittura.

– Andate, disse il marchese al servitore che si affrettò ad ubbidire. Legga, Don Venanzio, soggiunse quando furono soli, e se quello che si contiene colà dentro crede potermelo comunicare, mi leverà dall'ansiosa curiosità onde son preso.

Don Venanzio ruppe il suggello, spiegò il foglio con mano che tremava un pochino, inforcò gli occhiali, e lesse.

«Parto. Dove me ne vada non so. Forse al villaggio dove imparai primamente a soffrire. Potessi chiudere questa vita nel luogo in cui la sentii cominciare a pesare su me colla gravezza del dolore!.. La mia sorte, la mia famiglia, il mistero della mia nascita, che m'importa più? Cessi da indagini che a nulla mi possono giovare. Quando anche fossi figlio d'un re, che me ne verrebbe oramai?.. Mi sento circondato dappertutto da una tenebra fitta. Vorrei che fossero le ombre della morte. Le mando un saluto dal cuore… Forse l'ultimo… In questa casa non posso rimaner più, non debbo… Ho la testa che minaccia di rompersi… il cuore mi sembra che voglia saltarmi fuori dal petto… Non mi stupirei che l'uno e l'altra scoppiassero… Addio.»

– O mio Dio! esclamò il buon sacerdote quando ebbe letto, tutto sgomento: ma che cosa può essere avvenuto? A quel poverino ha dato di sicuro volta il cervello.

Ricordò che pochi anni prima una forte scossa morale aveva già ridotto Maurilio al punto che la sua smarrita ragione lo aveva spinto al suicidio da cui lo aveva salvo Giovanni Selva; ricordò la grave pericolosa infermità che di poi lo aveva travagliato, temette anche questa volta una simile vicenda e pari effetti: senz'altra spiegazione, come uomo che non ha tempo nessuno d'indugiarsi, prese sollecitamente il suo cappello a tre punte che aveva posto sopra una seggiola dritto contro la spalliera, e si mosse per uscire.

– Ma che fu dunque? domandò il marchese con inquieta premura. Non posso io saper nulla?

Don Venanzio s'arrestò sui due piedi e porse al marchese la dissennata lettera di Maurilio.

– Legga, legga pure.

Baldissero la prese e lesse avidamente.

– Or dunque, che conta Ella di fare?

– Vado a cercare di quel disgraziato…

– Dove?

– A casa dei suoi amici, dove abitò finora: ma chi sa se ce lo troverò… Ah!

Una buona idea eragli venuta. Maurilio aveva scritto che forse si sarebbe recato al villaggio, correndo giù per la strada che vi conduceva, chi sa che non si sarebbe potuto raggiungere. Ne disse al marchese, il quale trovò molto giusta l'idea, e per attuarla meglio pose a disposizione del buon vecchio prete una sua carrozza. Dieci minuti dopo Don Venanzio partiva al trotto serrato di due buoni cavalli per correr dietro al fuggitivo.

Ma che cosa aveva dunque tratto il povero Maurilio a sì subita e pazza risoluzione?

Che la nobile fanciulla da lui amata gli avrebbe parlato di Francesco Benda, egli n'era sicuro. Non esisteva altro punto d'attinenza fra lei e lui, e abbastanza ne lo preveniva l'istinto del proprio cuore. Il suo amore senza speranza pur si ribellava furibondo al pensiero dell'amore di quella donna per un altro. Senza speranza! Sì, tale era stato l'affetto suo fin allora, tale ed anche più doveva essere al presente, avendo egli acquistato certezza che Francesco Benda aveva ottenuto quel sommo bene a cui egli non aveva osato pur mai aspirare. Eppure, vedete stranezza della sua natura, in lui non era così. Ciò che gli accadeva da due giorni era tanto straordinario che pareva avergli ispirato una insensata fiducia anche nell'impossibile. In que' sogni matti e sragionevoli che il bollore della gioventù presenta alla fantasia di ciascheduno, creando un avvenire meravigliosamente eccezionale che non si potrà effettuare giammai, ancor egli aveva avute a questo proposito le sue pazze chimere, di cui poscia amaramente sorrideva e si riprendeva egli stesso. Aveva sognato poter diventare illustre, grande, celebre, potente colla forza sola del suo ingegno e del suo valore, e raccolta una somma ingente di gloria venire a metterla a' piedi dell'adorata fanciulla, che non avrebbe più potuto stimarlo da meno e respingerlo con disprezzo. Ma ora ad avvicinarlo a lei, più sollecitamente e più naturalmente e con maggiore ancora la desiderata efficacia, sembrava volere adoperarsi la sorte. Tutto quello che gli era capitato, induceva in lui la certezza di appartenere egli ad una nobile e potente famiglia. Avrebbe dunque avuto un nome, un grado, un titolo pari a quelli di lei: essa avrebbe potuto e dovuto trattarlo come eguale, ed egli starle dinanzi senza umiltà e vergogna di soggezione e d'inferiorità. Nel suo animo di plebeo che aveva sino allora lottato colla miseria e s'era trovato oppresso dall'abbiezione del suo stato, entrò ad un tratto un sentimento d'orgoglio aristocratico, di cui si vergognò poco stante, ma che pure, anche passando solamente, lasciò in lui una certa traccia, un effetto inavvertito. Si disse che Virginia di sì nobile casato, di sì aristocratico sangue, non avrebbe potuto sposare un borghese come Francesco Benda. Quel pregiudizio delle vane distinzioni di classi sociali per nascita, che allora era così potente nella nostra società, quel pregiudizio ch'egli aveva trovato stolto e condannato sempre per lo addietro, parve a tal punto una verità al suo spirito momentaneamente traviato. Una fanciulla come Virginia poteva ella amare un uomo a cui non avrebbe dato la mano? Contraddisse, contestò l'evidenza delle prove che il suo dolore aveva scorte dell'amore di lei per Francesco: le interpretò con un quasi volontario errore nella più falsa guisa del mondo: ed anche quando, riavutosi da quella febbre, potè più giustamente apprezzare le cose, pure a sua insaputa, alcun che glie ne rimase al fondo dell'animo di quelle pazze speranze.

 

Pur tuttavia quando Maurilio, fatto chiamare da Virginia, entrò nel salottino in cui essa lo attendeva, vi fu con una timidità palpitante che pareva quasi una ripugnanza. Era un salottino tappezzato di seta cilestrina, e in mezzo, come un angelo nell'azzurro del cielo, cinta la fronte d'un'aureola, spiccava la bella figura della ragazza, ornato il capo del ricco volume dei suoi fulvi capelli. La splendeva come una visione di paradiso. Maurilio la guardò ratto ed atterrò gli occhi con paurosa confusione e si sentì tremare nelle più intime fibre. Stette egli immobile presso la porta e non seppe trovare una parola.

Essa gli si accostò con qualche sollecitudine, colla sicurezza di persona che non ha la menoma esitanza nè vergogna intorno a ciò che sta per dire o per fare. Era pallida più dell'usato, gli occhi splendevano d'una fiamma speciale, v'era un'inquietudine contenuta, una supplicazione involontaria nella mossa.

– Signore; diss'ella con espressione di non dissimulato, vivissimo interesse. Che notizie ha Ella del suo amico l'avvocato Benda?

Era la domanda che appunto s'aspettava Maurilio: eppure ad udirla egli diede in un trasalto come se ad un tratto avesse sentito una punta figgerglisi in cuore; sollevò ratto le palpebre, e le sue pupille color del mare incontrarono lo sguardo delle pupille color del mare di lei. Fu come un urto di due elettricità; e se ne sprigionò una potente scintilla che variamente li scosse ambidue. Virginia travide un segreto nella profondità di quell'anima che le aveva balenato dinanzi; le parve di botto che quella persona non era nuova per essa, nè indifferente al suo destino; dove l'avesse già vista e quando, quella fronte tormentata, non sapeva, ma sentì che una qualche indefinibile attinenza correva fra quello sconosciuto e lei. La sua fierezza avrebbe voluto sdegnarsi dell'audacia di quello sguardo che sembrava volerle entrare nell'anima, della temerità di quell'essere a lei di tanto inferiore, che pareva aversi ad intromettere nella sua vita; ma negli occhi di quell'uomo eravi pure tanto dolore che non potè a meno di sentirne compassione la sua generosa anima di donna. Non fu una simpatia, fu una pietà. Il suo sguardo mostrò ad un punto il risentimento ed il perdono; aveva appena lampeggiato lo sdegno che già risplendeva caramente in quella leggiadra pupilla una mitezza divina.

Quello che passava nell'interno del giovane chi lo potrebbe esprimere? Il suo sguardo acceso avvolgeva, abbracciava con audace potenza la bellezza fisica di quella nobil fanciulla, e si sforzava di penetrarle nell'anima, ad abbracciarla del pari; nello stesso tempo supplicava con ardenza e commozione infinita. Egli sentiva, in presenza di quella adorata beltà, adergersi la passione, invaderlo, farsi più potente della sua timidità, d'ogni riserbo, d'ogni riguardo, d'ogni suggerimento della ragione, d'ogni dettame di convenienza, padroneggiarlo, torgli le redini della volontà, stimolargli il cervello come una trionfante pazzia. Le più spropositate idee gli tenzonavano nella testa, le più audaci parole gli gorgogliavano nella gola; un lieve impulso ancora ed avrebbe traboccato ed avrebbe prorotto il torrente della sua passione.

Fece uno sforzo supremo per frenarsi. Conveniva parlare. Virginia aveva sviato da lui lo sguardo e rimaneva immobile attendendo risposta alla sua domanda. Il povero Maurilio riuscì a pronunziare con voce sorda e affaticata, le seguenti parole:

– Di Benda non ho notizia alcuna.

Virginia, da quel nome richiamata per intero all'argomento che le premeva più di tutto al mondo, lo guardò con un'espressione di mite rimprovero.

– Come! esclamò essa, mentre sì gravi avvenimenti successero e tanto pericolo minacciò l'esistenza del suo amico e della famiglia di lui, Ella non ebbe premura di saperne questa mattina le novelle?

La innamorata fanciulla che aveva vegliato in pena tutta la notte, che aveva con ispavento appreso della rivolta degli operai e de' gravi fatti che l'avevano accompagnata, che null'altro pensiero più aveva in mente fuor quello dell'amor suo, considerava quasi per impossibile che in altri avesse ad essere tanta indifferenza a tal riguardo. Maurilio, alle ultime parole di lei, ebbe sulle labbra un sorriso amarissimo, onde la fanciulla provò sdegno insieme, e pena e sgomento. Quel sorriso diceva che il giovane aveva avuto ben altro a cui pensare, che del ferito e delle sue sorti poco si curava ed anche peggio, che la ragazza sperando in lui un aiuto erasi ingannata, che piuttosto avrebbe trovato in esso un alleato ai nemici del suo amore. Ella si pentì subitamente della fiducia che aveva creduto poter riporre in quell'essere; si rimutò nelle sembianze compiutamente, s'allontanò da lui di qualche passo, e riprendendo tutta la naturale fierezza del suo contegno, disse con accento severo:

– Mi sono dunque ingannata a crederla un amico del signor Benda?

Per Maurilio quel mutamento fu come se gli si spegnesse subitamente agli occhi la luce del sole. Tese le mani supplichevole ed esclamò:

– No, no; la non s'è ingannata. Sono un amico, un amico a tutta prova… Mi comandi e farò quanto so, quanto posso…

S'interruppe perchè l'emozione gli faceva gruppo alla gola e non lasciava più varco alle parole. Virginia stette un momento in silenzio, come riflettendo, e pareva che il suo spirito fosse corso lontano da quel luogo, ed ella non badasse più a chi gli stava dinanzi. Dopo un poco scosse la sua leggiadra testa, s'avvicinò ad un mobile e prese in mano una lettera che vi stava sopra: si rivolse di nuovo a Maurilio e parlò con una semplicità affatto naturale.