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La plebe, parte IV

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– Annunziate al signor marchese che domando di parlargli senza indugio: disse al cameriere con accento autorevole ma senza superbia.

Il marchese lo fece introdurre tosto e gli venne incontro sino alla soglia del suo studio.

– Che imprudenza è questa! gli disse con accento che tentava e riusciva pure d'esser amorevole, ma in cui però non suonava ancora la vera nota dell'affetto. Avete già voluto levarvi e scender giù voi medesimo? Dovevate farmi avvertito e sarei venuto io al capezzale del vostro letto.

Maurilio non rispose che con un sorriso; pose con discreta freddezza la sua mano nella destra che gli tendeva il marchese con fredda cortesia, e se ne lasciò trarre per essa fino presso al focolare, dove sedette sul seggiolone che il marchese gli additò in prospetto a quello su cui si pose egli stesso.

Si guardarono un poco senza parlare. La situazione era strana e difficile per ambedue le parti. Stranieri fino a quel momento di esistenza, di abitudini, d'opinioni, di tutto; di presente le loro vite venivano ad intrecciarsi e stavano dinanzi nelle condizioni d'una intimità necessaria. Erano un problema l'uno all'altro. Qual effetto nelle vicende della loro vita reciproca avrebbe avuto quel nuovo elemento che veniva improvviso ad imporsi loro sotto le sembianze di quel personaggio che ciascuno dei due aveva innanzi a sè? Quella testa scarmigliata, quelle forme grossolane, quell'aspetto tra timido e selvaggio, che il marchese esaminava con poca simpatia, erano dunque di suo nipote? Era dunque verso quell'individuo ch'egli aveva il debito di riparare tutti i torti della sua famiglia e che da quel punto doveva incominciare l'opera sua? Non lo avrebbe mai immaginato sotto quella sembianza; avrebbe più volentieri impreso il suo còmpito, se fosse stato diverso il suo aspetto. Ma queste le erano puerilità: se lo disse il marchese a sè medesimo con segreta rampogna ed impazienza de' fatti suoi.

– Voi avete appreso tutto da Don Venanzio, Maurilio? domandò egli con voce che pareva fare un leggero sforzo a parlare.

– Signor sì: rispose il giovane levando quel suo capo grosso, così originale e caratteristico: e vengo a vedere che cosa Ella intende fare di me.

Le parole e il modo con cui furono pronunziate non piacquero al marchese. Frenò una mossa superba e quasi disdegnosa che glie ne venne; e rispose con pacatezza, ma con accento di superiorità:

– Intendo fare di voi un uomo degno della vostra nascita e di noi. E spero che in quest'opera voi mi ci vorrete con tutte le vostre forze aiutare.

– Vorrei diventare un utile cittadino al mio paese: disse Maurilio con quella sua voce sorda e l'accento peritoso che gli erano abituali quando un sentimento od una passione non lo commovessero.

Baldissero stette alquanto in silenzio guardando sempre il nuovamente acquistato nipote più con curiosità che con interesse, con una specie di diffidenza più che con affetto. Ricordò le opinioni democratiche e rivoluzionarie del giovane, e si domandò se non fosse spediente fargli capir tosto che le avrebbe dovuto modificare; ma si rispose che il momento per una simile discussione non era opportuno, che conveniva lasciare che le condizioni della nuova esistenza, il veder le cose del mondo da altro punto di mira e sotto altro rispetto, l'influsso del mutato ambiente in cui si sarebbe trovato, avessero cominciato ad agire sull'animo suo, come non dubitava che avverrebbe, così che le parole impiegate a convertirlo di poi trovassero quindi un terreno già preparato e molto più favorevole. In conseguenza rispose semplicemente di questa fatta:

– E voi potete diventar tale e lo diverrete di sicuro se l'ingegno che Dio vi ha dato impiegherete con zelo a conoscere la verità delle cose, le giuste leggi che reggono le società ben ordinate, i doverosi rapporti fra chi deve comandare e chi deve obbedire.

Maurilio sollevò la sua ampia fronte, ed un'espressione più risoluta apparve sui suoi lineamenti e suonò nella sua voce:

– Comandare, diss'egli, deve la legge in cui si incarnino la giustizia e la verità; ubbidire devono tutti.

Il marchese fece un atto che significava non volere a niun modo in quel momento entrare in discussione; e successe un'altra pausa di pochi minuti.

In questo frattempo Baldissero ricordò la promessa che aveva fatto al Re di condurgli la sera l'autore di quelle pagine che avevano prodotta una viva impressione in S. M. Si volse di nuovo con una certa vivezza verso Maurilio.

– Questa sera io dovrei condurvi ad un colloquio, da cui molto può dipendere il vostro avvenire. Potreste subitamente acquistarvi un'invidiabile posizione. Si tratta d'un personaggio importante e molto potente nello Stato, il quale ha letto quel vostro manoscritto sequestratovi dalla Polizia e concepì desiderio di parlare a viva voce con voi intorno a qualche argomento che in quelle pagine avete accennato.

All'udir far parola di quel suo scartafaccio, in cui erano depositati tutti i segreti non che del suo pensiero e dell'anima, ma dell'esistenza e del cuore, all'idea che quelle sue espansioni, quelle rivelazioni erano venute in mano d'estranei, passate da questo a quello, un subito rossore salì alle guancie del giovane; il marchese che lo vide e s'accorse come quello fosse segno di viva contrarietà e quasi di sdegno e vergogna, s'affrettò a soggiungere:

– Ci terrei molto, vi dico in vero, ad attenere la promessa che feci a quel cospicuo personaggio di presentarvi a lui questa sera medesima; però il male che vi è sopravvenuto è una valevol ragione a scusarmi se ci manco. Se dunque la vostra salute non vi consente di rendervi a questo convegno, ditelo pure ed io ne renderò avvertito quel personaggio.

Maurilio esitò un momento.

– Scusi, diss'egli poi: non potrei sapere di questo personaggio il nome od almeno il grado?

Il marchese scosse la testa.

– Va tra' primi dello Stato, rispose: non posso per ora dirvi altro.

Il giovane stette di nuovo un momento sopra sè. Il suo primo pensiero fu quello di giovarsi appunto del pretesto della sua salute per sottrarsi a quel misterioso colloquio coll'incognito personaggio; ma poi come una subita ispirazione lo ammonì ch'ei faceva male, che in codesto era forse una fase del suo destino che gli si presentava, e che quindi gli conveniva meglio risolutamente affrontarla.

– Ci andrò: disse con una certa vivacità Maurilio.

– Sta bene; ricordatevi che a quell'uomo innanzi a cui vi troverete dovete più che rispetto riverenza. Non vi dico di mentire alle vostre convinzioni, ma discutendo con quel personaggio, sostenendo anche le vostre idee che da quelle di lui certo dissentiranno, vi raccomando la moderazione e non solo nelle forme, ma direi eziandio nella sostanza.

Maurilio non rispose; ma fra se stesso andava pensando con molta curiosità chi sarebbe mai stato quell'uomo. Il marchese continuò:

– Potreste, vi ripeto, guadagnarvi di botto un posto onorifico e rilevante… Ad ogni modo, consultate anche le vostre attitudini e le vostre propensioni, vi troveremo poi un impiego negli uffizi del Governo.

– Perdoni: interruppe il giovane: ma io non intendo assumere verun impiego governativo.

Baldissero lo guardò con istupore.

– Non volete voi servire il vostro paese?

– Sì; ma non è l'unico modo di servirlo quello d'imbrancarsi alla schiera burocratica, e non credo neppure che quel modo sia il migliore. Voglio rendermi utile più ch'io possa al mio paese, ma rimanendo libero cittadino.

– Gl'impiegati sono essi schiavi? disse asciuttamente il marchese.

– Hanno un vincolo di più che gli altri. Hanno limitato e definito in certi limiti, troppo stretti per me, il loro campo d'azione; hanno esaurita e consumata ogni iniziativa individuale, prima che possano manifestarla. Sono ruote d'una macchina, necessarie sì quando non eccedono, ingombratrici e dannose quando ve ne ha troppe, non sono mai fecondi inventori nè propagatori di verità onde la coltura umana e il benessere generale s'accrescano.

Il marchese tornò a guardare il giovane con meraviglia.

– Ma che cosa vorreste voi dunque fare? che cosa essere?

– Vo' farmi banditore indipendente di verità al popolo ed al Governo; voglio promuovere la diffusione del vero e del giusto negli ordini politici, economici e sociali.

– Maurilio: interruppe il marchese con quella sua voce grave di una incontestabile imponenza; voi siete giovane e le cose del mondo avete visto finora traverso una lente sformatrice degli oggetti, quali sono le proprie sventure. Prima di conchiudere dai vostri studi, prima di farvi ammaestratore altrui, compite que' primi, allargate la cerchia delle vostre osservazioni, fate maggior messe di più seria esperienza, e lasciate maturare ancora meglio il giudizio.

Maurilio s'inchinò leggermente.

– Ella ha ragione: disse con ossequio, ma con una fredda fermezza insieme che indicava non egli esser mai per lasciarsi smuovere dalle sue idee. Questo appunto, e non altro desidero ancor io.

Successe un momento di silenzio. Il giovane aveva reclinata la testa, s'era di nuovo incurvato del corpo secondo la sua abitudine, e teneva gli occhi fissi sui fiorami del tappeto; il marchese lo guardava con una curiosità come diffidente, quasi ostile. Cercava egli discernere nel suo interno quali sentimenti gli ispirasse quell'individuo, e non sapeva riuscirci. Era insieme un interesse ed un sospetto, quasi una paura; un'attrazione ed una ripugnanza. Avrebbe voluto poter levare al riacquistato nipote almeno dieci anni affine di esser in grado di ridurlo quale egli lo avrebbe desiderato; pensava, anche senza volerlo, al consiglio di fra' Bonaventura, di dare a quell'individuo una buona somma e mandarlo nelle più lontane regioni.

– Maurilio, dopo un poco riprese a dire lo zio, converrà che vi faccia conoscere tutta la vostra famiglia. Quando volete voi essere presentato ai vostri congiunti?

 

Maurilio vide passarsi dinanzi la splendida aureola delle chiome d'oro di Virginia. Sussultò, arrossì, impallidì, ed esclamò con tono che pareva di sgomento:

– No, no… non ancora.

Il marchese lo guardò stupito; egli dominò la sua emozione, e soggiunse più freddamente:

– La mia famiglia sa ella già tutti i miei casi e l'esser mio?

– No: rispose il marchese; ma è mia intenzione apprenderli tosto a chi si deve.

– Or bene, riprese il giovane con accento di preghiera; se Ella non dissente, io desidererei, prima di entrare in questa nuova esistenza, andarmene al villaggio dove fui allevato, passare alcuni giorni di raccoglimento, di pace, di sovvenire e d'addio al passato. Don Venanzio parte domani: con suo permesso, io ve lo accompagnerei. Al mio ritorno prenderei nella famiglia quel posto ch'Ella mi vuole restituito.

Lo zio accondiscese sollecito, e quasi soddisfatto. Avrebbe avuto alcuni giorni da preparare allo strano avvenimento la moglie, i figliuoli e la nipote; avrebbe potuto riflettere di meglio sul da farsi, riguardo al giovane medesimo.

Maurilio non volle quella sera sedersi pel pranzo alla tavola della famiglia. Salì nella sua camera, dove chiese ed ottenne dallo zio permesso di rimanervi, finchè lo si sarebbe fatto chiamare per recarsi a quel misterioso convegno di cui il marchese gli aveva parlato. Non potè mangiare neppur un boccone; l'eccitamento de' suoi spiriti e de' suoi nervi era tale che non poteva star fermo, nè arrestar la mente sopra un'idea. Don Venanzio venne più tardi a fargli compagnia; ma furono impotenti a calmarlo anche le dolci esortazioni di quel brav'uomo. Quando un lacchè venne ad avvertirlo che il marchese lo attendeva per salire in carrozza, Maurilio era in uno stato quasi d'orgasmo che avrebbe potuto del pari, nel colloquio a cui si recava, produrre questi due effetti: o togliergli del tutto la libertà della mente e la capacità di spiegarsi, o dargli un'audacia ed un'eloquenza non ordinaria di parola.

Zio e nipote salirono in carrozza senza parlare; e in breve furono alla loro meta; Maurilio scendendo vide che si trovavano sul principio di quel viale medesimo che conduceva alla fabbrica dei Benda. Entrarono per un cancello di ferro che loro venne aperto da un uomo avvolto in un ferraiuolo, e preceduti da quest'uomo, che evidentemente li stava aspettando, furono introdotti in una camera a pian terreno d'una palazzina posta al di sotto di uno dei bastioni del giardino reale, palazzina che Maurilio sapeva essere stata comprata da poco tempo dal Re.

Furono lasciati soli in quella stanza modestamente arredata, parcamente illuminata da una lampada colla ventola, ma acconciamente riscaldata. Vi era tanto silenzio tutt'intorno che pareva proprio d'essere all'infuori della vita chiassosa d'una gran città. Il solo rumore che s'udiva era il tic tac d'un grande orologio posto sulla caminiera.

Pochi momenti passarono, e nessuno dei due venuti pensò pure a rompere quell'alto silenzio. Poi una tenda di panno verde che pendeva ad una porta si sollevò da una parte, e comparve un uomo che, quantunque vestito da borghese, aveva l'aspetto soldatesco.

– Marchese, disse costui parlando piano come per rispettare ancor egli quel silenzio; si compiaccia venir qua un momento.

– Attendetemi qui: disse il marchese a Maurilio, e passando sotto la tenda, entrò nella stanza vicina coll'uomo che era venuto a chiamarlo.

– Dove son io? Pensò Maurilio rimasto solo e guardandosi intorno come per cercare alcuna cosa che rispondesse alla fattagli domanda. Chi è che mi vuol parlare? Innanzi a cui mi troverò io fra poco?

Una idea che gli parve matta venne ad affacciarsi alla sua mente. Quella casa era proprietà del Re; se questo medesimo fosse l'alto personaggio che voleva interrogarlo? Sentì una specie di brivido corrergli per le vene, tremò, ebbe paura, e pensò un momento cercar di fuggire: ma poi tosto dopo un sentimento di riazione ebbe luogo in lui. Oh! se pur fosse! Se in faccia all'incarnazione più spiccata dell'ordine politico e sociale, alla rappresentazione più valida e suprema del potere e dell'autorità umana egli si trovasse e potesse parlare a tu per tu e dire la verità delle cose, i sentimenti delle masse, i bisogni della plebe!.. Ma egli ci avrebbe valuto? Sentì un impulso d'orgoglio e di temerità in quel sovreccitamento che non l'aveva ancora abbandonato, e si affermò che, se non la capacità di fare presso Carlo Alberto la parte del marchese di Posa di Schiller, il coraggio egli l'avrebbe avuto di certo.

Scosse ad un punto le spalle e sorrise di se medesimo. Gli parevano queste chimere assurde. Si accostò senza volerlo a quella tenda verde dietro a cui era sparito il marchese: udì appena il susurro di voci che parlavan sommesso. Passeggiò in lungo ed in largo sopra il morbido tappeto che ammortiva il suono de' suoi passi. Andò poscia a sedersi presso il camino dove fiammeggiava un gran fuoco, si prese colle mani la testa e stette ad aspettare con una specie d'ansietà che gli faceva battere il cuore e sembrar lunghi i minuti.

Un quarto d'ora o poco più era passato, quando la tenda si sollevò di nuovo e tornò in quella camera il marchese.

– Passate di là, diss'egli a Maurilio. Il signore che vuol parlarvi vi aspetta. Rispondete alle sue interrogazioni con franchezza, ma pesate bene le vostre parole. Quando vi si darà il congedo, mi ritroverete in questa sala.

Maurilio sentì più forte il batter del cuore, camminò quasi barcollando verso la porta, e spinto dal marchese entrò nella camera vicina; l'uscio si richiuse dietro di lui.

Era una camera vasta quanto la precedente, riscaldata del pari, ma ancora più modesta a giudicarne da quel poco che si vedeva, perchè la era ancora più scura. In fondo era una tavola abbastanza grande, coperta da un tappeto verde di panno finissimo e sopravi una lampada colla ventola ancor essa sul globo di cristallo. Questa lampada era stata calata giù dal suo piedistallo perchè il cerchio di luce che mandava all'intorno fosse meno ampio e tutto si contenesse sulla superficie della tavola. Sopra il tappeto di questa vedevansi alcune carte ripiegate per lo lungo e un gran portafogli su cui impresso in oro uno stemma reale.

Seduto colà, con un gomito appoggiato alla tavola e il mento nel concavo della mano, stava un uomo che appariva di alta statura. Aveva la faccia nell'ombra e i lineamenti non si potevano discernere; ma scorgevasi una vasta fronte e un viso lungo e pallidissimo. I raggi della lampada cadevano di pieno sulla mano sinistra ch'egli teneva chiusa a pugno sul tappeto e la facevano vedere magra, color di cera, ossea, eppure elegante.

Maurilio s'era fermato sulla soglia, esitante, con un impaccio timoroso.

– S'avanzi: disse una voce sorda ma con accento gentile ed incoraggiativo: s'avanzi e sieda costì.

Quella mano chiusa a pugno che posava sulla tavola, si aprì, e con mossa piena di garbo accennò ad una seggiola posta a due passi da quella su cui stava chi aveva parlato.

Il giovane s'avanzò lentamente fino a mettere la destra sulla spalliera della seggiola che gli era stata additata, e il suo sguardo cercava intanto penetrare nell'ombra a discernere i lineamenti di quello per lui sconosciuto personaggio. Da quello scuriccio vedeva egli due occhi fissi, con certa espressione d'autorevolezza venire indagando eziandio il volto di lui che s'avanzava; e siccome anche questo volto trovavasi nell'ombra, ecco la mano, che aveva fatto invito a Maurilio di sedere, urtare nella ventola e farla piegare così che un fascio di raggi, di colpo, battesse sulla figura del nuovo venuto. Il giovane chiuse gli occhi come abbacinato, e sentendo sopra sè lo sguardo scrutatore di quell'incognito, arrossì. Fu un momento, il coprilume tornò a posto e quella voce grave e sommessa che aveva già parlato, disse di nuovo:

– Sieda, signor Valpetrosa.

Maurilio sussultò. Era la prima volta che gli veniva dato quel nome: e senza sapere chi fosse che ora l'aveva pronunziato, parvegli che dall'autorevolezza di quell'accento le sue nuove condizioni ricevessero una più decisa ricognizione, una specie di consecrazione.

– Ella dunque sa il mio vero nome? diss'egli sedendo ed affondando sempre in quell'ombra, oltre il cerchio di luce, il suo sguardo curiosamente intentivo.

– Il marchese mi disse tutto testè: rispose con dignitosa semplicità lo sconosciuto. Ciò le provi quanta fiducia abbia in me il suo zio e mi faccia ritenere non indegno anche della sua.

Gli occhi di Maurilio cominciavano a penetrare la oscurità in cui le fattezze di quel personaggio si riparavano; vide a queste ultime parole sulle labbra di chi le aveva dette un sorriso che gli parve enimmatico: potè discernere due guancie pallide e scarne con pomelli sporgenti sotto le occhiaie affondate, due folti baffi nerissimi sopra una bocca larga, sottile, d'una fredda e mesta espressione. L'idea, il sospetto, la paura che gli si erano affacciati poco prima nella stanza vicina tornarono in lui più forti. Quella figura non era essa quella del Re, cui pochi giorni prima, la sera del ballo all'Accademia Filarmonica, egli aveva visto sullo scalone di quel palazzo passargli a pochi passi di distanza in tutta la pompa del suo grado? Volle rispondere alcune parole, e non ne trovò punto; non seppe che inchinarsi, e frattanto pensava: «che mi dirà egli? e che gli dirò io?»

Il Re da parte sua aveva ravvisato in quel giovane una figura che già gli era venuta dinanzi altra volta. Egli vedeva passare sotto ai suoi occhi tanti e tanti de' suoi sudditi, che il dove e il come avesse visto costui non seppe trovare di subito nella sua memoria: ma quell'incontro era stato così speciale e nella sua semplicità così inaspettato e straordinario che non tardò a venirgli a mente. Rivide lo scalone adorno ed illuminato, i fiori, le piante e fra queste la faccia curiosa, esaminatrice, quasi interrogativa di quel giovane popolano. Alla sua indole molto inchinevole alle mistiche ubbie, parve questa, più che un'opera del caso, quasi un incontro preparatogli dalla Provvidenza, forse per dargliene appunto aiuti al compimento della sua missione di re.

Successe un silenzio. Carlo Alberto si passava lentamente sulla fronte quella mano con cui prima sosteneva il suo volto; Maurilio, convinto sempre più che quello fosse il suo Re innanzi a cui si trovava, sentiva accrescersi l'interno suo turbamento, ma in mezzo al medesimo l'eccitazione de' suoi nervi, aiutata dalla volontà, faceva spuntare ed afforzava l'ardimento.

Carlo Alberto s'era ritratto alquanto dalla tavola, appoggiando il dorso alla spalliera, e la sua faccia trovavasi quindi ancora più nell'ombra: seguitava a tacere e i suoi occhi scrutavano sempre la fisionomia di quell'individuo ch'egli stesso aveva voluto gli fosse condotto dinanzi. Quel volto solcato da rughe troppo precoci, quella fronte intelligente, ma per così dire tormentata, quello sguardo timoroso ed audace, sommesso insieme e pure potente non gli piacevano, ma tuttavia gl'ispiravano una certa curiosità benevola. Aveva tante volte immaginato potersi trovare a tu per tu col suo popolo senza intermediari e sentirne la voce vera; ed ora che gli pareva questo popolo gli stesse appunto davanti incarnato in quell'individuo che aveva sofferto colla parte più misera di esso, non sapeva come prendersela, quali interrogazioni muovergli, che cosa volerne. Era come una fattucchiera novizia che ha evocato la prima volta uno spirito e non sa più che farsene quando esso è comparso: egli aveva evocato il genio delle nuove idee liberali, lo spirito delle teorie democratiche le quali venivano ad accamparsi contro la monarchia quale il passato l'aveva fatta, ed egli, il rappresentante di questa monarchia, che pure in uno slancio di ambizione e diciamo anche di generosità giovanile, aveva combattuta, egli si peritava a domandare il motto di quella sfinge popolare di cui avrebbe pur voluto essere l'Edipo.

– La sua vita sinora fu molto fortunosa: così cominciò il Re a parlare dopo un poco; e la Provvidenza le darà certamente compenso in avvenire dei travagli passati, i quali mi pare avranno a riuscire non infruttuosi nè per Lei medesima, nè per la società, se quelle traversie hanno volto il suo intelletto allo studio di gravi quistioni, ed hanno arricchito d'esperienza la sua mente.

Carlo Alberto si tacque; Maurilio non aprì labbro nè fece pure una mossa.

– Ho letto alcune pagine di quel suo scritto in cui con molto… (esitò come per cercare una parola acconcia che non gli veniva alle labbra) con molto ardimento Ella affronta i più ponderosi quesiti ch'io creda esistere intorno alle sorti delle società umane.

Allungò la destra e, preso il portafogli, ne trasse fuori lo scartafaccio di Maurilio, il quale, nel vederlo, arrossì fino alle orecchie.

 

Il Re continuava:

– Ma crede Ella che le soluzioni da Lei proposte, i rimedi da Lei messi innanzi sieno valevoli a far cessare il male? La sua formola suprema, s'io l'ho ben capita è la seguente: migliorare lo stato morale e materiale dei poveri.

Maurilio chinò il capo per esprimere che quello precisamente era il suo concetto.

– Ma questo è l'intendimento e il desiderio di tutti: ed è l'opera che proseguono, con prudenza e secondo le circostanze consentono, i legittimi governi. La democrazia a cui Ella fa appello col suo ingannevole motto di libertà, parola elastica, mal definita sempre e non definibile, appunto perchè traduce un concetto non esatto o non acconcio alla natura umana; la democrazia, dalle leggi agrarie dei Gracchi all'infame terrore della rivoluzione di Francia, non ha mai potuto far nulla in pro appunto di quelle classi che più sono degne d'interessamento e più hanno bisogno di soccorso. Il male pur troppo è una fatalità della esistenza terrena tanto nell'individuo come nelle agglomerazioni sociali, e per queste si traduce nella miseria di parte dei loro componenti. Rimedio assoluto non c'è e non ci può essere; qualche temperamento possono arrecarlo soltanto due virtù che c'insegna la nostra santa fede; la carità e la rassegnazione.

Il Re s'interruppe di nuovo. Tornò ad appoggiare la fronte alla mano e stette colle pupille immobili che con isguardo vago si fissavano nell'ombra, come se vi cercasse ancora idee e parole che più non gli si presentavano.

Maurilio aspettò un istante; ma poi capì che a lui ora toccava parlare. Chiamò a rassegna i suoi pensieri e sentì con ispavento che invece di accorrere fuggivano dalla sua chiama: sentì vuoto, come arido il cervello, si turbò forte, maledisse la sua timidezza, fece uno sforzo violento di volontà che gli raccolse il sangue nel capo e gli suscitò nel cervello un turbinio vertiginoso, aprì le labbra e non ne uscì suono veruno, volle cominciare a parlare e non sapeva che cosa avesse da dire, non riuscì che a balbettare con voce tremola e soffocata:

– Maestà…

Carlo Alberto si riscosse vivamente; si tirò indietro della persona con rapida mossa, come se un subito pericolo gli fosse sorto dinanzi ed egli volesse ripararsene nell'ombra; i suoi occhi dalla luce semispenta e dallo sguardo vago, acquistarono di botto una vivacità concentrata ed una fissità imponente; la sua destra si posò sul bracciuolo del seggiolone ov'egli sedeva, con atto di superba autorevolezza.

– Ella dunque mi ha riconosciuto?

Maurilio aveva chinato gli occhi, quasi pauroso d'essere abbacinato dai raggi di quel Giove che rivelava la sua divinità; ma in quella voce che gli aveva ora parlato c'era tale un sentimento affatto umano di stupore senza sdegno, di contrarietà senza minaccia, ch'egli risollevò lo sguardo su quel volto pallido che gli traspariva nell'ombra mandata intorno dal coprilume. Il nume terreno non era nè abbagliante, nè terribile: sulla fronte portava le rughe incavate dai dolori dell'uomo; negli angoli della bocca stavano le pieghe che vi disegnano i dubbii, i sospetti, i timori d'un'anima travagliata.

– Toltogli il manto e la corona di re, pensò Maurilio, è un uomo al pari di me. Posso, devo parlargli come uomo ad uomo.

– Sire, diss'egli allora, senza cortigianeria, ma con rispettoso ossequio: crede Ella che gli sguardi di tutto un popolo non si volgano desiosi verso colui che rappresenta ai suoi occhi tutta l'autorità della legge, tutto il potere di fare il suo bene e il suo male? Quando egli passa in mezzo alle turbe frequenti nella pompa del suo corteo, come una visione di splendore, come un Nume che traversa la terra all'infuori e al di sopra delle miserie comuni, tutti gli animi come tutti gli sguardi si volgono a lui con muta invocazione. Sono migliaia e migliaia di petti che domandano, che sperano, che anelano da quell'essere superiore e dominante la felicità od almanco il sollievo delle loro sventure.

– E domandano l'impossibile: proruppe con qualche vivezza il Re. Che possiamo far noi? In quanti ostacoli non s'urtano le nostre migliori volontà!.. Aimè! Più facilmente si può fare il male che il bene.

– Sì, è vero, domandano l'impossibile: riprese Maurilio, a cui l'ardimento e le parole venivano; perchè non è e non può essere nel potere arbitrario d'un uomo cambiare ad un tratto le condizioni onde chi si lamenta riesce infelice: questo è il fatto delle istituzioni, delle leggi e de' costumi… Ma quell'uomo che Iddio ha posto al di sopra degli altri ha molto maggiore influsso nella sua azione per modificare quegli elementi. Quindi l'istinto popolare, aiutato dalle tradizioni monarchiche del nostro paese, il quale venne composto, plasmato, direi quasi, dall'operosità e dalla forza di volere dei duchi della Casa di V. M., non ha torto a rivolgersi con sì accese speranze e con sì sollecita aspettazione a quella Reggia onde tutto finora si mosse il progresso civile nel paese. Io stesso, quante aspirazioni e quanti voti non rivolsi al monarcato ed al monarca! E benedico la fortuna che me, umile e nullo fra i cittadini, volle porre in presenza di chi tiene in pugno la parte maggiore dei nostri destini.

Carlo Alberto guardò per un momento in silenzio quell'individuo che ad un tratto aveva acquistato tanta audacia di parola.

– Ella dunque, disse poi, è disposta a dire al monarcato ed al monarca tutto il suo pensiero?

Maurilio s'inchinò in segno d'assentimento.

– A svolgere il commento delle idee che ha espresso in queste pagine: continuò il Re battendo una mano sul manoscritto di Maurilio; ad adombrare la pratica attuazione delle sue teorie?

– Sì Maestà, se così vuole.

– Voglio… E desidero anzi ch'Ella parlando al monarcato oblii il monarca e non veda che un uomo desioso di conoscere esattamente il pensiero di quella democrazia di cui Ella ha abbracciata la causa.

Maurilio si raccolse un momento. Quel tumulto che aveva nel capo si convertiva in un sobbollimento di idee che gli si accalcavano ad un tratto e facevano ressa nel suo cervello: colla contenzione della volontà mise ordine a quella confusione, e dopo un poco, sentita con suo gran piacere diventare lucida la mente, cominciò a parlare, e si espresse con un'eleganza, con un'eloquenza, con una chiarezza dalle quali questa povera prosa è ben lungi pur troppo.

– Sì, il male è la condizione inesorabile della esistenza umana, ma non così che sia fatalmente irrimediabile. Dal male l'umanità deve camminare e cammina verso il bene: e l'opera più santa dell'ingegno, della volontà, della potenza dell'uomo è quella che concorre a redimere da siffatta tirannia del male la nostra grande famiglia. È questo il gran lavoro della democrazia; anzi la democrazia bene intesa non è che il risultamento, l'effettuarsi negli ordini politici, sociali e civili di quella successiva miglioria delle umane condizioni, come la libertà è l'ambiente necessario, senza cui quest'opera non può approdare. Nè la democrazia va confusa colle temerità comunistiche o cogli eccessi rivoluzionari, chè questi e quelle non sono di lei essenza, anzi il più spesso ne sono la negazione, e saltan fuori sempre per riagire contro la soverchia compressione di quegli interessi che, avendo il potere e vivendo dell'uso ed abuso delle istituzioni del passato, impediscono con tenace resistenza ogni rinnovamento, ogni miglioria. Il male terreno – come tutte le cose umane – ha in sè una gran parte di relativo. Perfino nella morale, intorno a qualche punto che forse s'impone assolutamente allo spirito dell'uomo, ondeggia una quantità di precetti e di principii che noi, a seconda del minore o maggiore sviluppo acquistato dal senso morale, o vediamo, o travediamo o non vediamo. Peggio è nelle istituzioni politiche e sociali. Il meno male di ieri è il male d'oggi, quello che è un vantaggio pel presente sarà un danno o un inciampo da torsi nell'avvenire. Codeste istituzioni sono alla società come gli abiti ad una persona che cresce: a misura che il suo corpo si ingrandisce le vesti diventano impacciose e non gli si adattan più, e se si continua a portarle si strappano, e conviene assolutamente rimutarle. Ora l'umanità è una gran persona che intellettualmente e moralmente cresce sempre e si sviluppa all'indefinito. Ecco il perchè di questa continua irriquietudine dei popoli che non possono lungamente stare immobili, costretti in una forma, la quale da principio loro si confaceva, e poi a poco a poco è divenuta e diviene loro sempre più disadatta.