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La plebe, parte IV

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– Il lavoro dell'umanità, disse allora il Re col suo indefinibile sorriso, è adunque nient'altro che un'interminabile tela di Penelope.

– No: riprese con vivacità Maurilio a cui la tensione della mente aveva tolto oramai ogni timidezza: no, perchè l'umanità non cessa mai, è vero, dal suo lavoro, ma pure non distrugge nè rende inutile quello del passato, nè se la prende da capo per rifarlo. Qualche cosa rimane sempre di acquistato al patrimonio umano, e sulle costruzioni delle epoche trascorse ogni epoca nuova viene ad aggiungere la sua per innalzare l'edificio della civiltà. È nè più nè meno che un'imitazione dell'opera della natura, è un necessario uniformarsi ad una legge universale di progresso che regola tutto l'universo. Anche la natura sembra aggirarsi in una vana e inconcludente ripetizione de' suoi fenomeni: la notte succede al giorno e il giorno succede alla notte, come la state al verno; ma frattanto con progresso, che a noi meschine creature limitatissime nel tempo torna d'incalcolabile lentezza, ma che forse in realtà è più rapido che non possiamo immaginare, viene scambiando la sua veste esteriore, la forma estrinseca del mondo, o, dirò meglio, dei mondi, di epoca geologica in epoca geologica, attuando un sempre diverso, e forse non è sacrilegio il dire un sempre più perfetto pensiero del Creatore. V. M. non ha bisogno ch'io le citi a rincalzo del mio argomento la storia per quanto riguarda le istituzioni umane. Dalla caduta dell'Impero romano soltanto, per quante forme non è passato il vivere civile dei popoli! Il feudalismo, poi i Comuni, poi i principati, poi le grandi monarchie di cui l'ultima espressione fu il temerario sogno di dominazione universale del Buonaparte. Sotto di lui cadde definitivamente l'antico diritto della forza ch'egli aveva voluto ristaurare valendosi della democrazia, la quale s'intromise nel mondo colla rivoluzione francese. Questa democrazia era pure già apparsa alle menti più acute di alcuni grandi uomini nei secoli precedenti: inavvertita in gran parte e non conosciuta, aveva ispirato gli scritti dei filosofi del secolo XVIII; ed anzi già aveva parlato colle utopie di qualche ingegno bizzarro che antiveniva i tempi, coll'audace spirito d'esame di Descartes, colle speculazioni di Leibnitz; aveva preparatosi il terreno colle tenebrose, in gran parte folli, ma in parte pur generose mene delle sêtte degl'illuminati e dei frammassoni; ma il suo primo penetrare nella realtà della vita, il suo passaggio nell'ordine dei fatti avvenne colla iperbolica e forse anco puerile dichiarazione dei diritti dell'uomo nella rivoluzione francese, si vestì di formola concreta nella sublime iscrizione di quella fatale repubblica: libertà, fraternità, uguaglianza. Questa formola è il riassunto fatto dal secolo progredito dello spirito del Vangelo: è la legge ed i profeti della democrazia.

«Ora l'attuarsi di questa democrazia, l'applicazione di questa formola ai fatti è l'opera che prepara il nostro secolo e che vedrà compiuta il venturo. Benemerito e benedetto da Dio e dagli uomini chi ci concorre e l'aiuta!..

S'interruppe come per prender fiato. Carlo Alberto, dall'ombra che gettava sulla sua fronte il coprilume, guardava fisamente la faccia che s'era animata, gli occhi che erano diventati brillanti del giovane plebeo. Era esso affatto nuovo cotal linguaggio a quelle orecchie di re? Certo che sì; ma forse non erano affatto nuove le idee che esprimeva. Forse nelle sue taciturne e solitarie meditazioni, vaghe forme di simili pensieri s'erano presentate alla sua mente curiosa ed inquieta, alla sua anima avida di fama, al suo spirito non salvo dall'influsso delle idee moderne. Egli era nato in quell'epoca appunto che simili principii facevano una sì violenta irruzione nel mondo antico della monarchia del privilegio e lo mandavano a catafascio; sua madre l'aveva portato in collo in mezzo alle turbe del popolo che si scuoteva al suono di quei tre motti meravigliosi ora ricordati da Maurilio: libertà, fraternità, uguaglianza, e li leggeva ad occhi larghi sulle cantonate senza pur capirli; non solamente un'ambizione di trono l'aveva spinto nel 1821 a farsi fautore d'un movimento che chiedeva al trono franchigie di vita politica e indipendenza dallo straniero. Le convinzioni leali e profonde d'un'anima generosa hanno pur sempre, quando si manifestano, un'efficacia, un fascino su chi le ode; e l'animo del re, non alieno alla nobile passione d'una fede, di una calda adesione ad un principio, non era avvezzo a sentire intorno a sè l'eloquente linguaggio d'uno spirito convinto, d'una strenua credenza. Provò per quell'audacia di parola che gli spiegava dinanzi i sogni d'una giovanile esaltazione, una strana simpatia. Fece un lieve atto che indicava avrebbe egli parlato e disse con voce contenuta, quasi sorda, ma che pur non mancava d'una certa armonia:

– Ma come avrebbe ella da tradursi in atto questa democrazia, di cui Ella mi vanta le glorie, la giustizia e la necessità? Colla libertà dei popoli; ma l'uomo è egli abbastanza progredito – ammettendo l'idea del progresso – per poter godere di questa libertà senza abusarne? Date libertà ai tristi, e se ne serviranno per far male. Ora, volendo pur anco credere con Lei che il male viene via scemando, siamo noi già in tal buona condizione che la maggioranza degli uomini non sia di tristi e di ignoranti facili a traviarsi? Diamo libertà a codestoro, e quali ne saranno gli effetti? Per venire all'applicazione d'un caso concreto, supponiamo che la Monarchia del Regno di Sardegna voglia modificare, o temperare il suo potere assoluto che ricevette dai secoli precedenti, crede Ella che i nostri popoli sieno abbastanza maturi per godere con vantaggio di politiche franchigie, di una diretta intromissione nella pubblica bisogna?

Maurilio interruppe con una vivezza che un cortigiano avrebbe trovata supremamente contraria all'etichetta.

– Maturi! maturi! Ma come si farà a decidere che un popolo è oramai maturo alle pubbliche libertà, se mai non gli si concede di fruirne. È lo esercizio delle medesime che deve maturarlo. D'altronde questo è un diritto sacrosanto dei popoli cui nulla può sospendere, e meno ancora togliere.

Il Re fece un movimento, ma il giovane non se ne accorse.

– La società, sotto il rispetto degl'interessi politici, deve ai suoi membri, non solamente l'indipendenza all'estero e la sicurezza all'interno, ma deve loro i mezzi di esplicazione d'ogni loro sentimento e capacità, deve permettere lo sviluppo in tutti i sensi della personalità individuale. Ora la parte politica è ella così poca cosa perchè si possa impunemente tagliar via dall'esistenza d'un individuo che ha diritto e dovere d'essere un cittadino nella sua patria? Per sapere amar questa a dovere, bisogna prendere una parte diretta agli affari del proprio paese. Interdire al popolo la vita politica, è un chiuderlo nella stretta cerchia dei bassi godimenti e delle preoccupazioni materiali; è un corromperlo e degradarlo.

– Che dice Ella mai? esclamò il Re con qualche maggior vibrazione d'accento. Il mio Governo sarebbe corruttore e degradatore?

– Si sforza a tutto potere di non esser tale, e si trova in una contraddizione che lo fa cader nell'assurdo. Più logica l'Austria, manifestamente favorisce la mollezza e direi anzi la scostumatezza dei suoi soggetti.

– Far partecipare al Governo il popolo! ma la è una utopia. Dove si vogliono impiantare delle Costituzioni liberali si crea una finzione: si costituisce quello che si chiama un paese legale, una strana oligarchia di elettori che col vero paese ha meno rapporti e meno compartecipazione d'interessi e di pensieri di quello che non abbia la monarchia qual è ora costituita.

– Vostra Maestà ha ragione; ma quelle forme costituzionali, anche come finzione, sono una guarentigia. E codesto che cosa prova? Che le libertà politiche devono essere le più ampie possibili; e inoltre che anche essendo tali non bastano ancora per se stesse a far felice e prospero un popolo, non contengono in sè compiutamente tutta l'attuazione del pensiero della democrazia. La politica corrisponde ad una parte – una gran parte, è vero, ma che pure non basta per sè sola a formare il tutto – dei bisogni, delle aspirazioni, dell'esplicamento dell'umana natura. No, tutta la vita d'un popolo non è costretta nel cerchio di quel preteso paese legale cui costituiscono gli abbienti, aggiungiamovi pur anche gl'istrutti; no, le classi cosidette liberali non hanno in alcun modo autorità di considerarsi come la rappresentanza legittima di tutto il corpo sociale. Ci sono altri interessi diversi ed anche in opposizione ai loro, che hanno diritto di aver la propria voce e il soddisfacimento. Tutti i cittadini hanno un diritto uguale ad intervenire, sotto l'una o l'altra forma, nell'amministrazione della cosa pubblica che tutti li riguarda: e se le masse popolari trovansi momentaneamente ridotte per ignoranza ad una sorta d'incapacità politica, è obbligo di tirarle al più presto possibile fuori di quello stato d'inferiorità e metterle in grado di esercitare i loro diritti con discernimento, in luogo di confiscarglieli ingiustamente. La democrazia non vuole la libertà solamente per una o più classi, ma per tutte.

Carlo Alberto si chinò verso il suo audace interlocutore.

– Ella vuole adunque il suffragio universale? E per far capace di esercitare questi suoi diritti la plebe ignorante, Ella vorrebbe – l'ho letto nelle sue pagine – l'istruzione obbligatoria?

– Sì: rispose quasi fieramente Maurilio. Voglio tutte le libertà, salvo quella dell'ignoranza. Perchè un uomo possa essere libero bisogna che sappia quel che si voglia. La plebe deve avere coscienza di se stessa e dei suoi diritti e dei suoi bisogni, mercè l'istruzione. Ella non può accettare la tutela delle classi colte se non in quanto queste si mostrano zelanti a fare il bene di lei: non può amare un governo se non riconosce in esso la volontà e la capacità di migliorare le condizioni in cui la si trova; bisogna che ella stessa sia posta in grado di concorrere, massimamente da sè, a redimere e migliorare se medesima.

 

Carlo Alberto tese una mano sul tappeto verde come a richiamare maggiormente l'attenzione del suo uditore.

– Se un re, disse lentamente, si decidesse a concedere al suo popolo una costituzione rappresentativa nella quale la proprietà e l'intelligenza fossero chiamate a concorrere alla legislazione del paese, secondo il suo parere, non sarebbe neppure abbastanza per rispondere alle esigenze della democrazia?

– No: rispose arditamente il giovane plebeo.

Il Re fece un moto tra di meraviglia, tra di scontento e ritrasse indietro la persona che aveva chinata verso la tavola.

Maurilio riprese con più modesto accento:

– Quel sovrano compirebbe certo un progresso, un evidente progresso, ma non soddisfarebbe a tutti i postulati del problema, non incarnerebbe tutto il concetto della democrazia. La libertà politica è una gran cosa, ma non è la sola, e limitata a certe classi di persone lascia all'infuori una turba di scontenti che si prepara esca al fuoco della rivoluzione. Si ha bisogno di libertà di credenze eziandio, di libertà commerciale, di libertà amministrativa. È necessario effettuare anche gli altri due termini: fraternità ed uguaglianza, e per ciò occorrono modificazioni nell'assetto sociale.

– La fraternità ce l'insegna la nostra santa religione e si traduce nei fatti colle opere della beneficenza. L'uguaglianza è una cosa impossibile, perchè sarà impossibile sempre che non vi sieno ricchi e poveri, virtuosi e disonesti, laboriosi e faciniente.

– La carità, virtù sublime, non è che un rimedio empirico ai mali sociali: deve di tanto scambiarsi a poco a poco il mondo che non vi sia bisogno più che uno ne abbia d'uopo e che altri l'eserciti. L'uguaglianza che vuole la democrazia non è un'uguaglianza, veramente impossibile, di condizioni materiali, ma l'uguaglianza di diritti, uguaglianza di libertà nello sviluppo di ciascuna personalità, uguaglianza d'istruzione fondamentale. Non vi ha inuguaglianza sociale perchè uno sia ricco e l'altro povero, ma perchè questo è ignorante e quello istrutto; e qualunque rivoluzione si faccia se non si comincia da questa base fondamentale, vi sarà sempre disparità fra gli uomini ed ingiustizia nei rapporti sociali, perchè colui che non sa nulla non potrà esser mai l'uguale di chi sa qualche cosa. Dare a ciascuno cognizioni sufficienti perchè possa trar profitto delle sue facoltà, regolare le proprie faccende e comprendere i veri interessi della patria, ecco la vera uguaglianza. Fra uomini condotti a tal punto la ricchezza non importa: sono tutti pari.

– Ella farebbe dunque dello Stato un insegnante universale che desse a forza l'istruzione a tutti i suoi cittadini?

– No. Lo Stato io vorrei anzi che facesse il meno possibile in ogni cosa. Lo scopo dell'ordine sociale è lo sviluppo il più completo delle facoltà dell'individuo, quindi il potere dello Stato deve necessariamente essere ristretto in limiti definiti: e quanto più cesserà l'azione di questo, tanto meglio avrà luogo l'azione dell'individuo. La formola del mondo politico antico era falsa e va compiutamente rovesciata. Non è l'individuo che sia fatto per lo Stato, ma è lo Stato che esiste per la maggiore felicità dell'individuo. Assicurare a ciascuno dei membri della società il più alto perfezionamento morale, intellettuale e fisico che permetta la sua natura, ecco la funzione dello Stato, ecco la cagione per cui gli uomini si associano. In questa bisogna dell'istruzione lo Stato, per dir meglio la legge, dovrebbe volere ad ogni modo che i cittadini fossero istrutti, ma dovrebbe in pari tempo lasciare che insegnasse chiunque volesse…

– E se s'insegna il male?

– I padri di famiglia sono essi tali da volere che i loro figli sieno allevati nel male?

– Ma sono essi giudici capaci di discernerlo questo male?

– Meglio che lo Stato. Saranno pochi fors'anco al presente gli uomini illuminati che conoscano il vero, ma saranno sempre più illuminati che gli agenti del Governo, e sopratutto sono più vicini al luogo in cui l'insegnamento s'impartisce, ai maestri ed ai discepoli, che non il governo centrale. Il giudizio di costoro aiutato dalla libertà di parola e di stampa sarà la migliore delle guarentigie.

– Le innovazioni sono sempre pericolose, qualche volta tremende; quanto meno vanno fatte poco a poco chi non voglia mettere a soqquadro tutta la società. Il passato ha pure piantato nella compage sociale le sue radici e se vogliasi svellerlo improvvisamente qual turbamento non ne accade!.. Nelle innovazioni ch'Ella vagheggia, io veggo la morte dell'ordine vigente e successore il caos.

– Questo mondo non è un luogo di riposo in cui la società si possa addormentar nella quietudine. La vita è una lotta; l'umanità sta compiendo senza interruzioni un dramma indefinito. Impedite, indugiate, cercate di soffocare il moto; l'atto si conchiuderà con una catastrofe. Certo è sovente pericoloso l'innovare, ma noi siamo in tempi in cui è più pericoloso ancora il volere star fermi alle forme antiche. Il passato non ha più abbarbicato le sue radici che alla superficie; nell'intimo della compage sociale le sono tutte assecchite. Esso ebbe certo i suoi momenti di gloria e di grandezza, ma il più spesso fu cagione ai popoli di crudeli patimenti, e i popoli hanno deliberatamente fatto divorzio da lui. Sarebbe vano sperare che si possano ancora quietare in quelle viete forme. Bisogna adunque necessariamente innovare. La riforma politica non basta, ci vuole la riforma sociale o dirò meglio economica. Nella sommossa d'operai che ebbe luogo qui stesso, nella quieta e, diciamolo pure, indietrata Torino, la politica non ci entrava per nulla. Non fu nè lo spirito di nazionalità, nè l'aspirazione a franchigie costituzionali che non capiscono, a movere quella turba, fu il disagio materiale, una sofferenza economica, fu la fame. Sia pure che alcuni abbiano approfittato per altri fini dello sdegno di quegl'ignoranti, ma le cagioni di quello sdegno esistono e non saranno i cannoni nè le carceri che le toglieranno.

Qui il giovane s'interruppe, quasi dubbioso finalmente di dir troppo e di parlare con audacia soverchia: ma il Re gli fece un cenno benevolo perchè continuasse.

– Avanti, avanti: disse. Siamo appunto a quell'argomento che più mi premeva udir trattare da Lei colle sue idee.

Maurilio si passò la destra sulla fronte come per condensarvi ancora meglio i pensieri che vi pullulavano, e dopo un istante seguitò il suo discorso.

– La nuova direzione che hanno preso gli spiriti moderni, cui col loro meraviglioso istinto travedono inconsciamente anche le masse, è contraddistinta da due speciali caratteri. Uno è la soppressione di ogni privilegio, val quanto dire quella uguaglianza di cui parlavo testè, la quale nella sua formola più elevata non riconosce altra differenza fra gli uomini che quella derivante dalle virtù personali e dalla capacità provata coi servizi resi alla civile comunanza; l'altro è la libertà, val quanto dire il diritto riconosciuto a ciascuno di svolgere le proprie facoltà e di farne quell'uso che crede migliore pel vantaggio delle società e pel suo particolare. La libertà ha quindi tante forme quanti vi hanno modi diversi nella capacità dell'uomo, quanti vi hanno ordini di facoltà. Havvi dunque la libertà religiosa la prima di tutte, perchè è la suprema consecrazione dell'affrancamento del pensiero; la libertà politica che si esercita sia coll'intervento de' popoli nel loro proprio governo per mezzo de' loro rappresentanti che determinino l'imposta, misurino le pubbliche spese e facciano le leggi, sia per mezzo della facoltà di esprimere e pubblicare le proprie opinioni; vi ha la libertà del Comune, per cui ciascuna delle piccole agglomerazioni d'individui che costituiscono questo primo e più naturale nucleo sociale del municipio possa provvedere a se stessa, ai proprii interessi, di cui è giudice meglio acconcia dello Stato; havvi infine la libertà del lavoro, libertà naturale, cui pur tuttavia i Governi hanno poco saggiamente impedita con regolamenti, paralizzata con monopolii e schiacciata sotto il peso delle tasse. La libertà del lavoro implica necessariamente la libertà dell'associazione industriale; questa di associarsi essendo l'uso che l'uomo è più facilmente spinto a fare della sua libertà.

«L'associazione è una forma non dirò novella, ma rinnovellata dall'attività dello spirito moderno. È una leva taumaturga in mano ai santi principii della democrazia, che muterà faccia al mondo. Associazione industriale di capitali per giungere a forza maggiore di produttività; associazione fraterna, quasi direi cristiana, di salarii per dare all'operaio la sicurezza dell'avvenire e la dignità della vita presente, il pane della vecchiaia e il miglioramento materiale delle sue condizioni; associazione del capitale e del lavoro, i due gran fattori della ricchezza nazionale, per ottenere il comune accordo, il comune vantaggio, cessando un fatale ed illogico antagonismo.

«L'associazione permette ad un'accolta d'individui, isolatamente deboli, di avere una grande potenza. L'idea di associarsi è un'idea sana, perchè proviene da uno dei sentimenti più profondi e più speciali nell'uomo; è il principio della solidarietà, principio essenzialmente umano, essenzialmente cristiano, fruttuosamente applicato e sancito. Per questo mezzo gli operai possono unirsi affine di produrre essi stessi, esercitare un'industria, una manifattura, possono provvedere al mantenimento loro con meno costo di spesa, procurarsi alloggi, vitto, istruzione a miglior mercato, possono cambiare i loro risparmi in capitali che loro dieno sempre crescente interesse. L'associazione fra capitale e lavoro, quella che fa partecipare ai benefizi del principale l'operaio, sorride al mio pensiero come la più acconcia a metter pace fra il possidente ed il proletario, a far sparire quest'ultimo, ad accrescere il benessere del lavoratore. Il povero e l'ignorante cesserebbero d'esistere, e con essi molti dei delitti cui procurano l'abbiezione dello spirito e la miseria. Quel sovrano che procurasse al suo popolo cotal pacifico rivolgimento, sarebbe più grande di Cesare e di Alessandro, meriterebbe l'entusiasmo dei presenti e dei posteri più che la sanguinosa gloria di Napoleone.

Carlo Alberto guardava sempre fiso il giovane democratico che parlava con calda eloquenza cui la nostra fredda e povera prosa non valse menomamente a ritrarre, mentre dagli occhi, quasi direi dalla fronte eziandio, uscivano fiamme. La faccia del Re rimaneva impassibile; ma in fondo in fondo alle pupille, dietro la velatura abituale del suo sguardo, si sarebbe pur detto che alcuna favilla si rifletteva di quel fuoco che divampava nell'anima e nelle parole del giovane. Alla intelligenza nobilmente ambiziosa di quel discendente di monarchi, appariva come una terra promessa di splendore e di gloria rivelatagli dall'entusiastico discorso del giovane plebeo. Egli vi si affacciava e rimaneva affascinato e spaventato in una dalla splendida visione, e sentiva un impulso di effettuare quell'apparsagli chimera, e gli pareva pregustare la dolcezza di applausi infiniti di tutto un popolo fatto felice, di tutta una società rinnovellata.

Ma dopo un poco il Re scosse la testa e disse colla sua voce senza vibrazione e col suo accento quasi melanconico:

– Ma queste sono idee generali, vaghe come le fantasie d'un sognatore che non si trovò mai alla pratica delle cose. Come farebbe Ella se avesse da tradurre in atto cotali suoi principii?

– È il fatto di poche leggi. Una che renda più libera e più mobile e quindi più accessibile che si possa la proprietà. V. M. ha già fatto molto a questo riguardo nel suo Codice civile: bisognerebbe spingersi più in là, e forse non di un solo passo. Un'altra legge che rendesse obbligatoria l'istruzione affidandola ai Comuni; e compagna a questa la legge che desse la più ampia libertà ai Comuni medesimi ed alle Provincie. La legge quindi che permettesse le associazioni; e per ultimo una politica costituzione rappresentativa.

– E se il popolo abusasse di tutte queste cose? domandò il Re fissando sempre il suo sguardo sul volto del giovane.

– Ne abuserà di certo: rispose questi francamente: finchè dall'abuso abbia appunto imparato il modo di servirsene a dovere. Si tenga un uomo per anni ed anni legato sopra una seggiola senza lasciarlo muovere, e poi lo si liberi: è certo che nei primi passi che farà camminando, egli traballerà…

– Gli sarà dunque mestieri d'un sostegno.

– Sostegno al popolo saranno l'autorità della legge e l'azione del governo che colle nostre abitudini sarà per molto tempo fin troppa.

Carlo Alberto sviò gli occhi da quelli di Maurilio, chinò la fronte nell'ombra e si tacque. Rimasero ambidue per alcuni minuti in silenzio: poscia il giovane si appoggiò con audace famigliarità alla tavola ed abbassando alquanto la voce, riprese a parlare.

 

– E di questa guisa si redimerebbe eziandio da ogni influsso straniero l'Italia.

Il Re si scosse leggermente, sollevò un istante le palpebre, ma tornò ad abbassarle senza far motto.

– Simili riforme, continuava Maurilio, compite da V. M. nei proprii Stati, richiederebbero di necessità le uguali nelle altre regioni italiane. Per quanto si faccia a tenerle divise, le parti della Penisola sono oramai, più che materialmente, moralmente unite da un comune concetto che è un comune bisogno. Un progresso in una italica provincia si ripercote in tutte le altre, crea la necessità d'imitarlo in tutti i governi. V. M. facendo del Piemonte un modello di Stato libero e colto alla moderna, trarrà a forza con sè, dietro sè, tutti i Principi e i popoli d'Italia. E allora l'Italia avrà una forza reale e superiore ad opporre all'Austria.

A questo nome Carlo Alberto fece un moto come se volesse interrompere; ma quel moto lasciò a metà e permise il giovane continuasse.

– Non è coll'armi, almeno per ora, e se un miracoloso caso non intravviene, che l'Italia possa mai combattere il suo eterno nemico: bisogna vincerlo colla civiltà. Più delle baionette valgono in questa lotta le idee, e bisogna colla istruzione spargere e fecondare le migliori e più sane idee nel popolo italiano, affine di prepararlo e guidarlo ad una supremazia morale ed intellettuale, la quale si convertirà necessariamente anche in politica ed economica. Conviene che non c'illudiamo sulla vera condizione delle cose. Una nazione non soggiace ad un'altra, se non perchè questa seconda val più della prima intellettualmente e moralmente: e ciò sopratutto nell'evo moderno. Una volta era la sola forza materiale che dava il primato; ora la forza materiale non ha valore se non si rincalza con quella del sapere. Noi Italiani abbiamo il coraggio di dircela questa verità, soggiaciamo a dominio straniero, perchè la razza germanica, un governo rappresentante della quale ci tiene soggetti, è più innanzi di noi nella via del progresso, nell'istruzione, nel lavoro, nel sentimento del dovere, nella moralità. Facciamo di passarle innanzi noi, prepariamo delle generazioni più colte ed oneste, ed avremo procacciata, se non la nostra, la redenzione dei nostri figliuoli. Sarà forse necessaria anche allora una lotta materiale; ma avvenendo questa quando la gara nella coltura sia già vinta, sarà più facile e più sicura la vittoria.

Carlo Alberto rialzò il capo e fece vedere quel suo misterioso sorriso.

– Le sue sono idee generose, ma quanto sieno attuabili conoscerà fra qualche anno, allorchè l'età abbia di meglio maturata la sua mente. Ella è molto giovane, e del quesito così complesso non abbraccia tutte le parti, e della libertà e de' suoi effetti ha concetto non esatto e cui smentiscono le storie. La consiglio a riflettere e studiare, e valersi dei lumi e della molta esperienza di colui che la sua fortuna le volle dare per zio, l'egregio marchese di Baldissero, nostro fedele e benemerito ministro.

Maurilio avrebbe avuto mille cose da rispondere ancora: il suo concetto della libertà avrebbe voluto spiegare e confermare coll'esempio degli Stati Uniti d'America; ma l'accento del Re mostrava che il colloquio doveva finire; si alzò e stette in piedi presso la tavola in mossa rispettosa di attesa. Carlo Alberto prese lo scartafaccio del giovane che gli stava innanzi e glie lo porse.

– Eccole il suo scritto. Lo rinchiuda nel suo scrigno ed aspetti a leggerlo fra cinque o sei anni. Vedrà allora che ben diversi giudizi porterà sulle cose e sugli uomini.

Fece un cenno di capo che era un congedo; e Maurilio, preso con mano sollecita il suo quaderno, s'inchinò ed uscì, il capo confuso e il passo barcollante. Nella camera vicina ritrovò il marchese che lo attendeva. S'avviarono senza dirsi una parola, salirono nella carrozza che stava sul viale, e furono ricondotti al palazzo. Maurilio si teneva il viso nelle mani e respirava con alito affannoso. Il marchese ad un punto discretamente volle mettere il discorso sul colloquio avuto col Re.

– Non so, non so più nulla: rispose con impeto il giovane. Credo che nella mia mente s'è dileguata per un'istante la nebbia. Ora è tornata più cupa ed opaca di prima.

Il Re aveva seguìto col suo sguardo il giovane liberale che partivasi da lui. Ne' suoi occhi c'era un interessamento benevolo. Quando fu solo, s'alzò e si mise a passeggiare lentamente, con passo che pareva quasi guardingo, sul tappeto della camera.

– Gioventù, gioventù! mormorava egli fra se stesso. Credono poter da un giorno all'altro cambiar faccia al mondo. Quelle riforme sarebbero la negazione del Governo: sarebbero il suicidio della monarchia. Riforme!.. E l'Austria me ne lascierebbe compire?.. Ha ragione. Bisogna rendersi superiori d'animo e di mente ai Tedeschi: ed è appunto quello che Vienna non permetterà mai.

S'accostò al camino, posò il gomito alla tavola di marmo e chinando la sua alta persona, guardò il fuoco, come se in quella fiamma ed in quelle braci gli apparissero chi sa quali visioni.

E strane visioni gli si spiegavano veramente dinanzi. Vide campi biondi per messi abbondanti, e lieti villici lavorare allegramente cantando; vide officine piene del gaio tumulto del lavoro, e magazzini riboccanti di merci, e battelli a vapore sul mare, e treni di ferrovie per terra spargere in ogni dove prodotti e ricchezza; vide città e villaggi puliti, ordinati, tranquilli, e scuole piene di giovani e di bambini, e chiese piene di fedeli; vide un popolo, onesto, laborioso, agiato e in mezzo un uomo dalle sembianze modeste passare con un sorriso paterno, accompagnato dalle benedizioni di tutti: ed una voce gli pronunziava all'orecchio le seguenti parole: «la gloria di Washington.»

Poi un'altra visione succedeva. Erano campi di guerra in cui dominava la strage. Tutto un popolo che sorgeva infiammato da patrio fervore ed accorreva in armi sotto una bandiera in cui splendeva una bianca croce, quella di Savoia; schiere di prodi che si precipitavano impetuosi contro le fitte falangi, contro i baluardi del nemico oppressore; una pioggia di palle, una tempesta di fuoco, un orribile avvolgimento di morte, e in mezzo a questo turbinio spaventoso un uomo più alto di tutti, a capo di tutti, che, la spada imbrandita, il coraggio negli sguardi, si slanciava dove più forte il pericolo a strappar la vittoria; e un lungo, sonorissimo plauso d'esercito e di popoli, e un'eco imperitura nelle pagine degli annali umani.

– O l'una o l'altra di queste glorie; si disse con un'interna concitazione cui non nascondeva compiutamente la freddezza abituale delle sue sembianze.

Alla sua fantasia di re guerriero, discendente da principi guerrieri, sorrideva maggiormente la gloria del guerriero. Un altro pensiero venne a farlo sorridere a quel suo modo misterioso. Oh vedere umiliata dalla sconfitta l'Austria, che lui aveva umiliato coll'oltraggio ed umiliava tuttavia col sospetto!

– O l'una o l'altra di tali glorie, ripetè; e perchè non tuttedue?

Sollevò il capo. Nell'alto specchio vide la sua pallida fronte e la sua scarna faccia, che sembravano, nell'ombra mandata dalla ventola, la faccia e la fronte d'uno spettro. Si trasse per moto istintivo indietro d'un passo, vide ad un tratto tutti gli orrori della guerra: morti e morenti, e saccheggi ed incendi e rovine. Si passò la mano sulla fronte, deviò lo sguardo dallo specchio e disse curvando il capo: