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La plebe, parte IV

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– Sia quello che vuole il nostro Signore Iddio!

CAPITOLO XI

Una strana notte fu quella che passò Maurilio. Non dormì e non fu sveglio; non ebbe sogni e le più matte immagini di chimere danzarono nella sua turbata fantasia. Il povero villaggio in cui era stato allevato e le sontuosità cittadine, il fienile in cui bambino aveva tremato del freddo e la camera in cui aveva parlato al Re, la modesta pulita stanzina in cui gli faceva scuola il parroco e lo studio severo del marchese, Menico e la Giovanna, Nariccia e il signor Defasi, Don Venanzio e il marchese, Francesco Benda e gli altri amici suoi, e Carlo Alberto, e il Commissario di Polizia, e Stracciaferro e Graffigna suoi antichi compagni di carcere passavano e ripassavano innanzi alla sua mente in una confusione di scene senza senso e senza nesso che s'avvicendavano, sparivano, tornavano, si interrompevano, si ripigliavano con un tormentoso brulichio del cervello.

In quel disordine predominavano, affacciandosi di quando in quando, due figure: una quella della splendida bellezza di Virginia che gettava su quel caosse il raggio d'un suo sorriso provocatore; l'altra quella di Gian-Luigi che appariva tratto tratto con un aspetto mefistofelico a far suonare in quel tumulto un ghigno di scherno. Virginia, nè pure il più pazzamente audace de' suoi sogni avuti fino allora non glie l'aveva mostrata mai di quella guisa. La gli veniva dinanzi disciolte le chiome d'oro, sparse sull'eburneo seno trasparente fra il velo di seta che le facevano quegli abbandonati capelli; la si chinava verso di lui dal piedistallo di nubi rosate sopra cui s'ergeva oltre la comune altezza dei mortali: gli lanciava nel volto, negli occhi, nel cervello, nel cuore un sorriso d'indefinibile procacia, un sorriso di seduttrice, un sorriso di donna tocca dal dito impuro d'Asmodeo, ed una voce vibrante come un acuto stromento metallico gli diceva: «Amami, amami, fammi tua.» E la vaga forma gli protendeva le braccia e coll'influsso del suo sguardo non umano lo attraeva a sè così che a lui pareva esser levato nell'aria, ed accostarsi, accostarsi la sua bocca desiosa a quella bocca di sì desiato riso: ma quando già erano per toccarsi le labbra frementi, quando già si fondevano l'una nell'altra le fiamme dei vividi sguardi, ecco una voce di rampogna tremenda gridargli all'orecchio: «Empio! è tua sorella.» Ed egli ricadeva di botto con dolorosa scossa sul suo letto, come un Titano fulminato dalla soglia dell'Olimpo alle rupi della terra; e tutto gli si scombuiava dinanzi, e perdeva ogni coscienza di pensiero per non conservar più che un senso indefinito, vago, ma profondo, d'inenarrabile dolore.

Poi nella notte tenebrosa della sua mente ricominciavano da capo a disegnarsi incertamente delle forme che via via, man mano prendevano più corpo e venivano a sfilargli dinanzi in una processione che gli rappresentava frammisti, intralciati i fatti del suo passato, le vicende mirabili del presente, e le possibili avventure del futuro. Allora veniva poco a poco architettandosi un romanzo impossibile di successi della sua vita ambiziosamente lieti; gli si veniva disegnando dinanzi un quadro di grandi e nobili venture delle quali egli era il benemerito eroe, finchè di dietro in quella tela dava del capo e la sfondava apparendo con uno scroscio di cachinno una figura ironica e beffarda, quella di Gian-Luigi, che gli gridava con accento fra la collera, la compassione e il disprezzo:

– Imbecille! Non t'accorgi tu che tutto questo è un sogno? Tu saresti un discendente di nobile prosapia, ed io sempre un miserabile bastardo d'ignoti genitori? Eh via! È impossibile. Metti l'animo in pace, e torna a nasconderti nella tua nullità.

L'alba tardiva della giornata invernale rompeva le tenebre della notte, e la mente di Maurilio, stanca di questa sequela di febbrili visioni, era caduta in un torpore che non era riposo, ma che era pure una sospensione da quello strano e doloroso travaglio. Giacque inerte per alcun tempo, senza più idee, senza propositi, senza pensieri. Pur due immagini vegliavano ancora, per così dire, benchè non avvertite, in fondo a quella nebbia dell'intelligenza; e quando il giovane aprì gli occhi alla luce del giorno, che s'era fatto pieno, e tornò nella precisa cognizione di sè, le trovò ambedue chiare e spiccate, ma ora nell'essere loro naturale presentarglisi come due doveri da compiere. Bisognava fuggire Virginia, almeno per alcun tempo, finchè la forza della volontà fortemente impiegata avesse sostituito l'affetto fraterno a quella ora scellerata passione d'amore; conveniva apprendere al suo compagno d'infanzia e di sorte la ventura del suo destino. Ad ottenere il primo scopo già aveva deciso partire quella stessa mattina con Don Venanzio, e presane licenza dallo zio; per la seconda cosa da farsi determinò andare senza indugio a narrare ogni cosa a Gian-Luigi.

Questi riposava ancora nel suo letto sontuoso nella camera elegantissima del suo ricco quartiere. Maurilio insistette presso il servitore così che ottenne il suo nome fosse annunziato tuttavia al padrone, il quale diede ordine il mattiniero visitatore fosse tosto introdotto.

Marullo aprì le imposte della finestra, fece passare il giovane e si ritirò.

Gian-Luigi si sollevò alquanto della persona in mezzo al candore delle sue finissime lenzuola, puntando il gomito sui cuscini, e collo sguardo curioso più che colla parola interrogò il compagno.

– Tu a quest'ora? disse. C'è egli qualche cosa di nuovo?

Maurilio, senza parlare, fece col capo un grave cenno di sì.

– Oh, oh! esclamò Quercia, balzando sul letto, il tuo viso mi annunzia che non le sono bazzecole. Da coricato non sono capace d'ascoltar cose gravi. Aspetta un momento che salto giù e in un attimo sono preparato a darti udienza. Siedi costì presso al fuoco e prendi un sigaro, se ti piace fumare.

Il visitatore rifiutò con atto cortese, s'accostò al camino e volgendo al fuoco le spalle stette in piedi ad aspettare, mentre il suo sguardo esaminava non senza curiosità le signorili suppellettili di quella stanza. Il letto era incortinato di seta, di velluto finissimo eran ricoperte le seggiole, di Persia era il tappeto sul pavimento, di legno d'India erano i mobili intarsiati con belli ornamenti ed adorni di fregi di metallo indorato: l'orologio a pendolo era un amorino d'oro che faceva all'altalena sopra un cespuglio di rose smaltate: sopra la pietra di marmo del comodino stavano due pistole di bella fattura ricchissimamente adorne d'argento niellato.

Gian-Luigi che si aggiustava il goletto della camicia innanzi all'alta spera fino a terra dell'armadio d'un bel lavoro di scorniciature e d'intaglio, vide entro lo specchio lo sguardo che Maurilio posò e tenne fermo su quell'armi. Si volse indietro e gli disse:

– Ah ah! tu guardi que' gingilli eh? Prendili in mano ed esaminali, se ti piace questa fatta lavori. E' sono un certo arnese che diventano ormai indispensabili, chi vuol pararsi contro ogni pericolo.

– È vero: rispose sbadatamente Maurilio che poco metteva attenzione a questi discorsi indifferenti; e l'assassinio di quel povero Nariccia è cosa da mettere in apprensione qualunque.

Quercia si volse subitamente in là, e non parlò più. In pochi minuti però ebbe finito di vestirsi, e serrandosi ai lombi i cordoni di seta d'una veste da camera di lana finissima foderata di raso celeste, venne a sedersi presso il fuoco in una poltrona a sdraio.

– Eccomi a te, disse allora. Siedi o sta ritto, come ti piace, e parla… Ma forse ch'io indovino la cagione della tua venuta. Tu hai pensato di meglio alle parole ch'io ti dissi pochi giorni sono, e sei venuto a modificare la risposta che allora tu mi hai data.

Maurilio scosse lentamente la testa.

– No: rispose. Sono venuto ad apprenderti una grande e strana fortuna che mi tocca: sì grande e sì strana che non posso crederci ancora.

Si chinò verso il suo uditore e colle più brevi parole che gli fu possibile, concitatamente gli raccontò tutto quello che gli era avvenuto.

Gian-Luigi, al primo annunzio di quel fatto, aveva mandato un'esclamazione e dato un trabalzo. Poi la sua faccia aveva presa un'aria d'incredulità che assai si accostava a quella beffa ironica, cui nelle fantasie della sua notte Maurilio aveva visto all'immagine di lui; quindi, mentre l'espositore più e più veniva narrando ed adducendo le prove e certificando l'avvenuto riconoscimento, quell'espressione s'era scambiata a poco a poco in un'altra ancora meno benevola e niente soddisfatta. Lo sguardo nero di Gian-Luigi stava fisso con niquitosa intentività sulla faccia del parlatore: v'erano lampi d'odio e d'invidia, vi appariva una voglia intensa e sterminata che tutto ciò non fosse vero: ad un punto quello sguardo divenne quello con cui un derubato perseguita e rampogna il rapitore del suo bene: esso pareva voler dire: «Sciagurato! quello era mio destino, quella avrebbe dovuta essere mia ventura, e tu me l'hai rapita.»

Vedevasi che i suoi sentimenti erano sì forti che egli non pensava nemmeno più a nasconderli. Maurilio se ne sentì una pena, un'amarezza, quasi uno spavento entrargli nell'anima. Finì precipitosamente il suo discorso, quasi impacciato, quasi vergognoso di sè, e chinò gli occhi poco meno che un reo dopo aver confessato la sua colpa. Gian-Luigi anche lui aveva chinato gli occhi; era divenuto pallido e ombre indefinibili venivano e andavano sulla sua bella fronte. A un tratto, senza pure una parola, s'alzò, incrociò le braccia al petto e fece due o tre giri per la stanza a capo chino. Poscia si fermò improvviso; allentò il nodo delle braccia e le lasciò cadere lungo la persona, sollevò la testa e si riscosse come per farsi cadere di dosso il peso d'un uggioso pensiero; illuminò la sua leggiadra faccia d'uno dei più graziosi suoi sorrisi.

Venne presso a Maurilio e con mossa cordialissima gli tese la destra.

 

– La tua felice ventura, diss'egli, lo confesso, per primo ha trovato in me un invidioso. Tutti abbiamo più o meno un demone interno che alla felicità del nostro fratello si adonta perchè la non è toccata a noi. A te dunque l'effettuazione delle più care speranze… a me nulla. Io non mi potrò dunque trar mai dall'ignobile condizione di trovatello che nascondo come una vergogna. Non verrà la fortuna ad aprirmi a due battenti la porta del mondo legale, nè varrà mai la mia attività e la mia ambizione a sfondarle con prepotente successo… Condannato a perire, peggio che nell'oscurità, nell'ignominia.

Maurilio protestò con un'esclamazione contro la verità di queste ultime desolate parole; Luigi atteggiò le labbra ad un misterioso, amarissimo sorriso.

– Sarà così: riprese. Sii tu almeno felice! Tu hai cervello e polsi da stare in mezzo ai leoni; poichè la sorte vi ti caccia, sappiti farvi il tuo luogo e la tua parte.

Si passò la destra, che aveva tolta più fredda che un pezzo di marmo da quella di Maurilio, sulla fronte come per iscacciarne l'ultima ombra di turbamento e di mestizia.

– Che pensi tu di fare?

– Non so: rispose con voce appena da udirsi Maurilio, la cui mente pareva ad un tratto sviata a tutt'altri pensieri.

– Non sai? esclamò Gian-Luigi. Ecco sempre i soliti giuochi di quel demone dell'azzardo! I suoi favori cascano su quelli che sono impreparati a riceverli… Ah! se io fossi a luogo tuo!..

S'interruppe e tornò a fare alcuni giri per la stanza; poi venne in faccia a Maurilio che stava sempre in piedi presso il camino e gli pose le due mani sulle spalle.

– Ho sperato anch'io potere un dì rivendicare come miei un nome ed una famiglia… Pochi giorni sono mi venne in mano quasi un bandolo della matassa…

– Come! in che modo? chiese con interesse Maurilio richiamato dagli atti del compagno a fare attenzione alle parole di lui.

Ma un ratto annuvolamento ebbe luogo sul volto di Quercia.

– Eh! appena colto il bandolo mi si è strappato di mano… Oh chi potesse trovar modo d'andare a chiamare il suo segreto ad un cadavere!..

Maurilio che conosceva l'esistenza dello squarcio di lettera stato trovato su Gian-Luigi quando raccolto nella ruota degli esposti, gli domandò se quella fugace speranza si era annodata a quel pezzo di carta.

– Sì, rispose Quercia: ma non ti posso dire di più.

– Lasciami ancora vedere quel foglio: disse Maurilio come per una subita ispirazione.

Gian-Luigi esitò un momento, e poi andò ad uno stipo dicendo:

– Sì, vo' mostrartelo.

Gian-Luigi non trasse fuor dello stipo un solo fogliolino, ma due: e tornando presso Maurilio cominciò a porgergliene uno. Era quello trovatogli nelle fascie: la metà d'una lettera di poche righe stracciata per lo lungo. Le parole che vi si leggevano non presentavano senso veruno, nè contenevano alcun nome od altra indicazione che valesse a far congetturare in modo anche lontano d'onde e da chi provenisse quello scritto: si vedeva che appositamente era stato scelto quel biglietto indifferentissimo perchè chi lo avesse in mano di quanti non ne conoscessero la calligrafia, non potesse ricavarne il menomo indizio di chi avesse potuto esserne l'autore. Però parecchi squarci di frase avevano colpito Gian-Luigi, ora che aveva riletto e riesaminato le cento volte quel pezzo di carta dopo che gli era capitato in mano quell'altra letterina della medesima scrittura che trovavasi nello scrigno di Nariccia. Capivasi che quel bigliettino lacerato era stato scritto per dar commissioni frettolose e concise a qualcheduno; ed a quelle parole che prima non avevano significato, tenendo presente quell'altro bigliettino, se ne poteva ora facilmente attribuir uno.

Nella carta lacerata che era la metà di destra del fogliolino si leggeva:

-all'ora che v'ho già indi-

–zione perchè nulla trapeli

–il mio indirizzo e voi tosto

–qui dopo la nostra partenza.

–Quanto alle somme deposita-

–scritto, rimangano presso di voi

–cisione.

Nel biglietto trovato appo Nariccia, leggevasi:

«Essa si è finalmente decisa. Lo stato in cui si trova non ammetteva più indugi. Partiremo domani. Preparatemi una quindicina di mila lire; per ora mi bastano; il resto delle somme lascio ancora presso di voi, e vi prego di ritenerle alle medesime condizioni: chè per l'avvenire poi…»

E qui era interrotto, perchè la fiamma aveva divorato il resto.

Era evidente una correlazione fra quei due biglietti, e il cenno di somme depositate presso colui al quale erano scritti e l'uno e l'altro, indicava che erano indirizzati alla medesima persona. Ora questa persona non poteva essere altri, a senno di Gian-Luigi, che Nariccia, presso il quale la seconda di tali lettere era stata ritrovata. Nariccia adunque era in grado di sapere il segreto della nascita di quel bambino al quale, esponendolo, era stata posta come contrassegno di riconoscimento la lettera stracciata: ed egli stesso, Gian-Luigi, quel labbro che poteva rivelargli il suo destino aveva reso mutolo per sempre; imperocchè, informatosi per vie indirette, ma con molta premura, dello stato della sua vittima, l'assassino aveva appreso che perduta aveva con ogni movibilità la facoltà di parlare, e che il medico aveva dichiarato impossibile potesse riacquistarla durante que' pochi giorni che sarebbero rimasti da vivere all'assassinato. Il medichino trovavasi quindi in una strana condizione. Suo interesse immediato era che l'usuraio morisse mutolo e presto: ma il pensare che seco egli portasse il mistero del suo essere eragli pure tormentoso pensiero. Oh! s'egli avesse potuto entrare solo in quella camera dove il vecchio giaceva, richiamarlo un istante alla pienezza delle sue facoltà, strappargli il suo segreto, le prove che forse egli ne aveva, e poi ripiombarlo nell'ombre della morte in cui s'affondava a poco a poco!..

Maurilio esaminò attentamente quel foglio lacero che più volte aveva già visto ancor egli e lo confrontò con quel secondo che Gian-Luigi gli porse eziandio di poi, ed egli pure ne conchiuse ciò che già aveva conchiuso Gian-Luigi medesimo: che quelle due scritture erano state vergate dalla stessa mano e che le erano indirizzate alla medesima persona.

– Io dunque non mi sbaglio? domandò Gian-Luigi, che desiderava ardentemente vedere le sue indicazioni confermate da un osservatore indifferente alla questione, e non facile perciò ad essere illuso dal desiderio: questi scritti sono d'un medesimo autore, ed hanno relazione alla medesima bisogna…

– Certo che sì… Dove hai tu preso questa seconda lettera?

Quercia tolse vivamente di mano al compagno l'uno e l'altro foglio e rispose asciuttamente:

– Questo non te lo posso dire… È una trovata che ad ogni modo mi ha da essere inutile… Si socchiuse un momento l'uscio del mistero, e poi mi fu serrato sul muso inesorabilmente e spietatamente per sempre.

Andò a riporre i due fogli nello stipo, che chiuse accuratamente, e tornò presso Maurilio.

– Tu dunque abiti ora come casa tua il palazzo dei Baldissero?

Accompagnò queste parole con un sospiro, che, se non era d'invidia, era l'espressione d'un intenso desiderio.

Maurilio rispose con un altro sospiro, che era quasi un soffocato gemito di dolore.

– Non ancora… Parto oggi stesso pel nostro villaggio con Don Venanzio, e starò colà non so quanto, forse pochi giorni, forse mesi.

Gian-Luigi guardò Maurilio negli occhi di una strana maniera, come se volesse penetrargli nell'anima.

– Sei un essere originale tu!.. Che vuoi andare a fare colaggiù?.. Mentre ti si apre a larghi battenti la porta del palazzo incantato dove t'aspettano gli splendori della vita, tu scappi a rintanarti nello squallido tugurio che non ti ricorda se non privazioni, stenti e miseria. Tu hai conservato amore a quello sciagurato paese in cui vivono più sciagurati esseri in sciaguratissime condizioni! È un mistero psicologico che non arrivo a spiegarmi. Per me quella terra, quelle miserabili casipole, quelle desolate campagne non rappresentano che una somma di rabbie, di vergogne, d'affanni. Odio tutto questo, come odio le mie condizioni.

Pose di nuovo una mano sulla spalla del suo compagno.

– Ma tu hai pure un'ambizione che cova sotto quel tuo vasto cranio bernoccoluto… Quale? Avrai tu penetrato nell'intimo della mia anima, senza che io abbia potuto leggere pur una parola nel libro chiuso della tua? Che cerchi tu nella vita? Che pensi? Che tenti? Ora che la sorte mette a tua disposizione mezzi efficaci e potenti, che opera ti vuoi tu imporre, a qual fine usarli, verso qual meta intendi camminare?

Maurilio si sottrasse al tocco della mano di Gian-Luigi, se ne discostò di alcuni passi ed affondando nelle sue manaccie grossolane la sua testa dalle irte chiome, esclamò con una specie di sgomento:

– Non so… non so nulla di me… Sono ore tremende queste mie, in cui mi affanno a cercar me stesso… e non mi trovo.

In questa il colloquio dei due giovani fu interrotto dall'arrivo, come già abbiam visto, del signor Defasi e di Andrea, e pochi minuti dopo Gian-Luigi, acconsentendo alla preghiera fattagli dai due nuovi venuti, usciva con loro per tentar di ricuperare il cadavere di Paolina, mentre Maurilio rientrava nel palazzo Baldissero, donde poco dopo, senza aver rivisto altri che il marchese, partivasi con Don Venanzio alla volta del villaggio. Andremo a raggiungervelo fra poco: per ora teniam dietro, se vi piace, allo sciagurato Gian-Luigi, la cui buona stella sta per tramontare, e di cui vengono a precipitare la sorte fatali circostanze ed inattesi avvenimenti.

Parlando egli a chi si doveva per ottenere facoltà di ritirare dal gabinetto anatomico il corpo della Paolina, Quercia udì da quel medico esclamare, poichè la chiesta licenza fu accordata:

– Ah! v'è da ier sera nella griglia1 un bellissimo soggetto, che potrebbe vantaggiosamente rimpiazzare questo che le abbandoniamo.

Gian-Luigi, senza pur saperne il perchè, provò una scossa, e domandò con istrano interesse:

– Una disgrazia? Una morte accidentale?

– Pare un suicidio. Un'annegata che fu ieri pescata nel Po.

– Una donna?

– Sì, giovane… e direi fanciulla, se non la si trovasse in istato interessante.

Per quanto poco facile il medichino fosse a commuoversi, il sangue gli diede un rimescolo: ma aveva su di sè tanta forza da non lasciar nulla apparire.

– E non fu conosciuta? domandò egli sbadatamente.

– No… Almeno finora, a quanto io sappia.

– Bella? chiese ancora Gian-Luigi senza guardare il suo interlocutore.

– Bellissima. Delle chiome d'ebano, delle fattezze scultorie, un corpo fatto a meraviglia… Fui chiamato io ad esaminarla per farne l'accertamento legale della morte; ne ho già vedute di molte io donne, e morte e vive, ma le dico in verità che di così ben fatte m'avvenne raro o non mai di trovarne.

– E la fu trovata nel Po?

– Sì, impigliata nella diga del canale Michelotti. Eh uno dei soliti romanzi a tristo fine: una povera giovane sedotta di certo e abbandonata dal suo seduttore. Questa razza di birboni, in simili casi, dovrebbero essi portar la pena dell'omicidio e dell'infanticidio.

Quercia voltò il discorso, e poco stante tolse congedo; ma quando ebbe tutto provveduto quello che occorreva per l'interesse di Andrea, una tremenda curiosità, che lo aveva preso di botto alle parole del medico e non lo aveva lasciato più, lo trasse suo malgrado verso quel luogo funesto ove si vedeva esposto il cadavere dell'infelice. Voleva vedere quell'annegata e temeva. Entrò nel vasto cortile del palazzo municipale, che allora chiamavasi Corte del burro, e dove in quel tempo aveva luogo quel tristo spettacolo, con una lentezza prodotta dal contrasto di due forze che in lui si combattevano: un'attrazione ed una ripugnanza, penose ambedue; si venne accostando adagio al folto capannello di gente che si serrava innanzi al cancello di ferro, dietro il quale, in una specie di strombatura profonda circa un metro, sopra una tavola di costruzione laterizia giaceva lungo e disteso il cadavere.

Da principio non potè veder nulla, chè la ressa della gente affollata impediva di penetrare al suo sguardo: ma udì con un'amara irritazione i commenti dei curiosi che gli stavano davanti.

– Che bel tôcco di ragazza! Guarda che sopracciglia!

 

– E che aria fiera pur da morta!

– Altro che fiera! La par che minacci.

– Ha dovuto morire mandando mille accidenti a qualcheduno.

– La conosci tu?

– Io no.

– Neppur io.

– A me la non mi pare una figura affatto nuova, ma non saprei dire dove l'abbia vista.

– Madonna Santa della Consolata! Così giovane e così bella, e fare una simil fine. Che cos'è di noi se il Signore ci toglie di capo la sua santa mano!

Qualcheduno finalmente di quelli che erano in prima fila si mosse e partì: avvenne un movimento generale di tutta quella piccola massa di gente, e Gian-Luigi potè profittarne per ispingersi avanti. Giunse quasi a toccare il cancello di ferro, fra il capo di due altri curiosi potè insinuarsi il suo sguardo. Era assai tempo che una emozione come quella che sentì in quel punto non aveva scossi i suoi nervi d'acciaio. Vide il cadavere giacente della donna. La riconobbe di subito, e non c'era da esitare, tanto n'erano poco alterati i tratti. Era Ester.

Ella giaceva come persona addormentata, il capo volto un poco dalla parte degli spettatori. Le sue treccie disciolte, gravi per l'acqua ond'erano ancora impregnate, le cadevano sul petto: giallognolo era il pallore della sua carnagione bruna, sì che l'avreste detta una statua d'avorio ingiallita dal tempo. I suoi lineamenti avevano in realtà una severa espressione che non era di collera ma di potente rampogna, d'inesorabile accusa. Era contro il destino, era contro la malvagità degli uomini ond'era stata tratta a quel passo crudele, che s'era ribellato, adontato l'ultimo pensiero della morente sì da imprimere sul volto di lei un tal segno d'implacabile rancore? Gian-Luigi sapeva che cosa crederne; e in faccia a quel cadavere provò un turbamento, qual forse non aveva ancora provato mai, egli che aveva soggiogata al suo perfido volere ogni sensibilità dell'anima. Sentì quasi un'emozione di paura, gli parve che quelle palpebre abbassate e circondate da un livido cerchio dovessero sollevarsi e lanciargli di mezzo alle lunghe ciglia uno sguardo di tremendo sdegno; gli parve che, alla sua presenza, al suo accostarsi, quel cadavere avrebbe dovuto riscuotersi e da quelle labbra violacee uscire una terribil parola.

Qual è mai questo strano effetto della morte che sopra ogni individuo pone un suggello di solenne autorità onde l'animo anche dei più arditi riman sovraccolto? Se quell'audace giovane si fosse trovato innanzi alla persona viva di quella infelice, ch'egli aveva empiamente sacrificata alla sua scellerata passione, non la menoma soggezione, non il menomo turbamento avrebbe pur tocco il suo animo; avrebbe egli freddamente ascoltato ogni rimprovero, sarebbe rimasto incommosso ad ogni lamento, ad ogni lagrima, ad ogni più disperata parola, ad ogni più disperata esplosione di dolore, di furore, di minaccia, avrebbe risposto col silenzio, o colla collera, o collo scherno fors'anco. Invece, innanzi a quel cadavere la sua anima quasi tremava, e il suo sguardo rifuggiva da quella vista, poco meno che timoroso. Non era quello un implicito riconoscimento che oltre quella materia ora inanimata sopravviveva pure ancora alcuna cosa di quella Ester che lo aveva amato, che s'era sacrificata per lui, che in causa di lui era stata tratta a quel fine fatale? E questo non so che d'immateriale, di cui il seduttore non aveva avuto la menoma soggezione durante la sua vita corporea, ora, sciolto dalla sua servitù al corpo, aveva acquistato un'autorità, una maggioranza che ne imponeva a colui che aveva perduto quell'anima, colui che il destino, una giustizia superiore forse aveva tratto innanzi a quel cadavere. Gian-Luigi subiva questa influenza per istinto, senza rendersene conto; egli il quale non credeva che alla materia, egli che, allevato da un ateo materialista, non vedeva nell'universo che leggi materiali, eterne, allo infuori d'ogni volontà e d'ogni intelligenza di qualsiasi ente superiore, non vedeva nell'uomo che un organismo cui scioglie e distrugge per sempre la morte.

Un popolano che stava in prima fila de' curiosi, presso il cancello di ferro, sentì il fremito d'una delle persone che il premer della folla di dietro gli pigiava addosso; si volse, vide la faccia autorevole, le sopracciglia aggrottate, lo sguardo imponente di un uomo signorilmente vestito, e per quella deferenza che è insita in chi si sa umile, povero e nullo, e subisce l'influsso delle apparenze del potere e della ricchezza, si trasse in là e lasciò rispettosamente luogo. Il medichino si trovò egli a contatto del cancello di ferro, e ne abbrancò colla sua mano elegantemente inguantata una sbarra.

– È dessa, è proprio dessa: si diceva egli con una contrarietà quasi rabbiosa della propria impotenza. La è morta e non c'è rimedio… Non v'è Dio nè diavolo che potrebbe far rivivere quelle forme, che potrebbe riaggiustare quella macchina infranta… Disgraziata!.. Io avrei pur trovato modo di salvarla!

Egli l'avrebbe fatta sottrarsi in qualche riposto luogo all'ira del padre, al disprezzo della gente; colà quella passione che nell'infelice non era ancora estinta per lui avrebbe conservato ai desiderii della sua ardente natura quella giovanile bellezza pur tanta. Qualche cosa come un desiderio, che era un'empietà innanzi alla rigidezza di quel cadavere, sorse nel pensiero scellerato di quell'uomo reo di ogni colpa. La memoria nella sua fantasia venne a dare alle forme di quella povera morta le sembianze della vita rigogliosa, con tutta l'ardenza del sangue giovanile che aveva conosciuta in lei. Rivide quelle braccia, ora abbandonate, levarsi e con nodo tenace e soavissimo avvincergli il collo; rivide quel candido petto anelante premersi contro il suo da fargliene sentire il palpito; rivide lo sguardo pieno di fiamme; quasi risentì sulla bocca il bacio ardente di quelle labbra ora allividite e contratte dall'agonia suprema della morte.

In quel momento, per rifare di quella morta l'Ester che era stata poco tempo innanzi, Gian-Luigi avrebbe dato non so che. Strinse quasi convulsamente colle mani le barre di ferro a cui si appoggiava, e chinò il capo verso il cadavere, quasi volesse, quasi sperasse potere, col suo, soffiare in esso di nuovo l'alito della vita; ma ad un tratto, come un ghigno mefistofelico, guizzò tra i suoi pensieri.

– Stolto: si disse; mi sarei sopraccaricato d'un imbarazzo che mi avrebbe impacciato nelle mie faccende fin troppo, e che non avrebbe tardato a non darmi più che fastidii e noia: la poverina, per mio vantaggio, fu bene ispirata. I morti non tornano più, non imbarazzano più nessuno, non fan più male di sorta.

Egli si sbagliava: la morte d'Ester doveva concorrere ancor essa alla perdita di lui, oramai decisa dalla giustizia di Dio.

Mentre Gian-Luigi, tornato in tutta l'empia freddezza del suo spirito, fattosi quel ragionamento per cui conchiudeva che la morte di Ester era una sua ventura, stava per ritirarsi di là, avvenne un movimento nella folla, che gl'impedì di aprirvisi il passo.

Un povero vecchio, vestito di miserissimi panni, faceva ogni sforzo per ispingersi innanzi verso la cancellata, e siccome deboli aveva le forze, e un tremito ne scuoteva le membra, così da non poter avanzare in nessun modo in mezzo alla folla, egli si era messo a supplicare con voce piagnucolosa e rotta dall'affanno:

– Per carità, mi lascino passare… Mi dicono che la è una giovane… Io ho perduta mia figlia… Mi lascino vedere se la è mia figlia.

Il medichino riconobbe la voce fioca e l'accento nasale di Macobaro. Tanto più avrebbe voluto affrettarsi a partire; ma il movimento fatto dagli astanti per dar passo al vecchio, e poi quello di curioso interesse che li faceva restringersi intorno al padre della morta, per assistere alla scena che stava per aver luogo, impedirono affatto a Gian-Luigi di allontanarsi. Il rigattiere ebreo giunse alla cancellata, e s'aggrappò ancor egli colle scarne mani tremanti alle sbarre di ferro. I suoi luridi panni frusti e sporchi toccavano l'elegante pastrano di Gian-Luigi; ma egli non vedeva nessuno, non poteva veder null'altro che quel cadavere di donna che gli stava disteso dinanzi.

Lo guardò per un poco, fiso, in silenzio, immobile, senza trarre quasi neppure il fiato. Pareva che stentasse a riconoscerlo, che non volesse prestar fede all'evidenza, che credesse quella non altro che un'illusione ed aspettasse vedersela dileguata. Ma ad un tratto mandò un grido che si poteva dire un urlo.

1. Chiamavasi e chiamasi ancora la griglia il luogo a Torino in cui si espongono alla vista del pubblico i cadaveri degli sconosciuti.