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La plebe, parte IV

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Si parlò con mente più libera di cose varie e indifferenti; e Francesco domandò che cosa succedesse per la città, come si fossero passati gli ultimi giorni di carnovale e quali novità occupassero le ciarle dei cittadini. Il sor Giacomo, fra altre cose, disse della principale di codeste novità, che era quella dell'assassinio di Nariccia, di cui non sapeva bene però tutti i particolari, essendo vissuto in quei giorni così segregato dal mondo, e quindi chiedendone al dottore: ma questi non parlò a lungo di tale argomento; ripetè spiccio le voci principali che correvano, e poi tosto consigliò a fare in modo che l'infermo non avesse tanto da parlare, e quindi troncare per allora il discorso.

Ma il ricordare quel delitto aveva richiamato qualche cosa alla mente del padre di Francesco. Quercia, che era osservatore acutissimo e sempre in sull'avviso, s'accorse che a questo proposito alcun che era intravvenuto che più da vicino toccava quella famiglia o il sor Giacomo solo, perchè quest'ultimo aveva preso un aspetto alquanto preoccupato, e guardava il dottore con una certa espressione fra di curiosità e di dubbio, di esitanza e di imbarazzo che pareva significare aver egli qualche cosa da dire ed essere incerto se e come dirla.

Gian-Luigi decise tosto tagliar netto il nodo; si chinò verso il signor Benda, e gli disse sotto voce:

– Avrei bisogno di parlarle. La mi vuole concedere due minuti di colloquio nel suo studio?

– Volentieri. Ho giusto ancor io una strana circostanza da comunicarle.

Quando furono di là il giovane invitò il padre di Francesco a parlare per primo: ma il signor Giacomo non volle.

– No, no, parli Lei: il suo contegno mi dice che le sono cose gravi quelle che la mi ha da dire, ed io, avvezzo oramai a nuovi colpi della sventura, sono ansioso di sentire se qualche nuovo malanno ci minaccia.

Luigi fece sorridendo un atto rassicuratore.

– No. Debbo trattenerla di due cose: la prima è una bazzecola che la mia poca memoria mi ha tolto di dirle prima, come già avrei dovuto fare; l'altra è una proposta, importantissima per me, pel quale si tratta della felicità della vita.

Il signor Giacomo, la cui curiosità fu vivamente desta da tali parole, fe' cenno al suo interlocutore parlasse liberamente.

– Cominciamo dalla cosa indifferente. Il parlare ora del delitto commesso la notte dell'ultima domenica di carnovale, mi ha fatto ricordare che io, quella notte medesima, quando mi sono partito di qua, su questo stesso viale che qui conduce, fui vittima d'un'aggressione.

– Lei?

– Sì, signore. Due uomini mi assalirono, dei quali uno era un colosso. Non pensai mi convenisse opporre resistenza; mi spogliarono di quanti denari avevo, e, quel che più mi dolse, mi presero anche il mantello che qui mi era stato imprestato: ed ecco la cagione per cui non l'ho potuto ancora, nè lo potrò mai restituire.

Giacomo fece un atto ed un'esclamazione che significavano: «Ora capisco tutto.»

– Egli è appunto cosa che riguarda quel benedetto mantello che io le ho da dire. In causa di esso io ebbi una chiamata dal giudice istruttore.

– Davvero? esclamò Quercia, che nascose il suo malessere sotto le mostre dello stupore.

– Sicuro; e ci fui questa mattina medesima.

– E che le si disse adunque? Il mio aggressore sarebbe stato arrestato?

– No, ma il suo aggressore dev'essere niente meno che l'assassino di quell'usuraio.

– Possibile! Oh come? oh come?

– Nelle mani dell'assassinato si trovò un pezzo di bavero, sotto cui trapunte due lettere iniziali. La Polizia ebbe a sè tutti i sarti della città per vedere se alcuno riconoscesse in quello un suo lavoro, e il sarto mio e di mio figlio disse che quello era il colletto d'un mantello da lui fatto pochi mesi sono per Francesco, del cui nome infatti sono iniziali le lettere che vi si trovano trapunte. (E il nostro sarto ha appunto l'uso di ricamare tali cifre per distinguere i panni miei da quelli di mio figlio). Mi si mostrò quello squarcio e mi si domandò se lo riconoscevo: io risposi che quelle erano invero le iniziali del nome di mio figlio, che ben mi pareva quello il pezzo d'un suo vestito, ma che non potevo esserne sicuro. Si volle sapere se un mantello od altro oggetto di vestiario qualunque mancasse alla guardaroba di Francesco, e per che cagione la ci mancasse, ed io dovetti contare come quella sera fatale avessimo dovuto imprestare a Lei, a cui abbiamo tanto debito di riconoscenza, un mantello per tornarsene la notte a casa sua.

Gian-Luigi ebbe tanta padronanza di sè da nascondere la sua contrarietà, la fiera rabbia ond'era assalito.

– Ho avuto torto, diss'egli, a non dare importanza a quell'aggressione. Se fossi andato subito a denunziare il fatto, dando io i connotati dei malandrini, e li posso dare esattissimi, avrei forse conferito allo scoprimento de' rei; ma pensai allora che non valesse manco la pena di scomodarsi. Però si è ancora certamente in tempo, e conto recarmi tosto dal Commissario di Polizia.

– Farà bene. Di sicuro non è su Lei che possano cadere sospetti di tal fatta; ma un altro da questo viluppo di circostanze potrebbe venir compromesso. È meglio affrettarsi a dilucidare le cose.

Quercia, con atto di cordiale franchezza, tese la mano al signor Giacomo.

– Lei, signore, mi dice superiore a questi sospetti, e sono persuaso che tale mi crede; ma in realtà Ella conosce poco di me e nulla delle cose mie. Avrà udito di me varii giudizi nel mondo, e forse malevoli i più: ma il vero è che nessuno sa nulla dell'esser mio, del mio passato, delle mie reali condizioni. Ebbene ora voglio che Ella mi conosca compiutamente; devo farmene compiutamente conoscere, prima di avventurare una domanda, da cui, come già accennai, dipende la felicità di tutta la mia vita.

Si raccolse un momento, e poi raccontò il seguente romanzetto della sua vita ch'egli si era preparato per simile occasione.

– Lungo tempo io vissi come trovatello. La mia nascita toglieva un vistoso patrimonio a certi collaterali della mia famiglia, i quali mi fecero pertanto sparire e mi relegarono in un ospizio. Un po' di rimorso in que' sciagurati che così mi sacrificavano, li indusse a farmi levare di là ed affidarmi alle cure d'una donna che mi fosse nutrice e madre, incaricando di vigilare su di me un medico del villaggio in cui questa donna abitava. Quando fui cresciuto, questo medico, sempre per mandato di que' tali, mi fece studiare, mi mandò all'Università, e poichè fu giunto all'estremo di vita mi ebbe a sè e mi rivelò il segreto. I miei nemici avevano così bene prese le loro precauzioni che nessun documento più, nessuna prova sopravanzava da farmi restituire il mio nome e l'esser mio; d'altronde trattavasi dell'onore di certi autorevolissimi personaggi che si voleva salvo ad ogni modo, così che se io, istrutto di qualche cosa, avessi tentato il ricupero del mio vero stato, mi sarei esposto anche al pericolo di vedere minacciata, non che la libertà, la mia vita. Per rimediare in alcun modo al torto che mi era fatto, quei medesimi avevano mandato al medico circa cento cinquanta mila lire da darmi brevi manu, capitale che per poco mi sapessi industriare avrebbe bastato a farmi vivere agiatamente. Il medico medesimo, commosso dalla pietà del mio caso, mi lasciava parte delle sue sostanze. Che doveva io fare? che mezzi mi restavano da ribellarmi contro il mio destino? Accettai e mi tacqui. Quel capitale, che fu da principio di poco meno che duecento mila lire, per mezzo di certe speculazioni industriali… fatte in Francia… ho più che accresciuto; ed ecco l'origine di quella ricchezza che la gente trova forse misteriosa, e di cui non curo, anzi disdegno di porgere al volgare la menoma spiegazione. A Lei, prima di fare la domanda che sto per volgerle, dovevo dare questa spiegazione; ed anzi, siccome la non è obbligata a credermi soltanto sulla parola, le darò per prova della verità del mio asserto uno scritto tutto di pugno di quel medico, – e la sua firma si può riscontrare e fare autenticare per vera quandochessia – nel quale ogni cosa è narrata per disteso, scritto lasciatomi da lui, appunto perchè in qualunque caso io potessi trionfalmente rispondere ad ogni sospetto che potesse sorgere, ad ogni accusa che mi si potesse affacciare intorno alle fonti di quelle mie sostanze.

– Io non ho bisogno di questo – si credette in obbligo di dire il signor Giacomo, il quale non sapeva ancora a che volesse parare il giovane con siffatti discorsi – per prestar fede alle sue parole.

E Gian-Luigi con maggiore la vivacità:

– Crede Ella dunque che un uomo in queste circostanze, con mezzo milione di patrimonio, possa aspirare senza troppa audacia alla mano della fanciulla d'un'onesta famiglia, d'una fanciulla ch'egli ama più d'ogni cosa al mondo?

Giacomo comprese finalmente; ma la cosa gli giunse così inaspettata che non ebbe parole fatte e non seppe dimostrare il suo stupore altrimenti che coll'espressione della sua faccia; il giovane inchinandosegli dinanzi con cerimonia, come aveva fatto testè dinanzi a Maria, gli disse con accento solenne:

– Ho l'onore di domandarle la mano di sua figlia, madamigella Maria.

Il signor Benda, tanto meravigliato ancora che non sapeva bene tuttavia se questa domanda gli faceva piacere o no, rispose come rispondono tutti i padri in simili occasioni: esser questo un onore, ma prima di prendere una decisione aver bisogno di consultare la famiglia, e la figliuola sopratutto, eccetera, eccetera, e soggiunse che in quelle tristi circostanze in cui si trovavano, troppo non era acconcio il tempo a pensare e parlare di cose siffatte.

Quercia si credette allora in obbligo di spiegare la ragione per cui non ostante la poco propizia occasione, chè riconosceva ancor egli quella essere tale, avesse pur tuttavia affrettato di avventurare la sua domanda. Disse che il suo amore per Maria era nato ben dapprima ch'egli si fosse introdotto in quella casa (il mentire non gli costava nulla) che ora avvicinandola erasi quell'affetto accresciuto a dismisura, e che, dovendo egli partire fra poco tempo per recarsi in Francia, appunto per quelle sue certe speculazioni che aveva detto averci colà intraprese, e fermarcisi forse un anno ed anco più, non poteva acquietarsi all'idea di partire senza aver deciso il destino del suo amore. Questo era il motivo per cui aveva così bruscamente dichiarato le sue intenzioni, e pregava in conseguenza che non gli si facesse di tanto ritardare, qualunque si fosse, la risposta che invocava.

 

Il signor Giacomo fissò il dopo dimani per una risposta definitiva, e i due si separarono con una stretta di mano che era più che d'amico, quasi già di congiunto.

Gian-Luigi, uscendo da quella casa, s'affrettò verso il Palazzo Madama, dove domandò di parlare al signor Commissario.

CAPITOLO XIII

Quando il signor Tofi udì annunziare che il dottor Quercia domandava di parlargli, provò una viva sorpresa che si manifestò in un leggier trasalto ed in un vivace lampeggiar degli occhi sotto le folte sopracciglia. La preda veniva da se stessa all'arrivo del cacciatore: vero era che questa preda aveva unghie ed artigli, ma com'era bene armato altresì il cacciatore a combatterla! Primo impulso del Commissario fu quello di far sollecitamente introdurre questo inaspettato visitatore: ma poi stimò meglio per varie ragioni non mostrare e non aver premura. Quercia, venendo da se stesso ad offrirsi al combattimento, ci veniva di sicuro preparato, munito di buone difese, avendo studiato i colpi e le mosse; conveniva di meglio all'avversario meditare un momento anche lui sul modo di condursi. Non voleva porre piede in fallo; le protezioni che sapeva al giovane acquistate dalle sue attinenze con una certa sfera sociale che aveva ogni autorità ed ogni privilegio, lo impacciavano non poco, non voleva movere un passo più in là di quello che si dovesse, per paura di aversi a ritirar indietro, la qual cosa sarebbe stata sua vergogna e suo danno. Ad ogni buon conto disse alla guardia che gli aveva annunziata quella visita:

– In quanti uomini siete costì?

– Siamo sette.

– Bene: quando quel signore sia introdotto da me, quattro vengano nella stanza vicina, pronti ad ogni cenno… Quel signore poi lo farete passare solamente quando avrò suonato.

Partita la guardia, il Commissario andò al forzierino che stava presso al caminetto, lo aprì colla chiavetta che portava sotto panni appesa al collo per un cordoncino, e ne trasse quel grosso libro legato in pelle nera, che gli abbiam già visto consultare quando volle sapere alcun che del pittore Vanardi. Questa volta aprì il libro al punto in cui sul margine della pagina era impressa per rubrica la lettera Q e lesse attentamente tutto ciò che stava scritto sotto il nome di Quercia, sul quale si posò il suo dito lungo, grosso, nero, villoso ed unghiato. Poi richiuse il libro, lo ripose là donde l'avea tolto, serrò accuratamente il forziere e le mani affondate nelle lunghe tasche del suo soprabitone, il mento quadrato sostenuto al duro cravattino, passeggiò per lo stanzino profondamente meditabondo.

Intanto Gian-Luigi s'impazientava d'aspettare. Per quanto fosse pieno di risoluzione e scevro di timore il suo animo, non era certo senza una specie di apprensione ch'egli era entrato in quel luogo. Affrontava audacemente un pericolo che aveva visto sorgergli innanzi, ma non sapeva bene quali forme precise e quali forze potesse prendere poi questo pericolo, dal quale fors'anco non avrebbe potuto scampar vittorioso. La sua natura era avida di simili temerità ed era avvezza ad ottenere, mercè appunto l'audacia, l'aiuto della fortuna; ma gli piaceva per ciò averne di subito dalla sorte la risoluzione del problema che affrontava, il premio dell'ardimento che dispiegava. L'indugio che pose il Commissario a riceverlo cominciò per essergli fastidioso, poi divenne grave e quasi insopportabile. Anche la sua superbia, anche il suo amor proprio n'erano offesi. Pensò inoltre che una troppo umile tolleranza da parte sua avrebbe potuto essere indizio di qualche peritarsi, di alquanto timore, e ciò non voleva assolutamente che si credesse. Si staccò dalla finestra, dove superbamente atteggiato, il cappello in testa, stava guardando nei fossi del castello, e indirizzandosi al capo delle guardie che erano in quella stanza, disse con accento imperioso di superiore:

– Olà! E' mi par soverchio questo farmi aspettare. Crede egli il signor Commissario che io non abbia mezzo migliore di passare il tempo che star qui a guardare traverso questi vetri affumicati il volo dei colombi? Andate e ditegli che se le sue occupazioni non gli permettono di ricevermi ora, me lo faccia saper subito, ed io tornerò in momento più opportuno.

La guardia esitò un momento; ma il tono di comando e l'aria di disprezzo agiscono sempre con una certa forza sull'animo di quella gente, avvezza ad essere disprezzata da chi li comanda; e Gian-Luigi era tale a cui nessuno andava innanzi nell'imponenza dell'aspetto e nell'autorevolezza della parola. Sotto lo sguardo imperioso del giovane elegante il poliziotto finì per cedere e si recò dal Commissario a fare timorosamente l'ambasciata.

Il signor Tofi cominciò per istrapazzare di santa ragione il mal capitato, e poi soggiunse più burbero che mai:

– Dite a quel signorino che di voglia o di necessità avrà la pazienza d'aspettare; chè se volesse partirsene, avete l'ordine, come vi do espressamente, capite, di trattenerlo ad ogni modo.

Quercia, all'udire questa risposta, sbuffò, disse ad alta voce con tono concitato che avrebbe mostrato al sor Commissario il modo di trattare coi pari suoi, e fece persuasi tutti quelli che l'udivano, esser egli un gran personaggio.

Cinque minuti dopo il campanello del Commissario suonato con mano robusta avvisò che il visitatore poteva essere introdotto.

Quercia entrò nel gabinetto senza levarsi il cappello, l'occhio incollerito, la mossa superba, come avrebbe potuto fare il conte San Luca o il marchesino di Baldissero.

– Sor Commissario, diss'egli colla sua voce vibrante e l'accento fiero d'un padrone sdegnato, la sa che non mi tocca fare anticamera nemmeno dal Governatore, nemmeno dal signor Ministro?

Tofi alzò gli occhi sul giovane e lo saettò d'uno sguardo acuto, incisivo, penetrante di sotto l'arco sporgente delle sue folte sopracciglia. Luigi sentì da quell'occhiata come un urto nel cervello e nel petto: gli fu necessario usare tutta la sua forza, tutta la padronanza che aveva su se stesso per frenare un sussulto; ma le sembianze non ne lasciarono scorger nulla. Conobbe di botto che aveva un fiero lottatore di fronte; ma non si sentì impari allo scontro. Rispose con uno sguardo più superbamente sdegnoso che mai.

Il Commissario se ne intendeva di forza d'animo e d'espressione di fisionomia.

– Ecco una stupenda figura, pensò, tenendo fisi sul volto del giovane i suoi occhi, che però cessarono di avere l'aggressività di prima. Questo individuo non deve far nulla di mediocre. Se ha posto il piede nella via della scelleratezza ci andrà – ci sarà andato – più innanzi d'ogni altro.

Sentì una specie, non dirò di rispetto, ma di riguardo verso quella forza di tempra che vide rivelarglisi, che indovinò ancora più. Avvezzo a rispettare ogni superiorità sociale, riconobbe e quasi accettò quella superiorità di volere e di pensiero che aveva dinanzi. Laonde nella sua risposta non ci fu tutta quella insolente asprezza che altri si sarebbe potuto aspettare. Sedeva egli alla sua scrivania, al piano della quale appoggiava il gomito sostenendo colla mano la sua faccia pelata di color ulivigno, che teneva rivolta verso il giovane in piedi pochi passi da lui distante, e senza punto muoversi, disse lentamente:

– Se S. E. il governatore e S. E. il ministro non le fanno fare anticamera, gli è perchè andrà da loro in momenti in cui non ci hanno nulla da fare. Io, che non ne ho punto di questi momenti, non posso trascurare il servizio del Re per far piacere a questo ed a quello. Ha capito?

Sulla faccia di Quercia parvero lottare un sentimento d'irritazione e un altro di cedevolezza (ed era questa in lui tutta arte sopraffine da comico): dopo un poco la diede vinta a quest'ultimo, fece uno de' suoi incantevoli sorrisi che significava apertamente: «Siete un originale, e conviene prendervi come siete;» e disse con accento scherzoso:

– Ho capito benissimo.

Siccome lo sguardo acuto di Tofi si levava al cappello che il giovane teneva ancora in testa, ed essendo in casa altrui era dovere levarselo, Gian-Luigi se lo tolse sbadatamente; come compiendo un atto abituale, senza darci importanza, e lo gettò sul forzierino lì presso: poi senza aspettare l'invito di sedere che il Commissario non pareva disposto a fargli, prese una seggiola e venne ad assettarsi ad un passo di distanza dalla scrivania.

– Posso sapere che cosa mi vale questa sua visita? domandò allora con accento burbero il signor Tofi che non aveva mai tolto il suo sguardo dal giovane.

Questi rispose con quell'accento scherzosamente leggiero che pareva aver adottato per tono della conversazione:

– La lo può sapere di sicuro, perchè son venuto apposta per dirglielo.

Raccontò la favola dell'aggressione notturna, quale l'aveva narrata al padre di Francesco, e diede dei suoi aggressori i connotati che corrispondevano precisamente a quelli di Graffigna e Stracciaferro. Tofi lo aveva ascoltato, guardandolo sempre con quella fissità che era fatta per turbare anche un innocente; e Quercia non se n'era menomamente lasciato turbare.

– Bene: disse il Commissario con ironia; Ella mi ha dipinto a meraviglia due malfattori che dovettero prender parte all'assassinio dell'usuraio Nariccia; ce ne manca soltanto uno, poichè abbiamo la certezza che a compire quell'orrendo delitto erano in tre. Saprebbe dirmi qualche cosa anche del terzo?

Gian-Luigi lo guardò come uomo che non comprende, e che non si cura dare importanza agli indovinelli cui piaccia al suo interlocutore affacciargli.

– Credo, rispose con disdegnosa leggerezza, che non sia mio còmpito, ma il suo, quello di rintracciare questa razza di gente.

– E lo rintracceremo, e lo troveremo: disse lento e spiccatamente il Commissario chinandosi alquanto verso Gian-Luigi e guardandolo più fiso ancora di prima.

Quercia non ebbe la menoma contrazione dei muscoli della faccia, nè il menomo batter di ciglia.

– Lei è medico? domandò bruscamente a un tratto il signor Tofi.

Gian-Luigi s'inchinò con una ironica ma elegante cortesia.

– Per servirla; rispose.

– Sarei curioso di sapere in quale Università ha presa la sua laurea di medicina.

– La curiosità è una dote del suo mestiere, ma non credo che sia un obbligo dei cittadini il soddisfarla.

– È un obbligo molte volte cui impone la giustizia. Parecchi anni sono c'era nell'Università di Torino uno studente di medicina che aveva molta rassomiglianza con Lei; ma frequentava più le bische, i bigliardi, i convegni di certe donne, eccetera, che non le lezioni dei professori; e non avvenne mai che questo cotale prendesse la laurea. Sparì un bel dì carico di debiti, e si ha forti dubbi che poi ricomparisse con altro nome, dandosi addirittura per medico e sfoggiando una ricchezza che nessuno sa com'egli si fosse guadagnata – o si guadagni.

Gian-Luigi appressò la sua seggiola alla scrivania ed a questa appoggiò il gomito con mossa piena di grazia e di eleganza; poi, battendo una marcia sul mobile colle dita bianchissime della destra che aveva sguantata, prendendo un tono di libera domestichezza, ma non scevro d'una certa superiorità, domandò:

– Parli chiaro, sor Commissario. È questa una specie d'interrogatorio che la mi dirige?

– E se lo fosse, signor dottore, che la risponderebbe?

– Risponderei la verità. Quello studente ed io siamo una persona sola. S'io non ho la laurea di medico, non n'esercito neppure la professione, ed è innocente inganno quello di prendere un titolo vano che l'uso suol dare di subito a chi intraprende una di simili carriere. Lo studente di leggi è salutato fin dal primo anno col titolo di avvocato, e lo studente di medicina con quello di dottore. Quanto alle mie ricchezze, dove mi se ne chiedesse l'origine, ad uno qualunque, direi che gli è un impertinente, e saprei dargliene anche la meritata lezione; ad un'autorità, come sarebbe Ella, quando credesse per una ragione qualunque di suo ufficio dover entrare in questi che sono individuali segreti, avrei buono in mano da provare la legittimità della provenienza di tutto ciò che possedo.

– Ebbene, signor dottore o non dottore; proruppe con una specie d'impazienza il Commissario; quell'autorità le sta dinanzi, e il momento di dar questa prova è venuto.

 

Quercia si trasse indietro levando il capo e drizzando il collo in una mossa piena di superbia.

– Si oserebbe sospettare alcuna cosa?..

Tofi lo interruppe ruvidamente.

– Noi osiamo sospettare di tutto e di tutti.

Il giovane gli gettò un'occhiata fiera di minaccia e disdegno.

– La dovrebbe pur sapere chi io mi sia e di quali attinenze mi vanti. Badi che questa troppo spiccia maniera di procedere, se conviene coi miserabili coi quali è solita Ella a trattare, non si affà colle persone ammodo…

– Io sono come sono e fo come mi aggrada, purchè faccia il dover mio: interruppe Tofi diventando sempre più ruvido. Poichè Ella stessa è venuta a me, prima ch'io la mandassi a cercare, la si acconci a darmi in questa conversazione quelle nozioni di fatto che mi abbisognano, altrimenti la conversazione potrebbe prendere un nome più severo, quello che disse Ella stessa un momento fa, e diventare un interrogatorio.

Quercia fece colla mano un cenno di superba condiscendenza accompagnandolo con un sogghigno che significava: «vedremo chi l'avrà vinta alla fine;» e disse con tutta freddezza:

– Bene! Interroghi pure.

Alle domande di Tofi rispose colla storiella che gli abbiamo già sentita narrare al sor Giacomo, e promise presentare come documento lo scritto del suo protettore, il medico del villaggio, il quale scritto già aveva eziandio accennato al padre di Maria.

Tofi scrisse man mano le sue noterelle nel portafogli che soleva portare nella tasca del petto, e non mostrò in modo alcuno sulla sua faccia scura che impressione, buona o cattiva, gli facessero le parole del giovane. Questi, finita la sua narrazione, si levò.

– Parmi che non le occorra più nulla da parte mia e che posso andarmene.

Il Commissario lo guardò un momento senza rispondere. Gian-Luigi sentì un brivido corrergli per le vene: gli parve che dalle labbra grosse di quella bocca squarciata dovessero uscire le tremende parole: – «Ella è arrestata;» ma neanco di lui la fisionomia non espresse nulla dell'interno sentimento.

– Un istante: disse con accento che pareva minaccioso la voce rauca e burbera del Commissario.

Gian-Luigi fece correre tutt'intorno uno sguardo ratto e fugace come chi cerca se vi è modo di scampo.

– Che la vuole ancora? domandò egli sorridendo leggermente.

– La non è venuta qui per dar querela di quell'assalto notturno, di cui dice essere stato vittima?

– Precisamente.

– Dunque aspetti che sia scritta la sua deposizione e ch'Ella l'abbia firmata, perchè si possa poi trasmetterla all'autorità giudiziaria.

Fece venire l'impiegato che sedeva nella camera precedente, e dettò rapidamente il verbale della denunzia fatta da Quercia.

– Va bene così? gli domandò poi col suo tono aspro e burbero.

Gian-Luigi chinò leggermente il capo.

– Allora firmi.

Quercia prese la penna e scrisse con mano sicura, nella più bella calligrafia di cui fosse capace, il nome ch'egli soleva portare. Poi prese il cappello che aveva posto sul forziere e a mo' di commiato disse:

– Per qualunque cosa che occorresse ulteriormente in proposito, Ella sa dove mi si può trovare.

Il Commissario rispose con un accento in cui c'era dell'ironia e della minaccia:

– Sì signore: saprò appuntino dove trovarla.

Gian-Luigi, fece un legger cenno del capo che poteva sembrare un saluto, ed uscì da quel gabinetto, da quel locale, dal Palazzo Madama col passo tranquillo, sicuro e superbo con cui era entrato.

Tofi gli guardò dietro alla guisa con cui il gatto guarda un topo che gli scappa.

– Ah! se non fosse amico del conte di Staffarda e il ganzo della contessa: disse fra sè con un sospiro di rincrescimento: non me lo lascierei sfuggir di mano.

Quando fu al largo nella vasta Piazza Castello, in piena luce e in piena aria libera, Gian-Luigi mandò un grosso rifiato, come uomo fatto libero da un'oppressura, e senza pur accorgersene affrettò il passo per allontanarsi di là. Fu sotto i portici e fece un tratto di cammino senza saper bene dove volesse andare e che cosa fare; salutò i conoscenti con cui s'incontrò in quell'universale ritrovo dei Torinesi, coll'aspetto e coi modi «d'uomo, cui altra cura stringa e morda che quella di colui che gli è davante.»

– Bisognerebbe tagliar corto e presto a siffatte velleità curiose del sor Commissario, pensava egli. Come governarsi per ciò?.. Ah! non c'è altri che mi possa meglio aiutare di quella brava Zoe.

Volse indietro ratto i suoi passi, e, frettolosamente camminando, fu in breve alla dimora della famosa Leggiera. Trovò un gran disordine nel quartiere di quella donna, e lei medesima in una somma desolazione. Nel salotto e nella camera da letto tutto era sottosopra, gli specchi spezzati, le porcellane infrante, gli orologi e i candelabri dorati fatti a pezzi e giacenti in terra, le tende e le cortine strappate, tutti i ninnoli e le minuterie eleganti ond'erano adorne quelle stanze sparsi a frantumi sul pavimento. In mezzo a questo tramestio, le chiome scarmigliate, pendenti sulle spalle, contratta la faccia, le mani serrate, come Mario sulle rovine di Cartagine, sedeva la Leggera.

– Che è egli avvenuto? domandò Gian-Luigi guardandosi attorno stupito. Si direbbe che v'è stata un'invasione di barbari.

Zoe sollevò il suo volto abbuiato e volse al suo complice gli occhi, in cui si vedeva un implacabile risentimento.

– Che cosa è avvenuto? diss'ella con labbra strette e con voce che sibilava fra i denti. Gli è avvenuto che il prince charmant è un cane, ed anche un peggior animale. L'invasione dei barbari fu uno scoppio della sua collera bestiale. Quello scimmiotto andò in furore e parve un orso scatenato. Ma me l'avrà da pagare… oh se l'avrà da pagare!

E tese verso un punto dell'orizzonte, con atto pieno di minaccia, il suo braccio colla mano chiusa a pugno.

Gian-Luigi diede un calcio ad un coccio di preziosa porcellana che si trovò tra' piedi.

– Ed avrà da pagare eziandio tutto questo.

La Leggera fece un perfido sogghigno.

– E come! Voglio una mobilia tutto nuova e dieci volte più bella.

– Benissimo! E così il sor Principe imparerà a far le bizze. Ma come avvenne?

– Avvenne per causa tua.

– Mia! Oh, in che modo?

Per dirla in breve, al signor Principe era stato detto, affermato e provato che la Zoe era in istrettissime e non innocenti attinenze col famoso dottor Quercia, e S. A. arrabbiatissima aveva voluto con modi da prepotente ottenere che la donna gli promettesse di non ricevere più quel cotale. La domanda e la forma con cui era espressa spiacquero immensamente alla Leggera che non era d'umor dolce nè tollerante. Rispose in pari tono, cioè con insolenza uguale all'imperiosità dell'altro; la discussione divenne in breve più che vivace, e il Principe si obliò al punto da levar la mazza sopra la mantenuta; ma essa, accampandosi fieramente in faccia a lui, le braccia serrate al petto, l'aria imponente di risoluzione, le nari frementi, lo sguardo acceso, gli disse con forza:

– Suvvia! Abbia l'immenso valore di percuotere una donna! Bella principesca impresa!

Il Principe s'era allontanato da lei come un animale domato; ma in qualche modo aveva pur bisogno di sfogare l'irrefrenabil ira che lo rodeva. Con quella mazza che si trovava in mano si diede a percuotere di qua e di là sui mobili, sui quadri, sugli specchi, su tutto, atterrando, rompendo, scaldandosi nella sua opera di distruzione, menando colpi alla cieca come un paladino gettatosi in mezzo ad uno stuolo di nemici; e quando tutto fu infranto, fuggì, perseguitato da uno stridente scoppio di risa della Leggiera.

– Diavolo! Diavolo! mormorò Quercia vivamente contrariato: questa la non ci andava.