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La plebe, parte IV

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Alle ultime parole di Gian-Luigi, il marchese lo saettò d'uno sguardo di rampogna, e sedendo, aprì per la prima volta la bocca, parlando con una severa freddezza:

– La verità è quella precisamente che voi non credete. Per ragioni che saprete fra poco, m'importa di molto conoscere se voi siete e potete provarvi innocente. Don Venanzio fa tuttavia tanta stima di voi che afferma, se colpevole, avrete la franchezza di dirlo a chi lealmente v'interrogasse… e non nell'interesse dell'umana giustizia.

– In qual interesse adunque? domandò il medichino sedendo ancor egli, sempre colla medesima elegante agiatezza.

– Nel vostro: rispose asciutto il marchese.

– Ed anche nel suo, Eccellenza: soggiunse ratto Gian-Luigi: se io so bene argomentare, poichè la mi ha detto or ora che certe ragioni le rendono importante la conoscenza di questa verità.

Il marchese annuì col capo.

– Sì, anche nel mio.

Gian-Luigi fece un grazioso inchino verso il parroco.

– Ringrazio Don Venanzio della buona opinione che conserva di me. Io son pronto a dargli ragione; perchè Dio mi guardi dal vedere in codesto un tranello teso alla mia buona fede!..

Baldissero fece un atto d'indignata protesta.

– Le giuro che una cosa simile non la crederei mai: continuò il medichino; ma per aprire la mia coscienza così di piano a lor signori, a Lei specialmente signor marchese, col quale non vi fu sinora la menoma attinenza che possa condurre ad un simile risultamento, bramerei conoscere quelle ragioni che rendono questo fatto così interessante per V. E.

Il marchese parve esitare.

– Non si tratterebbe che di anticiparmene la comunicazione: soggiunse vivamente Gian-Luigi; poichè Ella stessa mi disse che le avrei sapute fra poco.

Baldissero si raccolse un momento; poi fece un gesto colla mano che significava avrebbe accondisceso al desiderio del giovane. Questi con moto vivace di curiosità, trasse innanzi la sua seggiola e, i gomiti appoggiati alle ginocchia, si curvò verso il marchese ad ascoltare.

Dopo un istante, lo zio di Virginia, disse lentamente con voce sommessa e quasi stentata:

– Voi non avete famiglia?

– No: rispose Gian-Luigi riscuotendosi tutto e impallidendo per una subita, violenta emozione che lo assalse.

– Foste abbandonato nell'ospizio…

– Lo fui!..

– Ed avevate per segno di riconoscimento…

– Una lettera stracciata per metà.

Il marchese trasse di tasca un portafogli, lo aprì, ne levò due pezzi di carta sgualcita ed ingiallita dal tempo, e li tese verso il giovane.

– Ecco la lettera intiera.

Quercia sorse in piedi di scatto. La mano del marchese nel porgere la lettera tremava; la mano di Gian-Luigi nel prenderla tremava del pari. Afferrò quei due squarci, li scorse, li esaminò, ne lesse lo scritto. Quei caratteri gli danzavano innanzi agli occhi; la vista gli si abbuiava; una folata di supposizioni faceva ressa nel suo cervello; che si trattasse della sua origine in quel misterioso colloquio glie n'era già, fra i mille altri impossibili, balenato il pensiero. Ora non esisteva più dubbio: aveva quella lettera in mano; la sua famiglia era trovata. Si recò alla fronte i pugni chiusi e premendoveli come per contenere il cervello che era in bollore:

– Chi son io?.. Chi son io dunque? esclamò; poi gettò uno sguardo inesprimibile sulla fisionomia mesta e severa del vecchio gentiluomo, tese verso di lui le mani che stringevano ancora e convulsamente quei pezzi di lettera, fece un passo a quella volta con mossa d'ineffabile trasporto e gridò, proprio dal fondo dell'anima:

– Ah! siete voi mio padre!

Il marchese si trasse vivamente all'indietro sulla sua seggiola, come se avesse ricevuto un urto nella fronte e mandò un'esclamazione soffocata. Sostenne un momento col suo lo sguardo vivo, fiammante del giovane che palpitava innanzi a lui, poscia chinò gli occhi con un'espressione che avrebbe potuto dirsi ripugnanza e si coprì colle mani il volto, come se assalito da un accesso di vergogna.

– No, non son io vostro padre: susurrò con voce appena intelligibile. Don Venanzio, mi faccia grazia, racconti Lei a questo infelice tutta la verità.

Il medichino fece un cenno al parroco, perchè indugiasse alquanto a cominciar la sua narrazione. Giunto al momento tanto desiderato di apprendere la verità, sentiva, per così dire, tremar l'anima ed aveva bisogno di prepararsi per accogliere con calma il vero qualunque egli si fosse. Si premette colla destra la fronte, coprendosi gli occhi; poi incrociò le braccia e si recò lentamente alla finestra, dove rivolse lo sguardo in su e stette contemplando pochi minuti secondi quella esigua luce grigiastra che pioveva dalla tramoggia; finalmente venne presso il sacerdote; sedette in faccia a lui, appoggiò i gomiti sulle ginocchia, affondò il volto nelle palme delle mani e disse:

– Parli pure, Don Venanzio.

Ascoltò immobile in quella postura tutto il racconto del parroco. Non un atto manifestò in lui le impressioni ch'e' dovette provarne; il viso, sempre nascosto, non lasciava scorgere nulla di quanto sentisse l'anima sua. Quando il vecchio prete ebbe finito, tutti si tacquero per un poco; solamente si sentiva il rumore di due respirazioni affannate: quella del marchese e quella di Gian-Luigi.

Fu quest'ultimo che ruppe finalmente il silenzio. Levò dalle mani la faccia che era pallida, pallida, ma con nessun'altra traccia d'emozione, e volse il capo verso il marchese, però senza levare gli occhi su di lui.

– Or bene: disse sommesso e quasi penosamente: or bene, quali intenzioni ha Ella a mio riguardo?

Baldissero non rispose subito; rifletteva profondamente e con visibile amarezza; con voce bassa e stentata egli pure, disse poi:

– Ora capite voi perchè m'importi sapere se voi siete innocente?

Quercia mandò un'esclamazione; volle parlare, ma di subito se ne trattenne; alla pallidezza successe sulle sue guancie un cupo rossore, l'immobilità tenuta fin allora diede luogo per riazione ad un'agitazione irrefrenabile; egli sorse e si mise ad andar su e giù con passo concitato, lasciandosi sfuggir dalle labbra interiezioni, rotti accenti e gridi a mala pena soffocati. La punizione crudelissima a' suoi delitti, di cui aveva fatto cenno Don Venanzio, era piombata in tutta la sua gravezza sull'anima ambiziosa di Gian-Luigi: quel grado a cui egli aspirava, quell'altezza a cui aveva voluto giungere erano suo diritto, li avrebbe potuto arrivare naturalmente ed onestamente; ed egli col suo fatto ora se li era resi impossibili… Impossibili? No, egli non voleva ammettere questa orrenda verità; egli non poteva rassegnarsi a questa troppo fiera condanna. Come! Gli Orti Esperidi della ricchezza e della potenza verrebbero ad aprirglisi ed egli sarebbe impotente ad entrarvi? Avere dinanzi le onorificenze, la grandezza e la gloria, e precipitare nell'ignominia!.. Doveva esserci un mezzo di salvarlo. La famiglia a cui egli apparteneva rappresentava la potenza sociale: e questa poteva creare a sua convenienza il giusto e l'ingiusto: la sua vita anteriore doveva cancellarsi, non esister più, non aver mai esistito. S'era trascinato miserabil bruco nel letame sociale: ora aveva da svegliarsi farfalla al sole della prosperità. Chi alla splendida bellezza della farfalla domanda conto della sua vile esistenza anteriore di verme? A questa sua riabilitazione l'autorità monarchica, la società, la natura medesima parevagli dovessero concorrere. Egli si sentiva rinnovato, risorto per una meravigliosa palingenesi in un essere degno della sua ventura: perchè gli altri non lo avrebbero voluto accettare come tale? Il miserabile trovatello, senza legami nel mondo, poteva essere condannato e giustiziato come un assassino, ma il nipote d'un ministro di Stato, d'un discendente degli eroi delle crociate, d'un consigliere, quasi d'un amico del Re, non doveva aver nulla di comune con quella sorte ignominiosa: sognava la trasmutazione dell'Ernani di Vittor Hugo, ieri bandito, oggi grande di Spagna.

Si fermò innanzi al marchese e ripetè con voce balzellante per èmpito d'emozione la sua prima richiesta:

– Or bene, quali sono ora le sue intenzioni a mio riguardo?.. Io sono sangue suo; io sono sangue d'una delle più nobili prosapie del regno… Lo sento bene in me!.. L'ho sempre pensato; l'ho sempre saputo! Vedrà zio mio che in me non è tralignata quella pianta.

(All'udirsi chiamare con quel titolo di parentela da tali labbra, il marchese di Baldissero diede in una leggera scossa).

– Il passato che importa? Continuava il giovane. Non esiste più, non ha mai esistito. Quella è la notte, ed ora mi si leva innanzi il giorno. Tutto sarà sepolto nel buio: io sorgerò raggiante nella mia nuova carriera di grandezza… Signor marchese, glie lo giuro sulla sacra febbre della mia ambizione: io mi sento la potenza di soggiogare il mondo.

Don Venanzio gemette innanzi a quell'audace svelarsi d'un feroce egoismo: il marchese mandò un sospiro.

– Ma voi, disse quest'ultimo con solenne mestizia, non avete ancora risposto a quello che vi ho domandato. Siete voi innocente?

Il medichino si trasse indietro d'un passo e si percosse coi pugni chiusi la fronte.

– Innocente! Innocente! esclamò. Ma le dico che ciò non monta… Mi tragga di qua… Gian-Luigi Quercia sarà morto: fra pochi anni sarà perfettamente obliato, fuorchè, come una leggenda, nella memoria dei miserabili… Maurilio di Valpetrosa, poichè quello è il mio vero nome, comparirà essere novello sulla scena più elevata del mondo… Non sono che al principio della mia giovinezza… Posso bene sottrarmi per un lustro, a prepararmi, oscura crisalide, alla mia grandezza avvenire… Mi mandi in Francia: andrò soldato in Algeria; mi sacrerò cavaliere al fuoco delle battaglie: sento nelle mie vene il sangue dei prodi nostri avi, signor marchese: cimenterò il mio nuovo nome al battesimo del valore; tornerò coll'illustrazione della gloria, glie lo prometto.

 

Baldissero levò il suo viso improntato di severità e disse con accento solenne:

– Ma se voi siete colpevole, ciò tutto non toglierà che alla nostra famiglia abbia appartenuto un…

Non disse la parola, ma Luigi la lesse nell'espressione inorridita dello sguardo, nella piegatura dolorosa delle labbra. Il medichino non osò più sostenere l'incontro degli occhi del marchese.

Questi, dopo un poco, ripigliava con crescente imponenza e gravità:

– E la giustizia, a cui dovete pagare il fio? Perchè credete voi potervi ad essa sottrarre?

– La giustizia è il ragnatelo. Debole moscerino vi sarò impigliato; mi si aiuti a valermi delle mie ali di falco e vi passerò trammezzo…

Il marchese scosse gravemente la testa.

– Al Re medesimo dissi non è guari che nessuna considerazione avrebbe dovuto sottrarvi alla azione delle leggi: e quello che dissi allora penso anche adesso.

Gian-Luigi scoppiò in queste orribili parole:

– Ella dunque lascierà suo nipote, il figliuolo di sua sorella salire il patibolo?..

A questa cruda confessione di colpevolezza, Baldissero impallidì ancora di più, ma stette come il Farinata di Dante nell'inferno; Don Venanzio mandò un gemito e levò le mani congiunte al cielo.

– Sì, continuava con impeto Gian-Luigi, cui la emozione di quel gravissimo momento aveva tolto il possesso ch'egli soleva avere della sua volontà e della sua anima; sì, sono un miserabile, perchè ho impegnato la lotta contro la vostra società che mi aveva scacciato dal suo seno e me ne lasciai vincere. Ma di chi la colpa? Perchè m'avete respinto? M'avete cacciato nel fango e mi condannate perchè ne vengo fuori imbrattato!.. Fin dalla nascita io ho recato meco le aspirazioni verso quel mondo a cui dovevo appartenere, e che mi fu barbaramente precluso. Sentivo che era mio diritto il penetrarvi, e quando mi vi affacciai conobbi che ogni sforzo sarebbe stato inutile al trovatello per farvisi luogo, e che soli mezzi gli rimanevano da ciò l'inganno e il delitto… Credete voi ch'io mi vi sia deciso senza strazianti dolori e senza lotte? Quando un bel giorno io mi trovai colle passioni, coi vizi, colle vanità eccitati, irritati, non soddisfatti, senza più un centesimo, in faccia ad una società che schernisce il povero ed il debole; anche a me per prima si affacciò l'idea volgare del suicidio. La somma lasciatami dal medico del villaggio aveva bastato appena a farmi delibare la coppa de' piaceri mondani: la sete se n'era accresciuta e non avevo più mezzi da accostarvi le labbra desiose. Il lavoro era mezzo troppo lento e di troppo miseri effetti. Mi cacciai, come in una voragine, in una casa di giuoco. Perdevo: l'oro esercitava su di me il suo fascino infame ed irresistibile; e vedevo passarmi dinanzi le orde sonore delle monete e sfuggirmi. Avrei dato l'anima al demonio: un arrolatore dell'esercito del male, uno dei capi della segreta congrega dei ribelli sociali mi lesse nel cuore, mi trasse in disparte, mi tastò l'animo indolorito ed infierito, mi espose bruscamente in termini grossolani la teoria delle vicende terrene che incominciava ad essere la mia. Vi è una lotta universale nella creazione organica: tutto quello che vive s'alimenta e si vantaggia di organismi più deboli del suo. L'uomo sfrutta tutto il resto della creazione, appunto perchè si trova al fastigio della medesima: col medesimo diritto l'uomo che è più forte, più accorto, più audace può vantaggiarsi del più debole, più stupido e più timido. Il tentatore cominciò a propormi ed a mostrarmi a giuocare di baro. Divenni maestro nell'arte in breve, e dividemmo i guadagni. Una sera, uscendo dal giuoco, carico appunto d'oro, venni assalito da un assassino, che mi fece luccicare innanzi agli occhi la lama d'un pugnale. Colla destra afferrai la mano che stringeva l'arma, colla sinistra il collo di quell'uomo, e l'ebbi in un attimo messo a terra presso a basire strangolato. Sopraggiunse in quella, per sua fortuna, il mio complice, e lo riconobbe.

« – Graffigna, gli disse, ti sei male indirizzato; costui è dei nostri e tu vedi che polso è il suo.

«Lasciai andare il mio assalitore che si scosse come un cane che vien fuor dall'acqua.

« – Signore: mi disse umilmente, raccattando per terra il suo pugnale: vedo proprio che ho sbagliato e glie ne domando mille perdoni. Ella d'or innanzi ha la mia ammirazione e può contare sulla mia servitù.

«Que' due appartenevano ad una vasta associazione di malfattori che stavasi appunto riordinando e cercava un capo autorevole, coraggioso, intelligente. Non vi dirò tutte le fasi per le quali sono passato prima di diventar io quel capo. Il male, il delitto è una macchina tremenda di ruote e di rocchetti, i cui denti imboccano, e guai chi se ne lascia pigliare pur per un solo lembo del vestito! La forza cieca, meccanica lo trae, lo trae finchè tutto lo ha preso e maciullato. E poi m'ero fatto un concetto più grandioso di quella guerra che avevo bandito agli ordini sociali e degli effetti della medesima… Mi allontanai per due anni da questa città… Quando vi fui di ritorno ero il capo supremo della cocca. Quell'attività, quell'intelligenza che ho impiegato nell'opera del delitto, che cosa non avrebbero ottenuto se, rincalzate dall'autorità di potenti aderenze, dall'influenza d'un grado, le avessi rivolte in aiuto della società esistente?.. Che cosa non potrei ancora ottenere se mi si accetta, non ostante il mio passato, nel campo degli onesti?

– E ciò è impossibile: interruppe severamente il marchese. Nessuno può fare che il passato non sia. L'avete detto voi stesso testè: ogni uomo deve portare la responsabilità de' suoi fatti. Io qui non sono per giudicarvi: ma vi giudica la coscienza civile rappresentata dalla giustizia umana. Avete violate le leggi della società, questa vi bandisce dal suo seno; nulla si può mutare; quello che deve compirsi si compia.

L'esaltazione a cui era stato in preda fin allora Gian-Luigi sparì ad un tratto; egli si lasciò cadere sopra una seggiola, ed esclamò coprendosi colle mani la faccia:

– E dunque mi si lascierà morire? Dunque non si vuol dare i mezzi ad un'anima come la mia di rigenerarsi e compensare il male? E Lei, marchese, lascierà che la mia ignominia sprizzi fino sul suo blasone?

Successe un istante di penoso silenzio, cui poscia fu Don Venanzio a rompere.

– L'anima umana si rigenera col pentimento, il male si espia colla punizione: disse il buon vecchio prete. Subir questa con rassegnazione, curvandosi ai voleri di Dio, è indizio ed effetto di quello. Pentimento ed espiazione conducono al perdono. Siamo deboli pur troppo noi uomini e le arti dell'eterno nostro nemico sono potenti: ma dall'altra parte immensurabile è la misericordia di Dio, e nessuno di noi può dire dov'ella si arresti e che pure abbia limiti. Se dunque vi è la speranza, anzi la certezza del perdono per tutti, vi è pure la necessità di subire la pena per tutti quelli che fallirono; o sarebbe lesa la giustizia.

– Voi avete dichiarato alla società costituita una guerra, come diceste voi medesimo: così parlò a sua volta il marchese: e rimaneste vinto. Ma voi meglio d'ogni altro, voi di più vivido ingegno, di maggiore istruzione del volgo, sapevate a quali rischi andavate incontro, qual posta mettevate al giuoco, quali conseguenze affrontavate. Avete perduto…

Il medichino levò il capo e interruppe vivacemente con un fiero sorriso:

– Bisogna pagare. Ella ha ragione.

Guardò bene in volto il vecchio gentiluomo e soggiunse, parlando lentamente:

– E dunque che sarà di me verso la famiglia, e della famiglia verso di me?

– Quello che vorrete voi medesimo. La famiglia non rifiuterà di affermare pubblicamente il vero, quando voi lo esigiate, quando a voi piaccia si gravi su di lei una parte di disdoro con nessuna utilità vostra…

Negli occhi di Gian-Luigi corse un lampo.

– La comprendo: diss'egli vivamente; ed affondato di nuovo il volto nelle palme delle mani, stette un poco meditando.

La cristiana santità di quel vecchio povero prete vero seguace del Vangelo, la rigida onestà e la severa onoratezza del vecchio gentiluomo facevano intorno al giovane un ambiente, per così dire, di tanto pura e sana e morale influenza, che tutto quello che v'era ancora di generoso nella traviata e sedotta di lui natura si ridestò, fu suscitato ed ebbe in quel punto nuova e maggior forza che mai.

– Ebbene: soggiunse egli poi levando il capo e sorridendo amaramente: che importa egli al mondo che il figliuolo della marchesa Aurora sia ritrovato o no? che importerà a me medesimo si sappia, se ciò non avrà da mutar per nulla la mia sorte?.. Ch'io scompaia ignoto ed ignorato, portando meco nel sepolcro il mio segreto e l'onore soltanto d'un miserabile plebeo che non ha nome… Hanno essi un onore quella razza di gente?.. Avrò fatto alla famiglia che mi ha rigettato ancora questo sacrificio… Io non sono che il misero trovatello, signor marchese, si rassicuri: e morrò come tale.

Spiegò bene i due squarci di lettera che aveva ancora tra mano; li raccostò e li tenne innanzi agli occhi alcuni minuti quasi leggendo e rileggendo lo scritto parecchie fiate, poi disse scuotendo mestamente il capo:

– Ecco tutto ciò che mi rimane del padre mio; ecco tutta la mia eredità nel mondo… Povero mio padre!.. Se tu avessi vissuto che cosa avresti fatto di me?

Baldissero che aveva versato il sangue di Valpetrosa, a queste parole che gli ricordavano efficacemente la risponsabilità ond'era aggravato, sentì più viva la fitta del rimorso.

Gian-Luigi accostò quei due pezzi di carta ingiallita alle labbra e ve li premette con passione.

– Addio! Addio memoria di mio padre. Oh potessi credere che tu esisti ancora, essere che fosti qui in terra l'autore della mia vita, e che un giorno ti potrò vedere e conoscere!.. Addio tu pure, pensiero della madre mia; addio per sempre: voi non esistete più; tutto ha da essere precipitato nella notte dell'oblio.

Colle mani convulse stracciò in minutissime parti quella lettera e ne sparse al suolo i pezzetti; una lagrima, una lagrima sola colò lentamente sulle sue guancie pallidissime che parean di marmo.

Il marchese si alzò e disse con accento commosso e molto nobilmente:

– Vi ringrazio.

Parve che volesse tendere al prigioniero la mano; ma se ne trattenne.

– Or dunque tutto è finito per me: esclamò con voce tremante quel misero: ogni mio legame con questo mondo è sciolto…

In quel punto, per effetto d'una di quelle complesse visioni della mente che abbracciano un mondo indefinito, passarono innanzi a lui le immagini del suo passato sin dall'infanzia, e l'immagine di quello che avrebbero potuto essere la sua vita e il suo avvenire.

– Oh giovinezza! soggiunse: oh mie sciupate forze di volontà e d'ingegno!.. Meglio non avessi abbandonato mai Lei, Don Venanzio, e il villaggio e la povera vecchia Margherita… Ma l'istinto del sangue mi spingeva. Mi sentivo della razza dei leoni…

Scosse le spalle con superba mossa da angelo fulminato.

– Ma il rimpiangere che giova?.. Fu il destino che così volle… No, io non rimpiango nulla… Sono vinto, non sono soggiogato… Guarderò in faccia la mia sorte fino alla fine col sogghigno che merita questa irrisione di casi che è la vita.

S'interruppe e cambiò tono.

– Sì, v'è pure alcuna cosa che rimpiango. Alcune anime generose mi hanno amato, ed io fui empio e scellerato per esse. Povera Ester! (e represse un sospiro). Povera Maria!.. Povera Candida!.. Le ho odiosamente ingannate e tradite… Vorrei potere a ciò rimediare… e non ce n'è mezzo nessuno…

In quella si ricordò delle lettere della contessa di Staffarda, che possedute, com'egli credeva ancora, dalla Zoe, erano per la misera donna una minaccia continua.

– Ah sì, soggiunse, alcuna cosa posso pur fare in favore di una di esse.

Domandò di scrivere poche parole; e il marchese potè dargli un fogliolino di carta ed una matita; Gian-Luigi scrisse alla Zoe l'ordine, la preghiera di restituire alla contessa le lettere, e di non tormentarla altrimenti. Don Venanzio accettò l'incarico di portar egli stesso in persona alla Leggera quella carta che doveva por fine agli spasimi ed agli sgomenti d'una povera anima: e già vedemmo quali ne fossero gli effetti.

– Ed ora: disse finalmente Gian-Luigi; prego che mi si lasci solo.

Il marchese ed il parroco partirono, quest'ultimo promettendo di tornare a visitare il prigioniero quante più volte gli fosse concesso; e il medichino venne ricondotto nella sua segreta.

Quel che passasse nell'anima sua chi lo potrebbe descriver mai? Certo furono spasimi che dovettero contare come parte migliore della dovuta espiazione innanzi alla clemenza di Dio: ma il segreto di quella tormentosa meditazione fu tra lui, tra l'anima sua e Colui che tutto vede.

 

Quando i secondini entrarono, parecchie ore più tardi, a portargli il cibo giornaliero, lo trovarono steso sul giaciglio bocconi, la faccia premuta contro la coperta di lana ravvoltolata. All'invito che il secondino gli fece di mangiare, non si mosse punto.

– La è malata? domandò il carceriere.

Il medichino agitò la testa con un atto impaziente che indicava egli non desiderar altro che di essere lasciato stare.

Alla visita della sera, ed ore parecchie erano trascorse, fu trovato ancora nella medesima postura, immobile come un cadavere; e i cibi erano intatti. Il guardiano gli si accostò alquanto sbigottito e lo toccò sovra una spalla: Gian-Luigi sussultò come se fosse stato bruciato da un ferro rovente, e volse verso il carceriere una faccia in cui tanta era l'ira, e tanto insieme il tormento che pareva il sembiante di Satana fulminato. Il secondino s'arretrò intimorito e s'avviò senz'altro per uscire; ma quando fu all'uscio si ricordò che aveva una comunicazione da fargli.

– Debbo avvertirla che domani cominceranno i pubblici dibattimenti del suo processo.

Gian-Luigi si drizzò di scatto.

– Domani? domandò con emozione.

– Sì.

– Va bene.

Il guardiano uscì e il prigioniero stette ad ascoltare con una specie d'interesse il rumore delle serrature che si chiudevano, dei paletti che scorrevano; poi si mise a passeggiare nella sua oscura celletta su e giù, proprio come una belva in gabbia. Comparire al pubblico dibattimento, agli occhi curiosi di tanta gente, spettacolo miserando a quel mondo ch'egli aveva voluto dominare e cui abborriva e disprezzava! Gli era un primo supplizio, quello della gogna; gli era un'anticipazione di quell'ultima ignominiosa scena che aveva da conchiudere la sua vita, sull'infame legno del patibolo. Egli fremeva e rabbrividiva; aveva delle fiamme e dei geli che s'avvicendavano lungo i suoi nervi, entro le sue vene; sentiva la passione morale tradursi in dolori fisici che cominciando dal cervello si propagavano per tutto il suo organismo. Pensò a morire; ma come? Misurò la sua cella; non c'era spazio bastante da prendere un aire di tanta forza da fracassarsi il capo alle pareti: ed egli non voleva a niun conto il ridicolo d'un suicidio non riuscito, il quale poi avrebbe ancora preclusagli la via ad altri tentativi: e nel suicidio oramai era la sola sua speranza.

– Sosterrò anche questa prova: si disse: affronterò gli sguardi di tutta quella canèa di curiosi, la cui onestà non è che codardia; a quelle virtù bacate, a quelle infamie nascoste che si atteggiano a gente onorata, farò abbassare gli occhi sotto il fuoco de' miei e li atterrirò ancora colla mia audacia.

Al mattino volle fare un'elegante acconciatura quale d'un giovane di garbo e di buona società che si reca a far visite di rispetto; e quando lo si venne a prendere nella carcere per condurlo alla sala del pubblico dibattimento, aveva la figura tranquilla e il calmo sorriso d'un uomo sicuro di sè, che non ha rimorsi, nè timori, nè manco soggezioni.

Traversando i corridoi, i suoi occhi incontrarono ad uno svolto quelli affondati del Sott'Ispettore Barnaba.

– Signore, disse Gian-Luigi, accostandosegli. Potrei io avere un colloquio con voi?

Barnaba s'inchinò in segno d'assenso.

– Quando?

– Quando avrete avuta la vostra condanna di morte.

Il medichino fece un superbo sorriso, mosse leggermente il capo, come per dire «sta bene;» e passò.