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La plebe, parte IV

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Märgi loetuks
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– Oh sentite: disse ad un punto il giovane impazientito: mi è avviso che voi sciupate il vostro tempo, e che a me, quel poco che mi rimane, non me lo lasciate così piacevolmente occupare come si potrebbe. Io non credo a nulla, nè a Dio, nè a diavolo, nè alla mia anima, nè alla vostra, e non credo neppure al vostro zelo, nè alla vostra buona fede. Quello che voi volete si è conseguire il vanto di aver ottenuta la meravigliosa conversione del famoso scellerato di cui parla tutta la città. Bene, facciamo un patto. Tutto a questo mondo è finzione; ed ogni uomo sostiene una parte mostrandosi diverso da quello che è: io non ho fatto altro nella mia vita che rappresentare la commedia, posso bene terminarla acconciandomi ad un'ultima finzione in un ultimo episodio. Gli uomini che tutti non vogliono altro che ingannare altrui, non meritano altro che di essere ingannati. Lasciatemi tranquillo ed io farò da convertito, e domattina mi adatterò a tutte le scioccherie che voi vorrete. Il mondo sarà edificato, e la brava ignoranza del volgo popolerà il paradiso d'un beato di più.

Il gesuita non rispose; pareva che pensasse ad altro; quando verso l'uscio fu udito uno scalpiccio ed un bisbiglio; i due personaggi di questa scena rivolsero a quella parte un'occhiata e videro due persone che volevano entrare, ed a cui i fratelli della misericordia impedivano il passo, dicendo:

– Pel momento non si può; sta col confessore.

Padre Bonaventura vide una di quelle persone vestita de' panni neri del prete, e parlò ad alta voce, tanto da essere udito anche da chi stava sulla porta:

– Diletto figliuolo, oh come benedico Iddio di aver data alle mie povere parole tanta forza da avervi tocco il cuore, sgombrata la nebbia dalla mente, e fattavi scorgere la luce sublime della nostra santa religione!..

Gian-Luigi represse una risatina, scambiò col frate uno sguardo profondo in cui quelle due anime si penetrarono, e disse sottovoce:

– Ad impostore, impostore e mezzo… Il patto è dunque accettato.

– Volete ch'io dica qualche cosa al marchese di Baldissero?

– Ditegli che ho tenuto parola…

Ma in quella il condannato riconobbe quali erano le persone cui i confratelli della misericordia impedivano dall'entrare, e si slanciò vivamente verso di essi.

– Lasciate, lasciate passare… Madre mia! Mio buon Don Venanzio, venite, venite.

Entrarono la vecchia contadina ed il vecchio parroco del villaggio. Il gesuita, dritto in piedi, si trasse un poco da un canto, e rimase lì ad osservare.

Margherita non pronunziò parola: il suo non fu che un gemito: si gettò al collo del giovane e scoppiò in pianto dirotto, quantunque a vederne le ciglia rosse, le occhiaie infossate, le pupille spente si sarebbe detto che quella donna aveva già pianto tante lagrime da esaurirne la fonte.

Il condannato la guardava e l'accarezzava con aria di profonda e tenera compassione.

– Via, via: diss'egli poi con voce commossa: fa cuore, povera donna!.. Dovresti tu piangermi così? Dovresti tu ancora amarmi cotanto?.. No certo. Io sono stato per te il più sconoscente dei figliuoli: mi avresti dovuto cancellare dalla tua memoria e dal tuo cuore. Gli è dunque che tu sei organicamente costituita per amare, come la pianta per fiorire e l'ape per raccogliere miele.

La povera vecchia non capiva nulla, non dava retta a nulla, non faceva che piangere e stringere a sè il giovane, come se temesse venissero allora a strapparglielo dalle braccia, ed essa lo volesse difendere contro tutti e contro tutto.

– Oh quanto ora mi duole, soggiunse Gian-Luigi, di non averti rimeritata come avrei dovuto.

Don Venanzio, che aveva udito entrando le parole di frà Bonaventura ed aveva sentito allietarsi il cuore nella credenza della conversione religiosa del giovane, prese le ultime parole di costui come un'espressione parziale di quel pentimento che la nuova fede riacquistata aveva suscitato nell'anima del reo, e si confermò nella lusinghiera opinione da lui concepita del ravvedimento di Gian-Luigi e della sua acquiescenza alle verità della fede.

– Giovanni: disse il buon vecchio commosso; riconoscere i proprii falli è il primo atto di chi si pente e sta per purgarne l'anima sua. Quella medesima ingratitudine che ora confessi verso la donna che ti fu amorosissima madre di adozione, l'hai avuta verso la Provvidenza che ti fu larga di tanti doni…

– E sopratutto d'una così bella sorte: soggiunse amaramente Gian-Luigi.

– Ella volle colla medesima porre al cimento l'anima tua: riprese vivamente il parroco, a cui le parole del giovane tornarono di botto il timore che la conversione di lui non fosse così certa come s'era lusingato. Ma il medichino, che non bramava ricadere in quei discorsi, si affrettò ad esclamare con tono d'ipocrisia che la sua abitudine di fingere faceva naturalissimo:

– Lo so, lo so; e benedico appunto quella buona Provvidenza, che traverso tanto succedersi di vicende mi ha menato a questo punto. La si rallegri anco Lei, caro Don Venanzio, che ha la bontà d'interessarsi alla salvezza della miserabile anima mia: io ho aperto gli occhi alla luce della verità, ed ecco il benemerito che colla sua dialettica, colla sua eloquenza veramente ispirata da lassù, ha eseguito su di me questa operazione di cataratta morale.

Accennava ciò dicendo a Padre Bonaventura, il quale nell'angolo dove s'era ritirato e stava ad osservare ogni cosa, prendeva una mossa tutto modesta, avvolgendo in un'ostentata umiltà di cristiano e di frate il merito e il vanto dell'allegata sua vittoria sull'errore. Nelle parole del condannato c'era una finissima beffa, e nell'accento una velata ironia, cui ben sentì lo spirito arguto del gesuita, ma di cui non s'accorse menomamente la bonaria semplicità e la buona fede della candida anima di Don Venanzio.

Questi si rivolse adunque verso il frate, e con vera espansione di affetto ammirativo, quasi di riconoscenza, gli disse:

– Permetta che anch'io, il più umile dei servi del Signor nostro che è ne' cieli, la ringrazi e la benedica per questa sua così bella e felice opera di carità. Io veniva qui piegando sotto il grave carico che credevo Dio mi avesse imposto: quello di condurre alla verità quest'anima miseramente traviata, e sentendo impari al còmpito le deboli mie forze. Ecco che pietoso Padre di lassù ha suscitato a tempo Lei per ottenere questa difficile vittoria, ch'io avrei forse invano cercata. Sia lodato e benedetto il Nome dell'Altissimo, e lasci ch'io nell'opera sua, reverendo, riconosca ed adori la clemenza e l'onnipotenza divina.

Tese una mano al frate, il quale pose in essa la punta delle sue dita.

– Sì: disse poi Padre Bonaventura con maggiori le mostre della sua ipocrita umiltà, torcendo il collo, serrando le labbra, alzando di traverso gli occhi al soffitto: io non sono che un misero stromento di cui piacque servirsi al Signore. Io non riconosco altro merito in me, ed innalzo al trono del Creatore i più fervidi rendimenti di grazie.

Il medichino ebbe di nuovo sulle labbra il più perfido sogghigno mefistofelico: ma per fortuna Don Venanzio non lo vide.

– Ella ha forse già udito in confessione questo infelice? domandò il parroco al gesuita.

– Sì: rispose quest'ultimo scambiando uno sguardo d'intelligenza col condannato: e domani prima dell'alba tornerò per recargli il santo viatico ed accompagnarlo fino all'ultimo passo tremendo.

A questo ricordo dell'orribile fatto che attendeva Gian-Luigi, Don Venanzio ebbe un brivido in tutta la persona, Margherita mandò un gemito, il condannato solo stette impassibile, ma un sospetto gli attraversò la mente.

– Che costui sia mandato dal marchese per custodire sulle mie labbra il suggello affinchè non ne sfugga il segreto della mia nascita? Pensò egli, e un vivo interno dispetto diede uno speciale bagliore allo sguardo con cui ricevette l'addio affettatamente affettuoso con cui lo salutava il gesuita; il quale saputo ciò che lo interessava, si sentiva ora disagiato a star lì fra l'ironia diabolica del condannato, e l'angelica buona fede del parroco del villaggio.

– Questo taumaturgo convertitore: disse il medichino, senza più dissimulare la sua malvagia beffa, quando il frate fu partito: è dunque molto famigliare del marchese di Baldissero?

– Sì: rispose il buon prete che non capì la ragione di questa domanda: aveva già molta attinenza con quella famiglia fin dal tempo del fu marchese padre dell'attuale.

– Gli è perciò che questi volle affidata a lui sì nobile missione… Lei, Don Venanzio, è troppo buono e troppo onesto perchè l'accettasse e fosse capace di compirla.

Il parroco allargò tanto d'occhi.

– Che missione? domandò egli: quella di convertirti?.. Ah! gli è lungo tempo che pregavo il Signore me ne rendesse degno e mi accordasse la forza e l'abilità di sostenerla…

– No: disse bruscamente Gian-Luigi: si tratta d'una missione meno nobile a cui la sua delicatezza avrebbe disdegnato, caro Don Venanzio; il marchese non si fida della mia parola e mi ha mandato intorno quell'ipocrita d'un frate a sorvegliarmi, perchè io non racconti a nessuno il segreto dell'esser mio.

– Che di' tu mai? esclamò il parroco in una meraviglia che pareva quasi spavento. Il marchese, sappilo, è incapace di un simile tratto, e quel santo religioso non si assumerebbe mai una tal parte.

– Quel santo religioso! interruppe con un ghigno il condannato a cui scappò la pazienza. Quel birbo d'un gesuita, mio caro Don Venanzio, è il più matricolato impostore che sia stato mai sotto la cappa del cielo.

E raccontò in breve con parola vivace e risentiti colori ciò che poc'anzi era intravvenuto fra lui e il frate.

A Don Venanzio, cui questa cosa tornava incredibile, parve di fare un brutto sogno.

– È impossibile! andava egli esclamando, le mani levate in alto nell'espressione dell'orrore da lui provato a siffatta rivelazione: non può un ministro di Dio scendere sì basso, tradire così il suo dovere, mentire nella più sacra cosa ch'egli abbia!

 

E poichè Gian-Luigi ebbe confermato con solenne asseveranza il suo dire, il vecchio sacerdote, dolorosamente sbigottito, uscì a domandare:

– Ma dunque non è punto vera la tua conversione? Non è punto vero il tuo pentimento?

– Conversione! Pentimento! disse il condannato con amarissima ironia. Mi lasci esser sincero, Don Venanzio: è nel mio carattere, e mi è debito in queste ore supreme il dire audacemente la verità. S'io fossi riuscito nell'opera che avevo intrapresa – opera assai più vasta e terribile di quanto il pubblico crede e i giudici hanno appurato; – mi sarei io pentito? avrei avuto rammarico dei mezzi adoperati? No certo! Ho comune con quella setta di cui veste la tonaca ed ha i pensieri ed usa gli accorgimenti quell'ipocrita che è testè uscito di qua, ho comune coi gesuiti, dico, il principio che qualunque sieno i mezzi, poco importa, purchè si arrivi alla meta… Mezzi buoni e mezzi cattivi… Ma nulla è di assoluto per l'uomo, e il male non è che un particolar modo di vedere e di sentire secondo le epoche, l'educazione, le diverse qualità di razza, di temperamento, d'intelligenza. Quando la maggior parte degli uomini si accorda a dir male una cosa, ha il diritto colla forza che dà il numero di imporre la sua credenza altrui. Sia: tutto è dominio della forza quaggiù e finchè un'altra forza non la vince, governi il mondo morale quell'opinione e punisca i violatori della sua ortodossia: ma il vinto, il punito, ha pur diritto nel suo foro interiore di protestare, di serbare la sua credenza, di pensare come vuole. Me colpisca pure la dominante prepotenza sociale, ma la non può farmi da me rinnegare me stesso, condannare il mio fatto, smentire la mia individualità. Io non mi converto e non mi pento.

Don Venanzio levò al cielo le palme con mossa d'uomo inorridito.

– Oh sofismi orgogliosi dell'errore! esclamò egli. Ma sventurato che tu sei!.. Ciò che è male non ti accusa e denunzia la tua stessa coscienza?

– Che cos'è che chiamano coscienza gli uomini? Per molti – per quasi tutti – è un'intima, inconscia viltà; è il residuo di vane credenze e paure istillate nell'animo umano dalla presente educazione infantile e delle quali, tanta è l'impronta, rimane pur sempre in ognuno, checchè si faccia, un ricordo. La coscienza del cristiano è diversa da quella del musulmano, questa da quella del buddista, e diversa da tutte è quella del selvaggio che non ha punto, od appena se un adombramento d'idee religiose. È dunque la nostra coscienza l'arbitro per ciascuno del bene o del male? E se la mia coscienza mi lascia tranquillo, egli è segno quindi che non è male quel ch'io ho fatto?

– Perchè tu l'hai pervertita dall'influsso delle inique passioni, dai sofismi del tuo intelletto, ribelle al suo Creatore.

– E perchè le passioni non sarebbero esse una scorta verso il vero fine dell'esser nostro?

– Lo sono, quando contenute nei limiti dal timor di Dio e dall'amor del prossimo… L'idea del bene non è una chimera, perchè trovasi in tutto il genere umano, a qualunque grado di coltura sia giunto. Anche il selvaggio che tu citavi poc'anzi, ha in fondo in fondo alle poche sue idee una nozione confusa, incerta, ma pure essenziale, del bene e del male. A seconda che l'uomo progredisce, quest'idea si fa più netta, più complessa insieme e più giusta; finchè la nostra santa religione ce ne dà la più compiuta e perfetta, perchè l'ultima espressione del vero, perchè rivelata da Dio.

– E chi non ci crede è dannato! esclamò con diabolico sogghigno il medichino.

Margherita non aveva parlato più, non s'era nemmeno mossa più sino allora; la teneva fra le sue una mano del giovane, e cogli occhi umidi lo stava contemplando, mentre il suo povero vecchio capo tremolava sul suo collo magro e in giù chinato dal peso degli anni. Ella non capiva molto le cose che dicevansi fra il parroco e il suo figliuolo d'adozione: la sua mente era troppo oppressa perchè potesse afferrare quelle idee, che in realtà eccedevano eziandio l'arrivo della sua intelligenza, e l'unico pensiero immanente, incessante che la possedeva era quello della morte incombente sul capo del suo caro. Ma a quella esclamazione di Gian-Luigi un raggio le penetrò di botto nel cervello abbuiato, e le fece scorgere la sostanza dei discorsi cui non aveva capito. Si trattava della salvezza del suo Giannino, e di una salvezza ben più importante di quella della vita, della salute eterna. L'idea che il dilettissimo giovane avrebbe potuto essere colpito da un'irrimediabile eternità di pene la colse allora per la prima volta, e spaventò a dismisura la sua cieca e fervente fede di cattolica.

– No, dannato: gridò ella con indicibile sbigottimento: no, Giannino, tu non hai da essere dannato! Non voglio saperti nel fuoco dell'inferno… Pazienza io!.. Darò piuttosto la mia anima al demonio, in cambio della tua… Ho già meritato la collera di Dio con un falso giuramento per giovarti: Don Venanzio mi disse che il Signore, mercè un buon pentimento, mi avrebbe perdonata… Perdonerà anche te, figliuol mio: è così buono e clemente il Signore!.. Domandane al nostro parroco: dà retta a quel che ti dice: pentiti e Dio ti accoglierà, anche te, nel suo regno… Pentiti, te ne prego, pentiti per amor mio, se non vuoi farmi dannata anche me… Io già nel paradiso non ci vo' stare, se non vieni anche tu… Vuoi tu farmi precipitar nell'inferno?

E stringeva le mani del giovane, e pregava oltre che colle parole, collo sguardo, e singhiozzando, agitava più che mai nel suo tremolìo della vecchiaia il povero capo canuto.

Il condannato le fece una carezza.

– Sta tranquilla, povera donna! Nel mondo di là, non avrai niun dispiacere da me per questa – nè per altra cagione, te ne assicuro io. E tu ed io, non dubitare, saremo tutti salvi ad un modo.

Poi si rivolse al prete.

– Una buona confessione adunque, l'assoluzione datami da un uomo mio pari scancellano agli occhi di Dio ogni colpa e mi farebbe degno della beatitudine eterna. E così quello che fu uno scellerato tutta la sua vita – Nariccia per esempio – con dieci minuti di pentimento, quando sente la vita sfuggirgli, e con qualche cerimonia, ricompra tutto il suo passato, compensa tutto il male che ha fatto e va dritto a prender posto in mezzo ai santi, mentre l'uomo che per tutta la vita fu saggio ed onesto, anche secondo quei dettami di morale di cui la maggioranza dell'umanità ha idea, se muore negando fede, oppur serbando un dubbio soltanto a qualcheduna di quelle assurdità che il sacerdozio vuole imporre alla sua ragione come dommi indiscutibili, si trova eternamente dannato.

– Questo chi lo può assicurare? disse il parroco tanto mite d'indole e d'anima sì generosamente pietosa che sentiva non dover metter limiti alla clemenza di Dio. Quel di lassù vede meglio di noi lo stato dell'anima che si presenta al suo giudizio e sa adattare ai meriti di essa la sorte che le conviene. Infinita inoltre è la sua bontà…

– Ah non dica: interruppe il medichino uscendo da quella ironica freddezza con cui aveva parlato sino allora, e dando al suo accento una vivacità che toccava all'indegnazione: infinita bontà la sua, mentre è articolo di fede la eternità delle pene! È una crudele contraddizione. Come! Per gli errori di una vita che è un soffio, che è un nulla al cospetto del tempo senza fine, la mia anima immortale sarà perduta eternamente, senza più rimedio, senza possibilità nessuna di riabilitarsi; il destino della mia immortalità sarà deciso dal breve esperimento d'un attimo ed irrevocabilmente. Dopo un passaggio nella volgare esistenza terrena, le anime piomberanno nell'inerzia eterna, queste – le poche – felici sempre, quelle – le moltissime – sempre tormentate? Un istante d'operosità senza causa in mezzo al nulla da una parte, all'ozio infinito dall'altra. E sopra i dannati a cui si rinnovano sempre più crudeli i dolori, Dio immutabile e compiacentesi, autore del male. E questa è per loro la suprema bontà?

Il buon parroco, a questo punto, tacque un poco, non senza qualche imbarazzo. Era questo un argomento che agiva di molto, non tanto sulla capacità del suo intelletto, quanto sulla bontà del suo cuore.

– Vogliamo noi, misere, deboli, insipientissime creature che siamo, comprendere, giudicare, misurare alle povere idee che possiamo aver noi l'Ente supremo, infinito, assoluto, il Creatore di tutto, e le sue qualità, e, mi perdoni l'Altissimo, i suoi doveri?

Troppo lungo e fastidioso sarebbe riferir tutte le parole che intorno a questo argomento si scambiarono tra il prete e il perverso spirito impenitente dell'assassino, in mezzo a' quali frappose le sue lamentazioni anche la povera Margherita. Ma nè le ragioni e le esortazioni del sacerdote, nè le preghiere della vecchia contadina valsero a smuovere pur di un punto la pertinace incredulità di Gian-Luigi, quando, verso sera, un altro personaggio entrò nella cella che serviva di confortatorio al medichino: Maurilio.

Era un moribondo che camminava: le sue membra tremavano, e il passo vacillava come quello di un ebbro. Era la forza della volontà, avreste detto anzi che era una potenza superiore, estrinseca all'individuo, che reggeva quel corpo sfibrato, che conteneva e faceva funzionare quell'organismo. Aveva dei movimenti automatici, ora bruschi, ora incerti come se determinati da molle e da suste di un meccanismo guastatosi. Recava seco nel color delle guancie, nella macilenza del viso qualche cosa di sepolcrale, quasi avreste detto un odore di fossa; il dito della morte era chiaramente impresso su quella fronte che pareva diventata più ampia, su cui parevano drizzarsi più irti e stecchiti i neri capelli. Eppure dal fondo di quelle occhiaie più infossate, raggiava una luce d'intelligenza che era maggiore di quanta possa brillare in occhio umano; e sulla grossolana volgarità di quelle sembianze plebee era sparsa come una fosforescenza, quasi pareva distesavi intorno un'aureola.

Chi lo aveva avvisato di ciò che succedeva, e che quello era l'ultimo giorno dei condannati? Non una voce umana di certo. Tutti gli amici che lo visitavano avevano cura grandissima di non parlargliene, credendo con ciò aggravare e la passione dell'animo suo, e quindi il suo male; ned egli aveva interrogato nessuno: ma ad un punto, dopo circa mezz'ora d'uno di quei sopori in cui cadeva di quando in quando, Maurilio s'era ridesto con una scossa e senza dire pure una parola, disceso stentatamente dal letto, aveva cominciato a vestirsi. A chi ne lo volle impedire e gli fece presente la sua debolezza che non lo avrebbe lasciato reggersi in piedi, il danno maggiore cui questo sforzo avrebbe recato alla sua salute, egli aveva risposto con una fermezza che in lui non era molto abituale:

– Debbo far così – e lo voglio. Ho un gran dovere da compiere. Lo spirito mio protettore mi vi spinge e mi guida e mi sorregge. Esso mi darà la forza. Lasciatemi andare.

Nulla valse a rimuoverlo dalla sua volontà, e il marchese, che dovette acconsentirvi ancor egli, ottenutagli quella licenza, ch'ei desiderava, di visitare i condannati a morte, lo faceva condurre in carrozza fino alla porta della carcere. Per primo domandò vedere Stracciaferro. L'assassino, riempitosi a spavento di cibo e di bevanda, erasi addormentato e russava fragorosamente in una impostatura, con tutte le apparenze d'un uomo briaco morto.

Maurilio si fermò innanzi a lui a contemplarlo, ed una indicibile amarezza gli occupò con forza maggiore di prima l'animo addolorato. Che cosa c'era ancora d'umano, d'intelligente in quella massa di carne abbandonata soltanto agli istinti brutali, alle leggi della materia? Che faceva lo spirito immortale dentro quell'organismo degradato? E quello era suo padre! La fiamma di vita che ardeva in lui s'era accesa a quel focolare; da quel sangue era stato originato il germe ond'egli era prodotto, era carne di quella carne il corpo che ospitava la sua intelligenza, il suo pensiero. Se l'opera educativa di Don Venanzio non avesse cominciato dapprima a far entrare qualche po' di luce superiore nelle tenebre del suo cervello; se la fortuna non gli avesse messo a disposizione i libri del signor Defasi dove il suo spirito s'era affinato, afforzato, innalzato, avrebb'egli resistito alle infami seduzioni del carcere in cui l'avevano fatto precipitare, alle scellerate lusinghe di Graffigna, ai più scellerati consigli della miseria? Figlio di quell'assassino, sarebbe diventato come suo padre: ecco quello che la società avrebbe avuto di lui, se il destino alla tutela di lei soltanto l'avesse affidato.

Uno dei fratelli della misericordia che assistevano il condannato, non sapendo quali attinenze corressero fra questo giovane e l'assassino, attribuì a sola curiosità lo sguardo cui Maurilio fissava sull'addormentato prigioniero, e gli disse:

 

– Questa è proprio una bestiaccia senza lume di ragione: non ha fatto che mangiare a quattro ganascie, ingoiar vino e grugnire: non si è stati capaci nessuno di fargli pronunziare due parole che avessero senso.

Maurilio volse verso colui che gli aveva parlato la sua faccia di cadavere, e rispose mestamente:

– Egli è mio padre.

Il fratello della misericordia fu tanto confuso e mortificato che non seppe aggiunger sillaba: mandò un'esclamazione, e ritraendosi quasi nella sua gran cappa bianca, come se tutto volesse nascondervisi al par della lumaca nella sua conchiglia, si ridusse nell'angolo il più lontano che potè.

Maurilio contemplò ancora un istante suo padre addormentato. Su quella faccia ebriosa, color del mattone troppo cotto, non un'espressione, non un movimento che accennasse soltanto ad una morale sensibilità qualunque: i lineamenti fattisi vieppiù grossolani, che parevan gonfi, che si sarebbero potuti dire turgidi di vino, avevano una placidità stupida da animale bovino che sta ruminando: un respiro grave e romoroso, ma tranquillo e regolare, dinotava in quel quasi mostruoso ammasso di carne una straordinaria potenza di vita organica, materiale. Il nostro giovane guardava quella faccia, ascoltava quel respiro con cuore palpitante, con una ansia angosciosa: ardeva dal desiderio, e raccapricciava per paura d'interrogare quella sfinge imbestialita e di sentirla rispondere; di cercare in mezzo a quella corruzione, a quell'orrore, a quell'ignobile lezzo l'anima d'un padre. Allungò la mano per iscuoterlo ad una spalla, ma se ne trattenne.

– Perchè svegliarlo? si disse. Egli ora è tranquillo e non ha un pensiero che lo crucci: gode già tutti i benefizi della morte senza i dolori dell'agonia. Ch'io aspetti che la natura medesima o la necessità lo richiami al sentimento della sua condizione.

Abbandonò quella cella e domandò di essere introdotto presso Gian-Luigi.