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La plebe, parte IV

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Ma com'avrebb'ella fatto poscia per vivere? Tornare a Torino le ripugnava profondamente: preferiva rimanere dove non si sapesse che suo padre e suo marito erano condannati in carcere per truffa; pose la sua dimora a Milano e cercò lavoro per guadagnarsi la vita. Presto conobbe che non era così facile il trovare questo lavoro, principalmente a lei nello stato di gravidanza inoltrata in cui si trovava. Se non avesse avuto la somma pagatale da Nariccia avrebbe dovuto morire di fame essa stessa, altro che poter bastare alle provviste necessarie pel nascituro, ai bisogni di quest'esso quando fosse venuto al mondo. Ritenne con pena il male acquistato denaro e si tacque.

Aurora frattanto era stata condotta al monastero scelto da Padre Bonaventura. Aveva ella domandato di Eugenia e meravigliatasi assai dell'improvvisa di lei sparizione, ed erale stato risposto da tutti d'accordo che, venuta prima che si credesse a maturanza la gestazione di lei, aveva essa dovuto allontanarsi sollecitamente per disporsi al parto che in quella casa non si doveva, nè si voleva avesse luogo. La spiegazione era affatto naturale, ma tuttavia sembrava ad Aurora che un momento avrebbe pur potuto averlo Eugenia a venirle dare il saluto d'addio, e un intimo sospetto ch'ella si guardò bene dal manifestare ad alcuno, l'avvertiva che par null'altro erasi impedito fra lei e quella donna un ultimo colloquio che pel timore si ripigliasse fra loro quel discorso cui la venuta di Nariccia aveva in sì mal punto interrotto. La speranza convien dire che sia un'edera tenace e vivacissima quando s'attacca al cuore d'una madre e per poco favorevoli che trovi le circostanze pur vive, poichè un vago sentimento di essa, una specie di lusinga continuò ad esistere nel fondo dell'anima di Aurora, cui ella nascose quasi come un tesoro che temesse le venisse rapito, e ad appurare la verità del quale sentimento ella si riprometteva di impiegare ogni mezzo che le si presentasse ed appena potesse.

Modestina Luponi, pagata de' suoi servigi, fu congedata colle più serie minaccie s'ella parlasse, e fra Bonaventura e Nariccia s'incaricarono di vegliare sul suo silenzio. Ella, datasi in preda alla più sregolata vita, non istette gran tempo che cadde nella miseria, vide, come udimmo da lei medesima narrato, volgere a male sua figlia, e visse finalmente di elemosine col raccattato nipotino di cui traeva, come sappiamo, profitto, elemosine alle quali concorreva dapprima la famiglia Baldissero e poi, quando l'attuale marchese, stomacato di lei, proibì la si lasciasse ancora entrare nel suo palazzo, che la aiutava a guadagnare Padre Bonaventura, rimasto sempre con lei in abbastanza intime attinenze.

Aurora stette un anno circa nel monastero. Passato questo tempo, suo fratello tornò di Spagna. La sua anima buona e generosa era tormentata dal rimorso di tutto il male che aveva fatto a quella sorella, cui aveva amato ed amava tuttavia pur tanto. Si adoperò presso il padre affinchè Aurora fosse ripresa come prima in famiglia, posto compiutamente in oblio, come se non fosse avvenuto mai, tutto il passato. Ma il marchese padre disse che non altrimenti sua figlia avrebbe potuto degnamente tornare e non sarebbe tornata alla società che al braccio d'uno sposo, il quale coll'onorevolezza del suo nome coprisse tutto il disdoro dell'episodio trascorso; Aurora da canto suo si mostrò riluttante ad ogni modo a entrare di bel nuovo nel seno della famiglia, in quel luogo pieno di memorie ora tanto dolorose per lei, in mezzo a persone che avevano cagionato la sua irrimediabile sventura. Si rifiutò ella persino a tutta prima a rivedere suo fratello che supplicava caldamente di poterle andare a chieder perdono; e acconsentì finalmente a riceverlo, perchè un nuovo disegno era nato in lei, attinente sempre a quella incerta, irragionevole speranza che pur durava nel suo cuore.

Con qual animo si trovassero a fronte dopo tanto tempo e dopo le cose intravvenute, fratello e sorella, è più facile immaginare che descrivere. Il cuore palpitava ad entrambi, a lui di tenerezza soltanto; a lei parte di commozione nel trovarsi a fronte il compagno della sua infanzia, l'amico più caro della sua giovinezza, parte d'odio nel pensare che quello era pur l'uccisore del suo Maurilio.

I primi minuti del colloquio furono penosamente impacciati. Fu Aurora medesima che dominata dal concepito disegno, diede per prima più animata andatura al discorso. Disse al fratello le sue vaghe speranze, aggiunse che allora avrebbe perdonato a chi le aveva tolto il marito, quando egli le avesse restituito il figliuolo. Il marchese non potè a meno che trovare destituiti d'ogni buon fondamento quei dubbi onde si lusingava l'amore materno d'Aurora: ma pure promise a lei ed a se stesso che tutto avrebbe fatto per venire in chiaro della verità e se la cosa era possibile, egli ad ogni costo avrebbe ritornato fra le braccia della misera madre il bambino.

Per saper qualche cosa in proposito non gli si presentava che un mezzo: quello d'interrogare la persona che da suo padre era stata incaricata di accudire ad Aurora, l'intendente Nariccia; ed il marchese, benchè senza la menoma credenza che i sospetti della sorella avessero ragione, si recò da lui. Nariccia a quel tempo aveva già abbandonato il servizio della casa di Baldissero e si era dato esclusivamente a quel bel traffico d'usuraio che doveva gonfiare sino ai milioni la già rotonda cifra dell'aver suo.

Non occorre dire come alle prime parole che il marchese figliuolo diresse a quel tristo a tal riguardo, egli giurasse, e spergiurasse che il bambino era morto per davvero, positivamente morto, e non c'era più da discorrerne. Il fratello d'Aurora stava per partirsene, quando una subita ispirazione suscitata in lui dal desiderio di non lasciar nulla d'intentato per soddisfare all'assuntosi debito, lo fece arrestarsi e ricorrere ad un argomento che, per la conoscenza cui già aveva del suo interlocutore, sapeva potentissimo sull'animo di lui; promise che se mai questo bambino non fosse morto e venisse ritrovato, si sarebbe disposti a ricompensare chi lo recasse alla madre con una vistosa somma che si lascierebbe fissare a quel fortunato medesimo a cui si dovrebbe il suo rinvenimento.

Nariccia non fu tanto padrone di sè da non manifestare una certa emozione onde fu sovraccolto, e il marchese che se ne accorse, cominciò a sentire alquanto scossa la sua incredulità nei dubbi e nei presentimenti della sorella. Ripetè le sue parole, insistette con calore, fece ad ogni modo perchè quella emozione momentanea di Nariccia si traducesse in qualche precisa parola, in qualche ulterior segno soltanto onde un più sicuro concetto egli potesse farsi del fondamento o della insussistenza di quella speranza; ma l'accorto impostore aveva saputo metter tosto la maschera al suo volto impassibile e si rinchiuse nelle precedenti negative espresse gli è vero con meno vigore di prima. Il marchese uscì di colà coll'animo combattuto; stette parecchi giorni infra due e si decise finalmente ad un grande ed audacissimo passo: quello di aprirsene a suo padre.

CAPITOLO IV

Nel marchese padre, da qualche tempo veniva declinando assai la salute, ed avreste detto sfuggirgli a poco a poco la vita. Il suo carattere, divenuto taciturno e melanconico, era pur tuttavia rimasto fiero ed orgoglioso del pari. Usciva di rado fuor del palazzo, spessi giorni non abbandonava il suo appartamento, di frequente non discendeva manco di letto: non si lamentava mai di nessun male, non faceva nulla, non voleva medico intorno a sè, amava rimaner solo, passavano dei giorni intieri senza ch'ei disserrasse le labbra a dir pure una parola. Chi avesse conosciuto l'intima storia degli ultimi anni passati, avrebbe potuto dire che un interno rimorso con travaglio continuo ne consumava l'esistenza, se il suo aspetto, l'espressione della sua fisionomia non avessero fatto troppo aperto contrasto a tale supposizione. In lui non c'era nulla dell'uomo che si pente o soltanto rimpiange quel che ha fatto: nè una parola, nè pur la fugace mostra d'una sensazione. Padre Bonaventura che il più delle volte era solo ammesso alla presenza di lui, ed al quale non si rifiutava mai l'ingresso e il marchese pareva tenere aperto il più riposto sacrario dell'anima sua, non udì mai parola, non sorprese mai atto nè cenno qualsiasi da cui altra cosa si potesse indurre se non questa: che il marchese ciò che aveva fatto sarebbe disposto a ripeterlo di tutto punto, dove ne fosse il caso.

Eppure egli veniva morendosi a poco a poco. Tutti lo scorgevano intorno a lui, e lo scorgeva e mostrava saperlo egli pure. Quando gli si parlava di cose avvenire, aveva un certo sorriso sulle sue labbra tirate che mostrava com'egli non avesse più illusione di sorta sul suo destino. L'orizzonte del suo futuro, nel pensiero come nelle parole, egli lo limitava alla data di pochi mesi: allo scultore aveva dato egli stesso la commissione del bassorilievo che nel sepolcro di famiglia avrebbe segnato la sua fossa e fissatogli il tempo in cui avrebbe dovuto essere compito; nelle mani del Re aveva rassegnato tutte le sue cariche di Corte, e la solitudine di cui voleva essere circondato oramai era per lui la preparazione a morire.

E che così fosse era persuaso quant'altri mai anche Nariccia. La morte del marchese avrebbe potuto mutare le condizioni e le convenienze del già intendente verso la famiglia, rapporto all'episodio doloroso che riguardava la marchesina Aurora. Le parole del fratello di costei aprirono allo scellerato un nuovo campo di speculazioni in proposito. Certo egli era già che la povera madre avrebbe pagato vistosamente per riavere il figliuolo creduto morto; ora le s'aggiungeva il fratello: destramente maneggiandosi egli avrebbe potuto ricavare e dall'uno e dall'altra i migliori guadagni del mondo, se la paura del vecchio marchese non ne lo avesse ad ogni modo trattenuto. Ma questa paura poteva dileguarsi: pochi mesi ancora, e chi la ispirava facilmente non sarebbe stato più. Che cosa avrebb'egli ottenuto dai figliuoli suoi quando egli si fosse presentato loro col bambino ricuperato, adducendo incontrovertibili prove dell'identità del medesimo? E giustamente il giorno dopo quello in cui era venuto da Nariccia il fratello d'Aurora a fargliene le aperture che sappiamo, il marchese padre, assalito da nuova debolezza, si sentiva nell'impossibilità di levarsi di letto e confessava esser preso da una tale languidezza che gli pareva quasi sciolto il legame che tiene l'anima incatenata al corpo. Alcuni giorni passarono in cui quel malore venne via via crescendo; parve all'infermo stesso fosse opportuno farsi amministrare i sacramenti onde la religione conforta la morte dei cristiani, e fra' Bonaventura a cui glie ne disse, pensò a tutt'altro che a dissentire.

 

Codesto spinse vieppiù Nariccia alla determinazione di adoprarsi in guisa da potere, morto il marchese, presentare ad Aurora il bambino fatto rivivere; vedremo più tardi come e che cosa egli facesse per ciò; ma intanto si può dire fin d'ora che in breve tutto fu da lui immaginato e preparato, perchè dopo la morte del vecchio marchese fossero soddisfatti i voti e le speranze d'Aurora.

E di costei che cosa ne avveniva? La cresciuta infermità del padre e l'avvicinatosi pericolo avevano consigliato al fratello d'Aurora di tentare una riconciliazione fra il moribondo e la figliuola. Al primo fece, per mezzo di fra' Bonaventura, inculcare la virtù del perdono, alla seconda scrisse egli medesimo dicendo esser obbligo de' figli innanzi all'agonia de' genitori obliar tutto e cancellar dall'animo anche i più giusti risentimenti. Riuscì ad ottenere che il padre consentisse ad accogliere la figliuola, e questa non si rifiutasse ad entrare di nuovo nella casa paterna. Tra padre e figlia nel ritrovarsi in presenza di nuovo dopo tali e tanti avvenimenti, non si scambiò una parola d'affetto, nè un cenno pure qualsiasi che alludesse a quanto era passato. Fu peggio che freddo il loro contegno: il dovere solo riuniva ora quelle due persone fra esse, non più la menoma corrente di benevolenza; nel contegno del vecchio, anzi, un'irritazione quasi un accanimento d'ostilità, frenato, ma non punto sminuito da quello che aveva voluto la morte di Valpetrosa e le lagrime amarissime d'Aurora.

Questa si pose a dare al padre tutte quelle cure che lo stato di lui richiedeva, che il suo dovere di figlia imponevale; ma il vecchio mostrò che quelle attenzioni e la presenza medesima di lei tornavangli fastidiose, ed Aurora si tenne, per quanto le convenienze permettevano, lontana dal letto e dalla camera paterna.

In questo stato di cose il marchese figliuolo ebbe l'infelicissima ispirazione di credere che il vecchio padre non avrebbe voluto scendere nella tomba senza riparare, quando ciò si potesse, al soverchio dolore dato alla figliuola, alla barbara ingiustizia usata verso l'innocente di lei creaturina, se pur era vero che il bambino vivo fosse stato strappato alle braccia della madre, e condannato al disonore ed alle miserie del trovatello. Aspettò un di in cui parve tornato qualche poco più di forza all'infermo, e chiamando in aiuto tutto il coraggio ond'era capace, entrò risolutamente nel discorso, e disse a suo padre dei sospetti di Aurora, del passo ch'egli aveva fatto presso Nariccia, dell'ambiguo contegno di costui onde ancor egli aveva sentito qualche dubbio cui prima non avrebbe accolto mai, e finì colle più calde suppliche e deprecazioni affinchè, se tanta crudeltà era stata veramente commessa, non si tardasse oltre a rimediarvi, non volesse il malato tenere sotto il peso di sì grave risponsabilità la sua vecchiaia. Il marchese padre al discorso del figliuolo rimase in apparenza perfettamente insensibile, da un vivo lampeggiar d'occhi all'infuori che alle prime parole udite gli accese lo sguardo e poi tosto si spense. Quando il fratello d'Aurora si fu taciuto, il vecchio volse verso di lui un sogghigno ironico ed una faccia beffarda.

– E tu credi a codeste fandonie? diss'egli. Un diplomatico tuo pari, un uomo d'ingegno, come ti ho sempre creduto!.. Va, lasciami tranquillo, e non venire altrimenti a turbare la mia quiete con simili fiabe.

Ma rimasto solo, il vecchio marchese fece venire a sè il suo servo di confidenza e gli comandò senza indugio, andasse in cerca della Modestina e glie la menasse il più sollecitamente possibile, facendola passare per la segreta scaletta del palazzo e in ora tale che i figliuoli di lui non potessero non che vederla, ma neppure avere il menomo sentore della sua venuta. Fu egli prontamente obbedito, e poche ore dopo, quella che doveva poi essere sopranominata la Gattona, trovavasi presso al letto del vecchio marchese. Questo esigeva da lei gli raccontasse la verità, ma proprio e tutta la verità di quello che era accaduto alla nascita di quel bambino, cui egli aveva voluto e voleva per l'affatto smarrito; e lo esigeva in quel modo con cui sapeva imporre a chiunque l'ubbidienza ed a cui non c'era caso di resistere. Modestina disse tutto dal principio alla fine; e il marchese ascoltò colla massima attenzione.

– Come segni di riconoscimento: disse il vecchio di poi, come per confermare viemmeglio nella sua memoria la cosa; egli ha seco il rosario d'agata della mia defunta, un bottone di livrea di vostro marito e la carta scritta dalla vostra mano?

– Sì, signor marchese.

– Sta bene. Andate e non parlate con anima viva di quanto avete detto, e sia per tutti, anco per voi, come se qui non foste oggi venuta, come se questo colloquio non avesse avuto luogo mai.

Modestina giurò il più assoluto silenzio e se ne fu a' fatti suoi. Il marchese meditò tutto quel giorno profondamente e non volle veder nessuno nè della famiglia nè dei conoscenti tranne il fidatissimo suo servitore. Alla sera diede a quest'esso il comando di andar a prendere e condur seco al palazzo messer Nariccia. Con costui, del quale erasi fatto ora mai un giusto concetto, per riuscire sicuramente nel suo disegno, il vecchio marchese aveva pensato usare un inganno. Gli disse che vedendosi avvicinare ogni di più il fine della sua vita, il rimorso lo aveva assalito di aver tolto alla figliuola il suo bambino ed un gran desiderio gli era nato di restituire a quella poveretta suo figlio, parendogli che dopo ciò più tranquillamente avrebbe potuto avviarsi verso la tomba; aver udito con molta soddisfazione che al bambino erano stati posti certi contrassegni per cui riconoscerlo e poter riaverlo, Nariccia saper egli dove questo bambino si trovasse, glie io dicesse perchè si fosse in grado senza ritardo, di provvedere pel ricupero del medesimo.

Nariccia, con tutta la sua accortezza, cadde compiutamente nella rete. La cosa era troppo naturale perchè non si avesse da crederla, chi non sapesse qual provvista d'odio avesse continuato a rammontarsi, invece che diminuire, nell'anima fiera e crudele del marchese contro il morto Valpetrosa e il rampollo del sangue di lui. Attonito che il marchese sapesse così bene ogni particolare della cosa, l'ex-intendente non osò negar nulla; ma quando il suo antico padrone volle svelasse il luogo dove il bambino era stato posto, fu egli l'uomo più impacciato del mondo, e per torsi d'imbarazzo fini per dire:

– A S. E. non importerà gran che il sapere ch'e' si trovi in questo o in quell'ospizio, purchè la conclusione sia ch'Ella riabbia il bambino. Di qualcheduno Ella avrà pur sempre bisogno il quale vada a prenderlo; chi può far ciò meglio di me che conosco appuntino i contrassegni, e so il giorno e l'ora precisi in cui venne il neonato deposto? Affidi dunque a me siffatto còmpito, ed io fra quindici giorni le prometto di presentarle il bimbo con tutti quegli oggetti che, come S. E. conosce, ne stabiliscono l'identità.

Il marchese guardò ben fisso un istante il suo interlocutore, e poi disse:

– Sia pure… fra quindici giorni la cosa deve esser fatta, e conto aver nelle mani il bambino ed i contrassegni… Se ci mancate, guai a voi!.. Non comparitemi più dinanzi che per annunziarmi il giorno e il momento in cui potrete farmi la consegna di quel che voglio. E di tutto questo sopratutto, assoluto silenzio con mio figlio e con Aurora… Siamo intesi!

Nariccia si curvò in un profondo inchino.

– Andate.

I quindici giorni non erano ancora trascorsi quando Nariccia introdotto furtivamente presso il marchese dicevagli a bassa voce:

– Eccellenza ho nelle mie mani il bimbo.

Uno strano lampo passò negli occhi del vecchio, il quale, con impeto che pareva indicare tornato in lui tutto il primitivo vigore, si levò a sedere sul letto.

– Dove ce l'avete?

– A casa mia.

– Proprio desso?

– Signor sì.

– E i contrassegni?

– Ancora nel sacchetto che cucì e gli appese al collo l'Eugenia.

– Sta bene.

Successe un momento di silenzio.

– Ho da portarglielo qui io stesso quel bambino; domandò poscia Nariccia: o che cosa ne debbo fare?

– Stassera, a mezzanotte, siate sveglio in casa vostra e pronto ad accogliervi chi si presenterà. Verrà alcuno, a cui consegnerete ogni cosa.

– Come si farà egli riconoscere per inviato da V. E.?

– Lo riconoscerete.

L'antico intendente non aggiunse più verbo.

Un anno o poco più era allora trascorso dalla morte di Maurilio; anche allora si era in una fredda notte invernale come quella in cui vedemmo cominciare il nostro racconto, e Nariccia, mentre battevano le dodici ore al non lontano campanile della parrocchia, andava e veniva nella fredda stanzuccia da lui abitata a quel tempo, fermandosi di quando in quando innanzi ad una tavola sovra cui, avvolto in povere ma pulite fascie, stava un bimbo di pochi mesi d'età, il quale dalla pallidezza del piccolo viso, dagli occhi chiusi, dai guaiti di dolore che mandava tratto tratto, pareva più presso a morire che non altro. L'antico intendente non era per nulla contento dei fatti suoi, e volgendo lo sguardo a quel fanciullo, i suoi occhi avevano un'espressione di rincrescimento, di dispetto, di disappunto che impossibile il descriverla. Dalla presenza di lui, Nariccia aveva sperato un momento nuovi guadagni, maggiori di quelli che glie ne avrebbe dati il vecchio marchese il quale non aveva promesso nulla. Dalla marchesina Aurora e da suo fratello avrebbe egli osato domandare quel più che gli piacesse e le sue esigenze sarebbero state subìte: dal marchese padre non poteva pretendere nulla. Andava egli mulinando seco stesso con rabbia di questa sua disavventura e pensando se non avrebbe potuto trovar modo per cui raggirare il mandatario dell'antico suo padrone (e ancora non sapeva egli tampoco chi sarebbe), quando un picchio nell'uscio lo avvertì che la persona aspettata era giunta.

Nariccia aprì e vide entrare due uomini imbaccuccati nei mantelli, uno, che pareva camminare a stento, sorreggendosi all'altro. Nel secondo riconobbe tosto il servo fidatissimo del marchese, e nel primo, quando abbassò la falda onde si copriva la faccia, dovette ravvisare con infinita meraviglia il marchese medesimo, a cui una specie di febbre che gli faceva lucicchiare gli occhi, unita ad una energica volontà, aveva data la forza di sorgere e di venirsene segretamente fin là egli stesso.

– Lei Eccellenza: esclamò inchinandosi Nariccia che vide ogni possibilità di ulteriore inganno affatto svanita.

Il marchese non rispose; andò dritto, diviato alla tavola su cui stava il bambino e lo guardò – la similitudine è vecchissima, ma è l'unica che si attagli – come falco che guarda la preda cui ha da ghermire. Serrò al petto le braccia e stette un istante immobile; tutta la sua vitalità, avreste detto, raccolta nello sguardo. Intorno a lui regnava un silenzio di morte.

Volse di poi la faccia verso Nariccia e domandò bruscamente:

– È desso?

La sua voce aveva una vibrazione metallica che le dava un carattere più imperioso ancora e più aspro.

Nariccia s'inchinò profondamente in segno di affermazione.

– Le prove? Ridomandò col medesimo accento il marchese.

L'antico intendente si accostò al bimbo, levò di intorno a lui un sacchettino di tela che, appiccatogli per un legaccio al collo, stava nascosto in un risvolto delle fascie e lo porse al marchese senza aprir bocca.

Il padre d'Aurora aprì quella tasca e ne trasse fuori gli oggetti che vi si contenevano; erano quelli che sappiamo: il rosario, il bottone e la cartolina scritta dalla Luponi. Esaminò ben bene ogni cosa; poi come se quegli oggetti gli bruciassero le mani li depose sulla tavola. Si accostò vieppiù al fantolino, gli passò intorno al collo il cordone del sacchetto che allora era vuoto, e si chinò su di esso a fisarlo ancora di meglio. Cercava con avido sguardo una rassomiglianza che non riusciva a trovare.

 

– È strano, disse poi, quasi parlando a se stesso: nulla vi ha in questi tratti che ricordi quelli di colui… nè quelli pur di mia figlia… Ed e' mi par molto piccino…

Si volse al servo che era sempre rimasto in un angolo con riserbatissima discrezione:

– Venite un po' qua: gli disse. Guardate questo bambino. Vi par egli che abbia un anno di età?

Il domestico s'appressò e guardò.

– Veramente è assai piccolo: disse.

Il marchese teneva gli occhi fissi su Nariccia, il quale stava impassibile.

– Ma, soggiunse il servitore, di bambini a quel tempo è difficilissimo poter giudicare a vista i mesi che hanno.

– Egli è deboluccio, a quanto pare, disse allora Nariccia, è da un po' di giorni ch'è separato dalla nutrice, ha sofferto.

Il marchese tornò a prendere in mano e ad esaminare l'un dopo l'altro gli oggetti che dovevano certificare la identità del figliuolo di Maurilio. Non v'era cosa da opporvi, erano proprio dessi: il rosario che il marchese ricordava aver appartenuto a sua moglie, il bottone collo stemma a lui ben noto dei de Meyrand, la scritta col carattere di Modestina. Stette ancora un poco in silenzio: non una fibra del suo cuore palpitò di tenerezza, nè di compassione per quel povero infante, che seguitava di quando in quando a gemicolare; poi si volse in là, come se gli fosse uggioso il vederlo e disse a Nariccia:

– Rimettetegli addosso quella roba.

Fu caso o fu volere della Provvidenza? Mentre il marchese intendeva che quegli oggetti fossero riposti entro la piccola tasca cui egli stesso aveva rimessa al collo del bambino, Nariccia non fece altro che ficcarli in mezzo ai risvolti della fascia che lo cingeva, lasciando pendere vuoto il sacchetto al collo di lui.

– Nariccia, disse poscia il marchese con quel suo accento che era da incutere timore a chicchessiasi: voi mi avete disubbidito, e ciò non dimenticherò mai più. Quel bambino non aveva da trovarsi mai, e voi stesso dovevate smarrirne le traccie: eccovelo invece innanzi agli occhi… Ora me ne impadronisco e ne dispongo io stesso… Stolto voi se poteste credere ch'io mi lasciassi vincere da debolezza d'animo fiacco e rimpiangere e voler mutare quello che ho fatto. Il figliuolo di quel miserabile ho condannato alla sorte che gli spetta, e non ne avrà altra nel mondo… Voi, voi non mi comparirete più dinanzi, eccetto che un mio ordine espresso vi richiami.

L'antico intendente non trovò parole da rispondere: era furibondo nel suo intimo contro se stesso per esser caduto nella pania; s'inchinò profondamente innanzi al marchese che passava più fiero che mai dirigendosi all'uscio per partire.

– Prendete quell'involto: comandò il padre d'Aurora al servo, accennandogli con un moto della testa il bambino: e seguitemi.

Se ne uscirono così tuttedue. Il vecchio, come se gli fosse tornata tutta la vigoria della salute, camminava diritto della persona, colla sua mossa superba e l'aspetto pieno d'autorità; il domestico lo seguiva in silenzio. Si avviarono verso una delle strade le peggio rinomate della vecchia città; e quando furono alquanto inoltrati per essa, il marchese si fermò; il suo fidato servitore s'arrestò del pari, interrogando collo sguardo, colla parola non osava, il padrone su ciò che si dovesse fare.

Non v'era anima viva in quella fredda oscurità della notte; una brezza sottile e ghiaccia soffiava alle cantonate. Il marchese additò il mezzo dell'acciottolato della strada, dove un rigagnolo fangoso tutto congelato rendeva ronchioso il terreno.

– Deponetelo colà: comandò al servitore.

Questi, fosse pietà che lo assalisse, o non potesse credere a tanta barbarie nel suo padrone, esitò.

– Avete capito? disse il marchese con quell'accento che non permetteva indugio all'obbedire.

Il servo si chinò a terra e depose pianamente su quella fanghiglia gelata il suo fardello.

– Poverino! pensava egli: domattina lo troveranno tutto un ghiacciuolo.

Mentre stava per rialzarsi, la voce del padrone gli diede un altro comando:

– Toglietegli quel sacchetto che gli pende dal collo e riponetelo nelle vostre tasche.

Il domestico ubbidì; poi si volse al padrone per vedere se altro ancora avesse da fare; ma in quella nel marchese parve venir meno ad un tratto tutta quell'energia che fino allora lo aveva sostenuto: egli si appoggiò alla muraglia della casa presso cui si trovava, e disse con voce appena se intelligibile:

– Ah! mi sento mancare.

D'un balzo il servitore gli fu presso e lo sorresse nelle sue braccia.

– Glie l'avevo detto io, Eccellenza, che non si avventurasse a tanto sforzo.

– Conducetemi a casa: mormorò il vecchio, abbandonandosi nelle braccia del servo, il quale recandoselo quasi in braccio, s'affrettò verso il palazzo, vi penetrò per la porticina e la scaletta, e senza che alcuno avesse pur sentore della loro uscita, lo guidò nel suo appartamento e lo coricò, mentre i denti del vecchio battevano dalla febbre.

Due ore dopo, il marchese alquanto riconfortato, disse al servo che non s'era mosso dal suo fianco:

– Datemi qui quel sacchetto.

Il domestico se lo trasse di saccoccia e lo porse al giacente; ma questi lo ebbe appena tocco colla sua mano che mandò un'esclamazione di rabbia e disappunto: il sacchetto era vuoto.

Il marchese credette ad un inganno di Nariccia e mandò tosto da costui quel suo servo fidatissimo perchè ne tornasse ad ogni modo con quegli oggetti che aver voleva in poter suo. Il domestico fu di corsa in casa l'usuraio, ma non potè ottenerne che le più vive proteste, aver egli rimesso addosso al bambino quei contrassegni: e il mandatario del marchese s'affrettò allora verso quel luogo dove il fanciullo era stato abbandonato. Era presso l'alba e un pallidissimo chiarore già spuntava sopra la collina all'orizzonte: qualche passo di cittadino mattiniere incominciava a suonare per le strade ancora oscure, in cui venivano spegnendosi i lampioni municipali; alcuni carri di ortolano e di lattaio dei dintorni facevano saltare le loro ceste e le loro bigoncie correndo sull'acciottolato al trotto dei loro ronzini sollecitati dal chioccare importuno della frusta. Giunto a quel luogo dove il fanciullo era stato deposto, il servo non vide più nulla; invano percorse tutta quella straducola, il fantolino era scomparso. Dovette ritornare con queste novelle al suo padrone, che ne rimase assai poco soddisfatto. Pareva al marchese che il suo proposito di volere affatto smarrita quella creaturina, corresse così pericolo di non venire ottenuto, e un giorno o l'altro potesse ripresentarsi innanzi alla nobile sua famiglia quell'essere che a suo vedere ne incarnava una disgraziata vergogna.

Ma, tra le emozioni di quella notte, la rabbia del non compiuto successo, lo strapazzo fisico che la sua volontà aveva imposto al corpo affaticato ed infermo, avvenne che la malattia del marchese il giorno dopo s'aggravò notevolmente, ed una settimana non era ancora trascorsa che un mesto corteo accompagnava a Baldissero, per seppellirla nel fastoso sepolcro de' suoi maggiori, la salma del padre di Aurora.

Questa un anno dopo acconsentiva a sposare il conte di Castelletto, il quale l'amava tuttavia, e del quale essa ignorava compiutamente la parte avuta in quel funesto duello che le aveva tolto il primo marito. Che ogni ulteriore ricerca del figliuolo fosse inutil cosa, le nuove asseveranze di Nariccia congiunte colle parole del defunto marchese avevano finito per mandare persuasi tanto Aurora medesima quanto il fratello di lei. Da questo maritaggio nasceva poscia Virginia; ed era questa giunta appena ai due anni, che un fatalissimo destino la orbava del padre e della madre, e questa, morendo, la raccomandava al fratello, a cui finalmente aveva perdonato di tutto l'animo.