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XIX

“Giungemmo finalmente al luogo del convegno. Il mio avversario e i suoi secondi già erano ad aspettarmi. Ci salutammo gravemente, e mentre i padrini si accostavano a parlar tra loro, noi duellanti stemmo soli in disparte, lontani l'uno dall'altro, guardandoci così alla sfuggita.



“Alfredo era un po' più pallido del solito nel volto; ma il suo contegno aveva tanta fierezza, tanta disdegnosa indifferenza, che me ne sentii umiliato, e feci ogni sforzo per imitarlo. Egli fumava tranquillamente il suo sigaro, e mirava con lieto sguardo la bellezza della mattinata splendida per un magnifico levar di sole. Eravamo nei più bei giorni della state, e la natura non era mai sembrata tanto maravigliosa ai miei occhi. Fra le frondi indorate dal sole cantavano allegramente gli augelletti. Tutto era vita, tutto era giovinezza intorno a noi.



“Il mio avversario era più bello, più fiero e superbo che non l'avessi visto mai. Coll'eleganza e coll'avvenenza sembrava dominare tutti noi, e me specialmente suo nemico, cui la sorte aveva voluto dare tanta meschinità di corpo e di apparenze. Se un estraneo, senza nulla sapere delle cagioni della nostra contesa, fosse capitato lì in quel punto, io non dubito avrebbe detto, solamente esaminando i combattenti, che Alfredo sarebbe stato il vincitore e che dalla parte di lui era la ragione.



“I padrini ci appostarono alla distanza determinata, ci diedero le pistole, e poichè si furono ritirati a destra e a sinistra, a convenevole lontananza, uno di essi si levò il cappello e facendo un atto solenne di saluto, pronunziò a voce chiara e vibrante:



– «Avanti signori!»



“Guardai Alfredo. Tutto vestito di scuro, la sua leggiadra testa spiccava maggiormente pel pallore che gli copriva le guancie. Il veder codesta pallidezza, un certo tremito che mi parve scorgere nella sua mano e una velatura che gli appannava il brillar degli sguardi, non so perchè, diedero a me sicurezza e sangue freddo. Poi sentivo sulla mia persona lo sguardo di altre quattro persone, che rappresentavano tutta la città, tutto il mondo per me.



“S'io ho da cadere, pensai, almeno ch'io cada senza che alcuno abbia diritto di accusare la mia memoria del torto che la società maggiormente disprezza, e non perdona mai: la paura.



“Ma vedete stranezza! Nel guardare Alfredo, io dimenticava il presente, per non ricordarmi che del passato; vedevo il collegio, i primi anni della giovinezza; e sentivo un tumulto di affetti invadermi l'animo e una subita tenerezza commovermi al punto che di subito pensai gettare le pistole e correre a braccia aperte verso di lui, esclamando:



– «Tu sei il mio diletto, tu sei il mio fratello. È egli possibile che io attenti alla tua vita?»



“Il veder me parve eccitare invece ben altri sentimenti ad Alfredo; poichè i suoi occhi fissandosi ne' miei, perdettero quella nebbia che li offuscava e brillarono d'una luce piena d'odio mortale.



“Il mio avversario si avanzò vivamente tre quattro passi, tenendo tesa una pistola colla mira a me rivolta, poi si fermò. Io non mi mossi; ed avevo le braccia abbandonate lungo la persona, stando là come smemorato, incerto ancora di quello che avessi da fare. Alfredo parve esitare un istante: non furono che pochi secondi, ma a me parvero un tempo smisurato.



“Mi ucciderà! pensavo. A momenti sarà finita per me… finita per sempre!.. Morto? Morto io? Dio, Dio, puoi tu permetterlo?.. Ah! la morte è tremenda!.. Ciascuno ha pur diritto alla vita… Io l'ho bene, come qualunque altro, questo sacrosanto diritto… Dio, Dio, mi ti raccomando!



“Tutto questo, ratto, simultaneo, vertiginoso; mi passò perfino pel capo l'idea di scappare; ma sentii nello stesso tempo che non l'avrei nemmeno potuto.



“A un tratto un guizzo di fuoco scattò da quell'arma che si circondò di fumo; rimbombò un colpo, e io sentii presso l'orecchio sinistro il fischio della palla. Diedi una scossa, il sangue mi fece un tuffo e parve di botto precipitarmisi tutto al cuore, poscia risalire tumultuosamente al cervello: ma, nel montarvici, conduceva seco tal ira, molto presso a cambiarsi in furore.



“I padrini si mossero come per avvicinarmisi; feci loro segno ristessero.



“Alfredo gettò via la pistola vuota e ratto scambiò dalla mano sinistra alla destra quella che aveva ancor carica. Ero stranamente calmo a quel punto; ma ogni sentimento benevolo era svanito dal mio cuore. Cominciavo a sentire alcuna cosa che rassomigliava all'attrattiva della lotta. Alzai la destra armata, come per toglier la mira; il mio avversario si volse subitamente di fianco; ma, cambiando pensiero, lasciai ricadere il braccio. Allora Alfredo prese ad avanzarsi di nuovo verso di me; ma questa volta cauto e lento, non presentandomi mai che la minor possibile superficie del suo profilo, la pistola tesa innanzi a sè, mirandomi più basso a mezzo il petto.



“Una strana irritazione s'impadroniva di me nel vedere codesta prolungata minaccia. Fui per gridare facesse presto; pensai sparargli contro a un tratto le mie due pistole, come si farebbe ad una fiera che camminasse verso di noi; fui per lanciarmigli addosso a strappargli quell'arma. Perchè non facessi nulla di tutto ciò non saprei dirvene la ragione; certo non fu il ragionamento che me ne trattenne; ma mentre la mente in quell'istante mi si travagliava in un'attività febbrile, il corpo era in preda ad un'atonia generale che lo rendeva incapace d'ogni movimento.



“Quando ebbe percorso tutto il tratto concessogli, Alfredo si fermò e fece fuoco la seconda volta. La palla mi sfiorò il braccio sinistro, lacerandomi l'abito e cagionandomi una contusione, che in quel momento non avvertii neppure.



“Ero salvo! Una specie di gioia feroce si sollevò nell'animo mio, e nello stesso tempo una rabbia più feroce ancora contro colui che mi stava a fronte. Dell'antico Alfredo, dell'amico, del compagno, non vidi più nulla; non vidi più innanzi a me che l'uomo il quale mi aveva rapito la fama, che mi aveva rapito la donna che amavo, che mi aveva coperto di contumelie, che aveva tentato adesso adesso alla mia vita, che mi aveva fatto passare quei crudi eterni momenti d'angoscia; non vidi più in lui che un nemico odiatissimo.”



XX

“Alfredo all'infelice esito de' suoi colpi, fece un gesto di dispetto, gettò via rabbiosamente la seconda pistola e si volse a guardare qua e là con irrequietezza, quasi spaventato, come per chiedere che cosa gli rimanesse da fare, per cercare qual via gli si aprisse di scampo. Fu un baleno. Presto si ricompose, e serrando al petto le braccia, levò superbamente la fronte verso di me, in atto di fiera aspettazione e di sfida.



“Io camminai risolutamente verso di lui tutto quel tratto che potevo percorrere, e quando mi trovai alla distanza di soli dieci passi dalla sua faccia pallida ma sicura, alzai tutte e due le mani e puntando le pistole nella direzione del mio avversario, senza mirare altrimenti, le sparai ambedue d'un colpo.



“Udii un gran grido; e dietro la nube del fumo prodotto dalla esplosione delle mie armi, vidi barcollare e precipitare a terra Alfredo.



“I testimoni si slanciarono verso di lui. Io lasciai cadere di mano le pistole, e mi spinsi innanzi stimolato da un'avida, feroce curiosità; ma ben tosto, alla vista della fronte insanguinata d'Alfredo, mi ritrassi inorridito.



“Dietro me, come in risposta a quello del trafitto, suonò un grido acutissimo, dolorosissimo. Mi volsi. Una donna scarmigliata accorreva disperatamente.



“Era Albina!



“Il nostro duello aveva destato cotanto l'attenzione della città tutta, che era stato impossibile l'impedire non ne venisse voce all'orecchio di lei. Informatasene qua e colà coll'ansia maggiore, turbato forse il cuore da funesti presentimenti, l'infelice donna era riuscita a sapere dai servi il luogo e l'ora dello scontro, e, spinta dal suo fatale destino, arrivava sul terreno, giusto al momento in cui il suo diletto cadeva al suolo, cadavere.



“Sì, cadavere! Alfredo era morto, e per mia mano! Questa orrenda verità non tardò ad apparirmi in tutta la sua crudezza, e distrusse tosto quell'esaltazione di sdegno e d'odio che mi aveva fatto, un momento prima, volontario assassino.



“Sentii le roventi unghie del rimorso lacerarmi il cuore; ebbi orrore di me, e mi parve la natura medesima inorridisse al mio cospetto; credei udirmi suonare all'orecchio, tremenda, la maledizione lanciata su Caino. Rimasi stupidito, guardando quel cadavere sanguinoso sull'erba, senza rendermi ben conto della realtà, come se tormentato dall'incubo d'un sogno penoso, supplicando mentalmente da Dio la grazia impossibile che non fosse vero quello che era avvenuto, prendendo a sperare con dissennata lusinga che tutto quanto s'agitava sotto ai miei occhi non fosse che una illusione da dileguarsi ad un punto.



“L'angoscia disperata d'Albina, che si abbandonava con tanto spasimo sul corpo dell'uomo da lei supremamente amato, invocando essa stessa la morte, accresceva in me il pentimento e la coscienza dell'orribile delitto. Apparivo un mostro a me stesso; e mi dicevo accusatore e condannatore più severo e inesorabile d'ogni umano tribunale, che avevo ad una stolta vanità della mia persona sacrificato la preziosa vita d'un uomo, a cui avevo pure giurato riconoscenza ed affetto eterno.



“Ah! pregate Iddio che tenga da voi lontana la sventura e la colpa di macchiarvi le mani nel sangue d'uno dei vostri simili. Shakespeare, per bocca di Macbeth, dice che l'uccisore d'un uomo uccide il proprio sonno; e ciò è tremendamente vero. Egli uccide insieme la propria quiete, la propria anima, se non ha cuore di scellerato; sia pure attenuato dalle circostanze il suo delitto, avesse pure dal suo lato la giustizia della causa, lo spettro sanguinolento della vittima, qual'ei la vide raccapricciando nelle ultime convulsioni dell'agonia, gli apparirà inesorato nelle sue notti maledette.

 



“Mentre nel mio interno mi assalivano così subite e potenti le torture del rimorso, di fuori ero sì impietrito che apparivo insensibile. Ai testimoni di quella orribile scena sembrai peggio che crudele.



“Albina levò un istante gli occhi, e, traverso al velo delle cocenti lagrime che le ardevano le pupille, mi vide… Il suo movimento di ripulsione e d'orrore fu tale che io mi sentii vacillare. Meno grave, meno dolorosa mi sarebbe stata la più iniqua maledizione lanciatami dalle sue labbra, anzichè la muta ferocia dello sguardo onde mi saettò.



“I miei padrini si posero fra lei e me; e il principale dei due, pigliandomi per un braccio, mi disse severamente:



– «Qui non c'è più nulla da fare per noi. Allontaniamoci.»



“Mi lasciai condur via senza dir parola. Allontanato appena di pochi passi, mi rivolsi a dare un'ultima occhiata a quello spettacolo tremendo. I padrini d'Alfredo avevano abbandonato il morto, per soccorrere Albina, cui l'eccesso del dolore aveva tratta fuor di sè.



– «Ella parta:» mi dissero i miei secondi: «noi gli è meglio che andiamo ad aiutare quelli là nei pietosi uffizi che rimangono a compiersi.»



“Tornarono indietro. Io mi allontanai solo, a capo chino, la desolazione nell'animo, inorridito di me stesso, increscioso della vita, desiderando di poter cambiare la mia con la sorte del mio avversario, essere io il cadavere, su cui piangesse tali lacrime una donna amorosa, e si volgesse il comune compianto.”



XXI

“Non rientrai in città. Presi la prima strada che mi si parò davanti, e mossi per quella a passo or lento, or concitato, inconscio di me medesimo, incerto dove io fossi, non sapendo neppure di vivere.



“Mille pensieri si agitavano confusamente nella mia testa, e fra tutti uno solo, chiaro, spiccato, parea incidermi nel cervello in lettere di fuoco la parola: Assassino!



“L'anima, del resto, era come intorpidita e le impressioni ne risultavano vaghe ed incerte, da paragonarsi ad un rumore lontano, cui ode, ma non distingue bene l'orecchio. Però, di quando in quando, il dolore ed il rimorso mi davano una nuova stretta, viva e ogni volta sempre maggiore.



“Andavo, andavo, senza direzione, voglioso di solitudine, bisognoso di moto, null'altro cercando che di fuggire l'aspetto dell'uomo. Parevami che stancando il corpo, avrei domato altresì quel turbamento dell'anima, ognor più fiero.



“Talvolta mi provavo ad affrontare audacemente il mio soffrire.



“Ebbene, sì, mi dicevo, ho ucciso un uomo: ma egli aveva ben voluto uccider me! Tra lui e me non c'era altra via: o morir lui, o morir io. Nel caso mio chi non avrebbe agito come me?



“Ma non tardava la coscienza a ribellarsi a questi sofismi. Mi si drizzava dinanzi l'immagine sanguinosa d'Alfredo, ed allora tutta la mia audacia svaniva; udivo risuonarmi nell'anima le grida tremende di lui che moriva, d'Albina che lo vedeva cadere, e un'intima voce mi diceva disperatamente nell'anima:



– «Meglio tu fossi morto!»



“Esser morto! A un tratto quest'idea s'impadronì di me, e mi pòrse alcuna sembianza di calma, e mi fece l'effetto, come in ciel nuvoloso uno di quelli squarci per cui si scorge l'azzurro, come un cenno della sorte che mi mostrasse, in una regione al di là della tempestosa in cui mi agitavo, un riparo e un riposo.



“Morto, non sarei stato odiato più, non mi avrebbe più perseguitato la rabbia degli uomini, mi avrebbe obliato il mondo,

forse

 non sarei più tormentato da questi spasimi, dall'incertezza dell'avvenire, dal tumultuare delle passioni, dalla febbre fallace delle speranze, dalla crudeltà dei disinganni.



“Caddi a terra in ginocchio, e levando le mani e lo sguardo al cielo, con tutto il trasporto di quella fede che avevo avuta nella mia infanzia, supplicai da Dio, proprio con tutta l'anima, che lì, subito, mi facesse morire.



“Ahimè! La era una viltà anche quella. Era la paura di affrontare gli odii e le condanne del mondo; era la paura di vivere in compagnia del mio rimorso.



“Quando tornai a casa, era notte scura. Trovai che m'attendeva uno de' miei secondi, quello che s'era più interessato per me. Mi venne incontro sollecito, e mi disse vivamente:



– «Ho da parlarle. Entriamo presto in casa.»



“Il duello aveva levato assai rumore in città. Una viva irritazione si era desta contro di me. Mi accusavano di poca delicatezza e di troppa ferocia. I fogli della giornata imprecavano al mio nome. La giustizia non avrebbe mancato di procedere; l'autorità di polizia era forse per prendere a mio danno uno di quei provvedimenti arbitrarii che l'assolutismo consentiva allora al governo del mio paese.



“L'idea del carcere mi spaventò.



– «Che mi resta da fare?» domandai con affanno.



– «Fuggire, e tosto:» rispose il padrino.



“Era un lasciar quella vita, venutami oramai insoffribile, era romperla col mio passato, e ricominciare in altre condizioni un'esistenza novella. Quest'idea mi arrise.



– «Sì, fuggirò;» esclamai.



– «Subito:» insistè il mio interlocutore: «altrimenti non sarà più tempo.»



“Una vera smania allora m'assalse d'esser fuori da quelle mura. Feci un fardelletto di alcune poche mie robe; presi il denaro che avevo, e mi allontanai di buon passo da quella casa, poi dalla città.



“Il giovane che era venuto ad avvertirmi, volle accompagnarmi un tratto di strada.



“M'avviai verso le montagne che s'innalzano non molto lontano dalla mia città natale. Credevo esser colà più sicuro, e non desideravo d'incontrare figura d'uomo nel mio cammino.



“Alla distanza di circa due chilometri, il pietoso giovane tolse commiato. Mi chiese dove avevo intenzione di recarmi, ed io gli risposi non saperlo; ad ogni modo gli promisi glie l'avrei scritto, e lo ringraziai molto.



“Quando dopo l'ultima stretta di mano, quel mio concittadino si dipartì da me, io lo seguii collo sguardo per un po' di tempo; e vistolo sparire fra gli alberi sentii in me stesso che ogni vincolo era rotto fra me e quella gente e quel mondo.”



XXII

“Era una stupenda notte, e il più bel chiaro di luna che si possa veder mai. Mi mossi con passo quasi di corsa su per la salita alla montagna. La natura era piena di misteriosi sussurri; mille insetti mandavano lievi suoni indefinibili; stormivano le foglie al venticello notturno, bisbigliavano con più alto rumore i ruscelli, cantava mestamente amoroso l'usignuolo, e su tutto ciò regnava una calma, una pace che avreste detto un silenzio. La quiete esteriore influiva sul tumulto della mia mente, e lo veniva temperando. Quel desiderio di tranquillità ignorata cresceva, cresceva in me al contatto di sì profondo riposo della natura.



“Giunto, dopo parecchie ore di cammino, sopra un culmine, sostai e mi volsi a guardare indietro. Nella pianura appariva la città, splendente da lontano co' suoi mille lampioni, come una massa rossigna di fuoco in mezzo alla campagna, mitemente circonfusa dell'azzurrigno chiaror della luna.



“Là erano l'agitazione e i tormenti dell'umanità; nella vasta solitudine dove mi trovavo, la solennità dell'infinito, la sublimità della natura, più immediata l'opera di Dio, l'oblio e la pace. Mi pareva d'essermi accostato al seno della gran madre creatrice, e di ricevere da questa nuova lena e conforto.



“Se io volessi dirvi tutti i pensieri che allora attraversarono la mia mente, troppo lungo sarebbe, e non lo potrei nemmanco, tanti furono e sì varii, come quelli che abbracciarono tutto il mio passato e l'avvenire, e tutte le più ardue questioni della vita e del destino dell'uomo, e tutto il creato.



“Ero affaticato, debole, sfinito. La notte tepidamente serena m'invitava al riposo. Mi adagiai al riparo di alcuni alberi, la fronte volta allo scintillare delle tremolanti stelle, che pareva mi piovessero una calma soave entro le vene, e un benessere non isperato mi corse tutte le membra. Passando ancora di fantasia in fantasia, poco a poco mi addormentai.



“Mi svegliò il primo raggio del sole che spuntava all'orizzonte. Lo spettacolo dell'aurora mi parve quel dì più sublime di quanto avessi giudicato mai. Già io sentivo di essere un altr'uomo. M'inginocchiai in faccia a quel sole che sorgeva nella sua imponenza a manifestare la grandezza del Creatore, ed adorai.



– «Deh!» pregai dall'intimo dell'anima, «Ch'io viva oscurissimo ed obliato, ma buono, ma virtuoso, ma non in balía del male.»



“Non chiesi più la morte: domandai la virtù e la pace. Ero guarito.



“Sorsi con una nuova risoluzione, con nuovo coraggio ed una nuova speranza; e ripresi il cammino. Avevo deciso spogliarmi del mio nome, delle mie ambizioni, d'ogni folle anelare alla gloria. Rifiutai in quel momento, e per sempre, il serto del poeta.



“Trovai da rifocillarmi nel tugurio di alcuni contadini e da provvedermi il nutrimento per tutta la giornata; e senza sapere dove avrei diretto i miei passi, dove avrei preso stanza dipoi, continuai a salire pei più scoscesi dirupi.



“Avevo camminato forse un'ora, senza mai incontrare traccia d'uomo, quando udii innanzi a me, poco lontano, suonare ed echeggiare per le valli un'esplosione come d'arma da fuoco. Ristetti atterrito, e il mio primo pensiero fu di fuggire; ma mi rattenni. Pensai che alcuna funesta avventura poteva aver avuto luogo e una qualche vittima abbisognava forse di soccorso. Mi affrettai verso quella parte.



“Un cento passi più innanzi, dove la costa della montagna, incurvandosi, formava una specie di anfiteatro, che pareva fatto apposta per guardare la magnifica vista della sottostante pianura, in un verde praticello smaltato di fiori, giaceva bocconi un uomo, stringendo due pistole tuttavia fumanti.



“Era quello uno dei luoghi più ameni ch'io avessi veduto mai. Le coste della valletta tutte coperte di faggi: più in alto sulle cime, dritti come granatieri schierati a battaglia, i severi cipressi; purissimo il cielo; il sole, che investiva co' suoi raggi gli albereti della convalle, vi spargeva le tinte più ricche e più piacevoli all'occhio del riguardante. Pareva una decorazione preparata per un idillio, per una scena d'amore, non per una luttuosa tragedia.



“Mi accostai al giacente. Egli s'era sparate le armi in viso, e vidi che orrendamente n'era rimasto malconcio, da non potersene più riconoscere i tratti. Tepido ancora era il suo corpo; ma da questo l'anima partitasi per sempre.



“Ristetti a pensare come dovessi regolarmi. Presso di sè il morto aveva il suo cappello, e dentro questo vidi una carta ripiegata e sopravi, a tener fermo cappello e carta, un sasso. Esitato appena un pochino, presi quella carta e la spiegai: erano poche parole, scritte in inglese, e le lessi con avida curiosità.



“Dicevasi in sostanza, chi s'imbattesse mai in quel cadavere, non credesse a un assassinio, sibbene a un suicidio, com'era difatti. Stanco della vita e odiatore degli uomini, straniero a quelle contrade, voleva l'infelice morire senza essere conosciuto, senza ipocriti compianti; non dire perciò il suo nome; non si cercasse neppure dei fatti suoi, che egli se ne veniva da lontano, e aveva voluto che nessuna traccia rimanesse di lui.



“Io sedetti vicino a quel cadavere; lessi e rilessi più volte quello scritto e meditai a lungo.



“Ancor io detestavo la vita; anch'io avevo sentito l'animo invaso dall'odio per gli uomini, e avevo pensato di cercar rifugio tra le braccia della morte. Ma, per fortuna, il Signore non mi aveva abbandonato, e nel colmo della disperazione mi aveva pure concesso la grazia d'un benigno pensiero che mi aveva richiamato alla ragione ed alla conoscenza dei doveri dell'uomo sulla terra…



“A un tratto un'idea bizzarra, ma potente, mi nacque e s'impadronì di tutta la mia volontà.



“Io voleva finirla una volta per sempre con quella vita di vanità, di odii e di colpe; volevo morire a quel mondo futile e corrotto, ipocrita e scettico, stolido e prepotente, al quale dovevo ogni mio danno e il decadimento dell'anima mia. Se, a romperla definitivamente, fra esso e me avessi gettato in mezzo quel cadavere? Se a quello sconosciuto che voleva rimanere affatto ignorato, avessi dato il mio nome? Se tutto il mio passato facessi davvero seppellire nella fossa, colla salma di quell'infelice?



“Le fattezze del volto, guaste dall'esplosione, la statura presso a poco uguale, permettevano lo scambio. Strappai un foglio dal mio taccuino e vi scrissi su un ultimo addio alla vita, perdonando a tutti quelli che mi avevano fatto del male, chiedendo perdono a tutti cui avessi offeso. Sottoscrissi col mio nome, posai il foglio nel cappello del morto, e vi posi la pietra sopra. Il suicida non aveva in tasca nè carte, nè altro: vi misi alcuni oggetti di mia spettanza e qualche lettera a me diretta. Poscia inginocchiatomi, pregai con fervore per quel morto e per me. Dopo ciò ritornai alla casa dei contadini, dove m'ero rifocillato poco prima.

 



“Dissi loro del morto da me trovato; essi subito accorsero là; ne fu avvertita la giustizia, si fecero le pratiche che sogliono farsi in casi simili, e fu posto in sodo che io mi era suicidato.



“Ebbi la debolezza di voler vedere che cosa dicessero i giornali della mia morte.



“Cessarono le contumelie, ma non cessò l'indifferenza ostile: siccome da morti non si dà più ombra, qualcuno infiorò di qualche elogio un cenno alla mia memoria. Fui sotterrato nel cimitero del villaggio più vicino, e sulla fossa una semplice pietra con il mio nome su scolpito.



“Volli vedere la mia tomba. Il cimitero è isolato, solitario, pi