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Il bacio della contessa Savina

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XXIV

Il viaggio fu malinconico. Giuseppina era pallida e pensierosa, Agata accorata, io malcontento ed inquieto. Mia suocera, che ci aspettava con espansiva letizia, ci trovò tutti oppressi da incomprensibile tristezza, e ne rimase rammaricata, quantunque sua nipote le prodigasse le più affettuose carezze. Giuseppina, salita nella cameretta che sua madre le aveva allestita con tante cure delicate, ne rimase commossa, ed accorse a baciarla teneramente, per esprimerle la sua viva riconoscenza; ma l'Agata ed io pensavamo che quella maledetta finestra di Milano, che aveva attristata la mia gioventù, avrebbe continuato a molestare col suo influsso la nostra famiglia e ad amareggiarci la vita.

Un'ora dopo l'arrivo la cena era pronta, e ci sedemmo intorno al solito tavolo rotondo del tinello, ma il posto vuoto del povero nonno Nicola ridestò il dolore della sua perdita, e Giuseppina, non potendo più oltre frenare l'affanno che l'opprimeva, diede in uno scoppio di pianto. Ci volle molto tempo a calmarla, pareva che i singhiozzi la soffocassero. Così nei giorni più solenni della vita, il pane della famiglia è sovente bagnato di lagrime, ma quelle lagrime cementano le sante affezioni e le onorate memorie, mentre le risa dei baccanali sono lampi fra le tenebre, nella solitudine del cuore.

Bitto, oramai vecchio decrepito, trascinandosi lentamente ai piedi dell'antica sua amica, che vedeva immersa nel dolore, le posò il muso sui ginocchi, e guardandola con occhio pietoso, pareva le dicesse: divido le tue pene.

I primi giorni del ritorno al villaggio furono dunque piuttosto tristi che lieti; e forse, se alcuni anni dopo la morte ritornassimo al mondo, avremmo parimente più motivi di piangere che di rallegrarci, anche senza tener calcolo dell'accoglienza degli eredi!

Giuseppina ricevette le visite di tutti gli antichi amici, li accolse con affettuosa cortesia, ma dopo che erano partiti faceva le meraviglie trovandoli tanto invecchiati.

Il parroco avea i capelli bianchi, Tobia era calvo e stecchito, il farmacista aveva le rughe, il medico s'era fatto floscio e panciuto; la signora Pasquetta sola era ringiovanita, il bruno de' suoi capelli aveva acquistata una tinta così intensa, che in qualche sito si fondeva sulla pelle.

In complesso il villaggio non presentava a nostra figlia quelle attrattive che avremmo desiderato. Essa parlava continuamente delle belle cose di Milano, del buon gusto delle signore, del lusso delle carrozze, della vita che pullulava in tutti gli angoli della città.

Desideroso di ricondurla ai gusti materni, un giorno le presentai l'Ortolano dirozzato eccitandola alla lettura.

– Lo conosco, – mi disse guardandomi con malizia, – l'ho spolverato per tanti anni sul tuo scrittoio! – Poi si mise a scartabellarlo sbadatamente, e trovato il segnale alla pagina 10, me lo restituì con un sorriso, soggiungendo:

– Ti prego di non privartene; me lo darai quando avrai finito di leggerlo.

M'avvidi pur troppo che, per sua disgrazia, essa aveva molti gusti del babbo, e procurai con buoni consigli di persuaderla a moderare la fantasia per non esporsi ai disinganni, evitando, per quanto fosse possibile, di apprendere la vita dall'esperienza, e attenendosi agl'insegnamenti di chi ne aveva subìte le dure lezioni. Ma non c'era più verso di ridurla a crearsi delle abitudini semplici e confacenti alla nostra condizione. Essa tagliava, disfaceva e riformava ogni tratto i suoi abiti nuovi, per ridurli alla foggia del giorno; alzava od abbassava i capelli secondo le indicazioni dell'ultimo figurino. In breve tempo divenne il modello dei paesi vicini; le signore dei dintorni venivano a passeggiare nel nostro villaggio per vedere come era tagliato il suo abito, ed imitarla.

Essa consigliava le amiche e le vicine sul modo di vestirsi, e si udivano lunghe e gravi discussioni sopra la dimensione delle gonne, gli svolazzi, lo sparato delle maniche, le guarniture di frangie o di sghembi, e si questionava seriamente sul nodo vagabondo della cintura. La signora Pasquetta esprimeva il suo debole parere, mia figlia sorrideva sdegnosamente, presentava obiezioni irresistibili, e dichiarava con profondo convincimento che quella foggia era divenuta impossibile, che quel tale oggetto si doveva bandire.

– Ma perchè?.. se è tanto bello!.. se fa tanto effetto!

– Non si porta più!.. – rispondeva mia figlia, con sentenza assoluta ed inappellabile.

Tutto il circolo femmineo che la stava ascoltando la guardava con ammirazione. Così i giovani impongono ai vecchi i nuovi usi e costumi, e portano dal collegio alla casa ed alla società nuove idee che modificano le arti e le industrie, e producono rivoluzioni politiche, letterarie ed artistiche, le quali sconvolgono il mondo con nuovi sistemi, nuove poesie, o nuove giubbe, secondo la forza degl'innovatori. Peccato che le cose recenti non sieno sempre migliori delle antiche; ma bisogna tacere, altrimenti dicono che si diventa vecchi.

Intanto che mia figlia si occupava delle frivolezze della moda, io andava mulinando le cose serie pensando come sarebbe finita la faccenda della finestra; e mia moglie, come al solito, accumulava sospetti sopra timori, calcolando tutte le conseguenze d'una passione rinchiusa nel cuore d'una fanciulla; prevedendo che un'idea fissa le avrebbe fatto perdere delle buone occasioni di matrimonio, condannandola ad accettare più tardi un partito qualunque, per non restare zitella.

Agata rievocava lo spettro della mia gioventù, vedendo che mia figlia mi somigliava nelle mie inclinazioni fantastiche, e negli amori vaporosi e perfino nelle ambizioni sfrenate; io le avevo avute per la tragedia del medio evo, essa le aveva ancora per la commedia… della moda.

Io mi forzavo dimostrarle, che le conseguenze dei miei errori giovanili non furono poi disastrose, e non mi avevano impedito di diventare buon marito e buon padre, e abbastanza felice, per quanto lo consenta l'umano destino… e la turbolenza femminea.

Si rabboniva, dovendo confessare che non ero una cattiva pasta, che dopo il matrimonio la mia condotta fu sempre regolare ed incensurabile; ma non poteva dimenticare la fatale influenza di quella finestra sulla nostra famiglia.

Infatti quella finestra coi nuovi amori ci dava sempre dei pensieri smaniosi. Che fare?.. Dobbiamo distrarre l'innamorata con un viaggio od attendere? interpellarla o tacere?.. e dopo lunghe discussioni intorno al partito da prendersi, si restava sempre nell'incertezza.

Eravamo in questi termini, quando una mattina il procaccino mi consegnò una lettera col timbro di Milano, e con soprascritta di carattere ignoto. L'apro, corro con l'occhio alla firma, e leggo – Savina Brisnago di Montegaldo!..

Essendo la prima volta che mi venivano alla mano i suoi caratteri, non è da sorprendersi se un'emozione indefinibile mi corse per le vene, e per qualche istante me ne rese impossibile la lettura.

Finalmente ho potuto scorrere la lettera da capo a fondo. La contessa, coi modi più garbati, mi chiedeva la mano di Giuseppina pel conte Saverio suo figlio.

Corsi dall'Agata e le dissi:

– Giuseppina mi ha dichiarato a Milano che il primo suo amore sarà anche l'ultimo. Tu vedi che non somiglia a me solo, essa ha le cattive qualità del babbo, e le buone della mamma. Vuoi renderla felice e uscire da ogni incertezza?.. Ebbene; tu sai che il segreto per sciogliere lodevolmente il nodo di tutti gli amori si trova nel matrimonio. Se concedi tua figlia in isposa al conte Saverio di Montegaldo, tutto è finito per il meglio, nel migliore dei modi.

– È una bella scoperta, ma come se ne può fare l'applicazione?

– Rispondendo favorevolmente alla domanda della contessa Savina… – e così dicendo le porsi la lettera.

Mia moglie la lesse rapidamente, e ne rimase sbalordita… La prima impressione fu buona, essa non pensò che a sua figlia… poco dopo, pensando al resto, esclamò:

– Povere madri!.. a quanta abnegazione siete costrette talvolta, per assicurare la felicità dei vostri figli!..

Tacque qualche istante, indi soggiunse:

– Daniele, rendimi giustizia, confessa che i miei presentimenti avevano ragione… io sentiva che quella finestra doveva rapirmi qualche cosa!.. è meglio però che prenda mia figlia, e mi lasci il marito!.. Almeno le nostre questioni saranno finite!

Ci voleva proprio il giudice conciliatore per terminarle, – io osservai; – è un originale venuto al mondo a bella posta per accomodare le differenze fra mogli e mariti.

Chiamata la Giuseppina, le abbiamo subito comunicata la nuova. Ci parve lieta, ma non sorpresa.

– Sei contenta, – le domandai, – se mandando alla contessa la nostra adesione, invitiamo lo sposo a sollecitare la sua venuta?

– Non occorre, – mi rispose, – perchè è qui da varii giorni.

– Poffare del mondo! – esclamai… – io non sono di questo secolo!

Il conte Saverio era infatti al villaggio, accomodato alla meno peggio all'osteria, aspettando la lettera di sua madre e il nostro consenso. Durante il giorno si teneva nascosto, riservandosi di confabulare colla sua bella al chiaro di luna, quando tutto il villaggio dormiva. Al segnale convenuto Giuseppina apriva pian piano le persiane della sua cameretta, e si affacciava alla finestra, Saverio era lì che l'aspettava, e passavano lunghe ore, egli in mezzo alla strada, ed essa al balcone, facendo la serenata colle armonie del cuore, e trovando sempre nuove variazioni sullo stesso motivo.

Dopo ricevuta la lettera della contessa, e udita la narrazione di mia figlia, andai io stesso a liberare Saverio dalla sua prigione, e gli apersi le porte di casa. Mia moglie e mia suocera lo accolsero come un figlio. Egli non ebbe parimente a lodarsi di Bitto, che lo ricevette come un ladro, abbaiando furiosamente, e minacciandolo se avesse osato avanzare. L'intervento della promessa sposa calmò i furori del cane, che anche questa volta dovette rassegnarsi alla volontà della sua amica; ma non lo fece però senza malcontento, continuando a ringhiare per qualche tempo sotto al tavolo, e guardando di cattivo occhio colui che ci veniva a rapire il tesoro più prezioso della casa.

 

Io mi ritirai per rispondere alla contessa Savina, che onorati altamente della sua domanda, ci eravamo affrettati di accogliere il conte Saverio come un figliuolo, lieti di affidargli la felicità di nostra figlia; e proseguivo con rispettose espressioni, che mi venivano suggerite dalla circostanza. Scrissi quattro pagine e mi recai a sottoporle al giudizio di mia moglie.

Leggendo attentamente la lettera, essa dimenava la testa in segno di disapprovazione, dicendomi: – Questa frase ha un doppio senso… questa è un'evidente allusione al passato… questa espressione è troppo sentimentale… l'altra è poco rispettosa. – Trovava altre frasi che non erano assolutamente necessarie, nè convenienti, nè del caso. Perciò, finite le amputazioni, non restavano che poche righe e la firma. Dovetti passare due ore con l'Agata, pesando tutte le parole, e credo che nessun diplomatico al mondo avrà ponderato un dispaccio che decideva dei destini d'una nazione con precauzioni maggiori di quelle che vennero usate da mia moglie per accettare una semplice domanda di matrimonio.

Pochi mesi dopo si celebrarono le nozze, e gli sposi partirono il giorno stesso per fare un viaggetto in Toscana.

Non racconto la storia del distacco per non rinnovarne il dolore. Agata ne fu ammalata parecchi giorni, e non poteva riaversi, e da quel momento incominciò a coltivare l'idea di abbandonare il villaggio, e di fissare la nostra dimora a Milano per vivere presso la figlia. Ma due gravi ostacoli si opponevano alla esecuzione di tal disegno: l'età avanzata di mia suocera, che non avrebbe abbandonato senza pericolo le vecchie abitudini, e un fondo persistente di gelosia, che la consigliava di tenermi sempre lontano dalla contessa Savina.

Sei mesi dopo il matrimonio gli sposi vennero a farci visita, e dieci mesi appresso l'Agata riceveva una lettera di Giuseppina che la pregava di recarsi a Milano per assistere al suo primo parto. Essendo la stagione del taglio dei boschi, mi era impossibile di abbandonare il paese; perciò mi limitai ad accompagnare mia moglie fino a Como, ove mio genero l'aspettava per condurla a Milano. Io ritornai in Valtellina e la settimana seguente ricevetti il lieto annunzio che nostra figlia aveva dato alla luce felicemente una bambina, e che la neonata e la puerpera godevano una perfetta salute. Mia moglie ritornò a casa pochi giorni dopo, e dandomi buone notizie della nuova famiglia, mi raccontò le cortesi accoglienze ricevute dalla contessa Savina, la quale, – aggiungeva mia moglie, – malgrado gli anni è sempre una bella donna! e così dicendo si mordeva il labbro inferiore e mi fissava con due occhi scintillanti, che indicavano chiaramente i sospetti della gelosia risvegliati alla vista d'una bellezza che, quantunque matura, non escludeva il pericolo. Oramai ero avvezzo alla sua cecità, e non tentavo nemmeno di guarirla, proponendomi il solo scopo di fuggire tutte le occasioni che potessero aggiungere esca a quel fuoco.

L'inverno successivo sarebbe passato tranquillamente, se una perdita dolorosa non fosse venuta ad amareggiarlo: il povero Bitto morì di vecchiaia. Da qualche tempo la paralisi delle gambe lo obbligava a non muoversi dal cuscino, e solo le nostre assidue cure lo tenevano in vita. Giunto agli estremi, fissò l'occhio affettuoso ne' suoi amici e spirò.

Avendo confessate francamente tutte le nostre debolezze, non vedo il motivo di nascondere le lagrime che abbiamo versate per la sua morte, nè di tacere della modesta ma decente sepoltura che gli abbiamo eretta in giardino, in memoria della sua fedele amicizia. Chi non è contento di ciò se ne dolga pure con quegli amici che ci abbandonano nella sventura, e con quegli uomini che non sanno meritare l'affetto che ispirano i cani.

I nostri figli vennero due volte in Valtellina, ma la loro bimba era rimasta a Milano colla sua balia. Io desiderava vivamente di vederla, tuttavia i soliti motivi d'affari e di prudenza mi vi tenevano lontano. La malferma salute di mia suocera impediva a mia moglie d'allontanarsi di casa, ed io non volevo andar solo a Milano, senza un motivo plausibile che giustificasse il mio viaggio. Non mi sentivo ancora abbastanza forte per affrontare un pericolo che mi esponeva a perdere per sempre la pace domestica, e a compromettere l'onore di due famiglie. I sospetti di mia moglie accrescevano la mia paura.

Ma l'occasione venne a tirarmi per i capelli, ed io ho dovuto ubbidire. Una lettera pressante d'affari mi chiamava a Milano; si trattava di salvare o di perdere un capitale importante, onde mia moglie stessa dovette spingermi alla partenza.

Apparecchiai in fretta la mia valigia, presi congedo da mia suocera inferma e mi avviavo verso la vettura che stava attendendo, quando mia moglie, accompagnandomi all'uscio, mi disse con un profondo sospiro:

– Finalmente potrai avvicinarti per la prima volta alla contessa Savina, guardarla negli occhi, udire la sua voce, stringere la sua mano!..

– M'immagino, – le risposi freddamente, – che non mi tratterai da briccone! Non vorrai dimenticare i nostri figli!..

– È così bella!.. – essa mi rispose mostrandosi indifferente a ogni altra considerazione. – Infatti, – soggiunse, – va, che Dio ti benedica; a questo mondo nessuno può fuggire alla sorte che gli è riservata!.. Io ti stimo abbastanza per pensare che, se cadi, la forza che ti spinge è irresistibile… Va… e ritorna presto… che sia decisa una volta, se posso vivere in pace gli ultimi anni della vita… o se devo morire desolata!..

Era inutile di discutere. Le diedi un bacio sulla fronte, essa mi strinse la mano; e, allontanandomi, lessi nel suo sguardo ciò che non osava dirmi col labbro.

Partii amareggiato da così persistente ingiustizia, considerando fra me stesso l'infamia della gelosia, che espone l'accusato a compromettersi colle goffaggini che fa per salvarsi, che spinge insensibilmente l'innocente verso la colpa, la quale gli procura dei benefizi che non peggiorano la sua condizione, ed anzi la rendono più sopportabile, perchè le giuste accuse riescono sempre meno dolorose delle false.

Giunsi a Milano a notte avanzata, triste e pensieroso, tanto mi crucciava trovarmi costretto all'intimità della contessa Savina. Ma questa volta non potevo fuggire.

La Veronica, che mi aspettava, m'aveva apparecchiata la mia cameretta ed allestita la cena; mi sentivo stanco, era troppo tardi per recarmi in casa Brisnago; andai dunque subito a letto, rimettendo la visita all'indomani. Ho dormito inquieto, agitato, con sogni paurosi; m'alzai al mattino colla testa pesante, e le idee confuse.

Apersi la finestra quando le imposte del palazzo Brisnago erano ancora chiuse, e mi sedetti davanti al tavolino per prendere varie note intorno ai miei affari. Ma quella benedetta camera era così pregna di memorie giovanili, che mi faceva dimenticare il presente, respingendo tutti i miei pensieri al passato.

La mia mente era ritornata, mio malgrado, ai bei giorni della gioventù, ai primi sogni d'amore, quando entrò la Veronica, dicendomi che aveva già fatto annunziare il mio arrivo in casa Brisnago. Mi versò nella tazza il caffè che aveva apportato, e mentre io lo andavo sorseggiando col pensiero sempre fisso al passato, essa guardava fuori dalla fatale finestra. Tutto d'un tratto vedo che si volta rapidamente e mi dice:

– Venite… presto… la contessa Savina vi manda un bacio!..

Mi è caduta la tazza dalle mani, le forze mi mancarono per alzarmi.

– Mio Dio!.. che cosa avete?.. – mi chiese ansiosamente la Veronica.

– Lasciatemi tranquillo… è un'indisposizione che passerà subito… – il cuore mi batteva, la testa mi girava, vedevo tutto buio…

Veronica mi offriva dell'acqua… io la respinsi.

– Non è nulla! – balbettai… – incomincio a rimettermi… – e poco dopo mi alzai macchinalmente.

– Venite… venite dunque, – mi ripeteva la Veronica.

Avanzai barcollando, e senza sapere ove andassi, mi affacciai alla finestra. Oh quale spettacolo!.. una vezzosa bimba, portata sulle braccia d'una contadina brianzola, mi mandava un bacio.

Era il primo bacio della contessa Savina… a suo nonno.

Assorto ne' pensieri remoti, io aveva completamente dimenticato che la mia piccola nipote portava il nome… della nonna.

Così il debito della contessa Savina di Brisnago veniva pagato dalla contessa Savina di Montegaldo, discendente diretta della prima, erede legittima e responsabile della sostanza attiva e passiva degli avi.

Liquidata in tal modo la partita pendente, scomparvero le allucinazioni che mi avevano lungamente molestato. La luce serena del vero, illuminando il numeroso corteggio degli anni che mi trascinavano alla vecchiaia, e l'ilare aspetto dell'innocenza che apriva la serie de' miei discendenti ristabilirono pienamente nel mio spirito la calma serenità della ragione.

Tirata una linea di demarcazione sui conti arretrati, ho potuto presentarmi in casa Brisnago col solo titolo di parente, e in conseguenza con puri e santi affetti nell'animo.

Mia figlia e mio genero si gettarono fra le mie braccia colla loro bimba, e quando entrò nella stanza la contessa Savina, ci siamo stretti la mano in mezzo alla nostra famiglia, come dovevano stringersela due nonni…

XXV

Sono passati molti anni da quel giorno. Poco dopo morì la mia buona suocera in Valtellina: noi abbiamo appigionate le terre, e siamo venuti a prendere stabile dimora a Milano, nella casa ereditata dallo zio canonico dirimpetto ai nostri figli e nipoti, la serie dei quali si è arricchita di due maschi, Azzone e Daniele, e dell'ultima bambina, che si chiama Agata.

La povera nonna Savina è mancata ai vivi nel mese decorso.

Incaricato da mio genero di ricercare un documento di famiglia in un armadio di sua madre, che egli non osava dischiudere per non inasprire la ferita troppo recente, io andavo rovistando con mano tremante le carte della defunta, quando mi capitò sotto gli occhi un involto legato da un nastro nero.

Avendolo aperto, cadde sul tavolo il mazzetto di mammole ed eliotropii colla rosa nel mezzo, che io le aveva gettato dalla finestra nella mia gioventù.

Diseccato dagli anni, non aveva ancora perduto ogni profumo. Lo tenni lungamente fra le mani piangendo. Era il mio ultimo tributo al passato.

Un mazzetto di fiori secchi, bagnati di lagrime… ecco quanto restava d'un primo amore!..

Però quel mazzetto, reliquia insignificante ai profani, era per il mio cuore pieno di eloquenti e supreme rivelazioni… In esso io leggeva la seconda parte del romanzo della mia vita… la più interessante, ma che resterà inedita per sempre… Essa non mi appartiene, è il segreto d'un nobile cuore coperto da un drappo funebre… Io non ho nè la potenza di far rivivere quel cuore, nè il diritto di profanare un morto con postume inquisizioni.

Ho narrato la sola parte che mi riguarda nell'interesse de' miei nipoti.

Leggendo un giorno il racconto del nonno potranno forse sfuggire a quei sottili prestigi che affascinano l'incauta gioventù con allucinazioni che sembrano inoffensive, ma che talvolta esercitano una fatale influenza su tutta la vita.

Voglia il cielo preservare i miei cari dal benchè minimo pericolo, rendendoli modesti e prudenti in gioventù, e sempre virtuosi, assennati e felici, fra le cure operose del loro stato e nella pace della vita domestica.

Villa Saltore, 25 maggio 1874.

FINE