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Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867

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IX.
Villa Glori

Il fatto che prende il nome da Villa Glori, non fu, in sè stesso, che una mischia accanita che durò un'ora o poco più. Preso isolato, non avrebbe avuto una grande importanza: parecchie fucilate e un vivace attacco alla bajonetta: ecco tutto. Ciò che valse a circondarlo, per così dire, di un'aureola, fu l'ardimento del tentativo e, più che tutto, il sacrificio dei due capi della spedizione, figli di una famiglia di martiri.

Il nostro còmpito era di spingerci dentro Roma. L'esserci invece dovuti fermare al di fuori, fu effetto di impreveduti accidenti e della necessità di attendere nuove comunicazioni. Arrivati fino a quel punto sarebbe stato viltà retrocedere prima di avere notizie da Roma, e venir meno alla promesse di d'appoggio fatta ai nostri; ma scoperti anzitempo ed attaccati, fu forza difenderci ed il campo rimase a noi; allora fu prudenza dei nostri il ritirarsi come fecero, nè era possibile fare altrimenti.

Sarebbe stata una pazzia rimanere sul posto. Come avrebbe potuto sostenersi lungamente una banda di settantotto uomini che aveva perduti i capi ed era decimata, con una posizione possibile forse a difendersi dal lato del fiume, ma impossibile dal lato opposto? Settanta uomini non sarebbero bastati nemmeno per le fazioni dal lato dello ingresso alla vigna, tanto il pendio vi è dolce ed allargantesi gradatamente fino alla base del colle. L'indomani mezzo il presidio di Roma sarebbe uscito ad attaccare la piccola colonna.

Entrare in Roma la notte stessa con le barche non si poteva, perchè queste erano sparite; entrarvi ordinati in colonna pigliando d'assalto Porta del Popolo o un'altra porta, non era cosa cui si potesse neppur pensare, perchè erano tutte difese da cannoni. In ogni caso sarebbe occorsa l'opera simultanea di insorti che si muovessero dentro la città, e in quell'ora sarebbe stato impossibile avvertineli. Unico mezzo sbandarsi alla spicciolata, e così fu fatto. Perciò, lasciati due o tre a cura dei feriti, alcuni entrarono in Roma, altri furono a tempo per trovarsi a Monterotondo e Mentana; altri, pur troppo, furono sorpresi e carcerati16.

Non vi è impresa, per quanto lodevole, che non possa dare argomento a critiche o ad osservazioni. Ai superstiti di Villa Glori qualche facile censore mosse il rimprovero di avere abbandonati i loro morti e feriti, pur tenendo il campo. Ho stimato per ciò doveroso per me scagionare i miei compagni da tale ingiusta accusa, benchè io creda che le mie difese siano affatto superflue.

Aperta la casa e visitata in ogni sua parte, poco ci volle a fissarvi quartiere. Una stanza venne adibita per il comandante ed il suo stato maggiore (diremo così), tutte le altre per la truppa.

Un po' alla volta tutta la compagnia fu sul colle portando seco i fucili e le munizioni che avevamo trasportato con noi. In breve tutta la casa fu occupata. Ci sbandammo tutti qua e là per le stanze, e frugando per ogni buco, trovammo in una camera dei melograni e buon numero di bottiglie. Ne sturammo parecchie a onore e gloria del signor Glori: così ci avevan detto chiamarsi il proprietario. Ciò che, del resto, era per noi di ottimo augurio.

Mancavano però i viveri ed il comandante pensò d'inviare all'uopo in città il furiere Muratti per provvederne e in pari tempo per dare e ricevere notizie.

Partì egli infatti e, per andar sicuro e senza molestie, credette bene, per suggerimento dello stesso comandante, di barattare passaporto con Mosettig che, come triestino, lo aveva austriaco. In tal modo il Mosettig diventò il conte Giovanni Colloredo, perchè, come già avvertii, il Muratti aveva il passaporto con questo nome. La precauzione fu eccessiva e forse dannosa. Il Muratti fu arrestato egualmente a Porta del Popolo e per quanto si spacciasse come austriaco e buon cattolico e parlasse tedesco, non essendo creduto, fu condotto alla polizia e soltanto più tardi lasciato libero.

Questo fatto dell'arresto del Muratti io non lo seppi che di poi, all'ospedale, dal cappellano dei gendarmi, il quale mi disse che noi avevamo mandato in città una spia tedesca!

In quel mattino noi avvertimmo parecchi oziosi e sospetti aggirarsi intorno alla vigna, e per quanto ci fu possibile, li arrestammo tutti. Tra costoro c'era un bifolco, un pezzo di giovinotto, che piangeva come un fanciullo; ma la sua ingenuità era così grossolana, da far pensare che fosse più furbo che santo. Ad ogni buon conto anch'egli fu requisito ed incamerato come gli altri.

Verso mezzodì dall'amico Veroi che era di sentinella, fu segnalato l'approssimarsi al colle di alcuni dragoni i quali sostarono al basso fuori del cancello. Enrico ne fu tosto avvertito e tenne consiglio coi capi sezione. Poco di poi intesi Giovannino che diceva ad uno dei nostri capi squadra:

– Porteremo la nostra sezione alla cascina del vignarolo: si prevede un attacco.

Riordinammo i fucili: un'occhiata alla rivoltella e una rassegna rapida delle munizioni di cui ci riempimmo le saccoccie dei calzoni, della giacca e del panciotto; poi ci recammo con cautela alla cascina del vignarolo.

Di fianco ad essa sorgeva isolato un monte di paglia; c'era in cima la nostra sentinella sdraiata, perchè potesse vedere senza essere veduta. Nel casolare del vignarolo si stava allora appunto allestendo un po' di cibo e più che tutto un buon brodo che ci andò in tanto sangue. Si mangiava allegri, non preoccupati per nulla della imminenza di una catastrofe: anzi si celiava lepidamente ricordando episodi ed aneddoti d'altri giorni e d'altri amici.

Il più faceto e grazioso narratore in quell'istante era il povero Mantovani. Parmi ancora vederlo seduto sopra una cassapanca con un pezzo di pane in una mano ed un quarto di pollo nell'altra. Narrava e mangiava a quattro palmenti. Infelice! Tre ore dopo era morto!

Infatti si stava ancora mangiando, quando entrò in gran fretta la sentinella esclamando a bassa voce:

– I soldati! i soldati!

Immediatamente ognuno diè di piglio all'arme sua, e tutti si uscì alla rinfusa dal casolare. Ci schierammo alla meglio lungo il ciglio del colle riparati da una leggera siepe e attendendo, ginocchio a terra, l'avanzarsi del nemico.

Lo si vedeva infatti venire innanzi con cautela disteso in colonna.

Evidentemente veniva ad una ricognizione. Non si distingueva di qual corpo fossero i militi, ma il colore cupo delle monture ce li faceva riconoscere per carabinieri esteri (svizzeri).

– Attenti! ci disse sottovoce Giovannino, non fate fuoco finchè non ve lo ordino io!

Una prima scarica ci salutò ad una distanza, per verità, troppo rispettabile e le palle passarono fischiando sul nostro capo.

– Non ancora, non ancora! lasciate che si accostino di più!

Infatti lentamente si avanzavano regalandoci una seconda, poi una terza ed una quarta scarica.

Ci dovevano discernere benissimo: ed a misura che progredivano, abbassavano la mira, talchè nelle ultime scariche le palle si piantavano entro terra al disotto di noi e il terreno spruzzando ci sbatteva in viso. Giovannino stimando per noi inutile imbarazzo quella siepe ci ordinò d'atterrarla, e fu fatto in un attimo.

– Fuoco! ordinò egli allora, e la nostra prima scarica partì.

Dopo, lo scambio delle fucilate continuò senza interruzione: ma chi può ridire la pena del caricar quei fucili e il disuguale combattimento! I papalini avevano dei remington buonissimi che tiravano fino a 800 metri; noi invece dei ferrivecchi, avanzi della Guardia nazionale. Per caricarli occorreva star ritti in piedi sul ciglio della collina: miglior bersaglio non si poteva loro offrire!

Qualcuno potè approfittare di qualche tronco d'albero e riuscire a caricare al riparo, ma i fucili, quasi tutti guasti per l'umidità sofferta, erano addirittura inservibili! Cinque capsule, mi ricordo, dovetti applicare per fare il primo colpo: e nella condizione mia erano tutti.

– I fucili non servono a nulla, cominciammo a gridare, ci vuol l'attacco alla bajonetta!

E in quell'istante, colpito da una palla, cadeva il povero Moruzzi. Accorsero Giovannino e il Campari e tentarono di sollevarlo da terra, ma il soccorso portò danno maggiore, poichè una seconda palla lo colpì al ventre.

D'altronde il nemico incalzava e non c'era da perdere tempo. Giovannino ordinò di ritirarsi verso la casa per unirci agli altri. Le ultime scariche ferirono anche il Castagnini.

– M'hanno ferito, gridò mostrando il braccio sanguinante.

Era quello il primo sangue che io vedevo e non potei trattenere un lieve moto di ribrezzo: guardai compassionevole il povero amico, ma il suo volto, tutt'altro che atterrito, mi rincorò.

Ci ritirammo ordinatamente.

Raggiunte le altre due sezioni, che al rumore delle fucilate e per l'avviso mandatone da Giovanni, erano uscite dalla casina e si erano schierate lungo la strada, ci fu un breve istante di ressa, di parapiglia e di incertezza sulle disposizioni da darsi. Non si sapeva effettivamente da qual parte potesse sbucare il nemico.

Ma quando furon visti spuntare i berretti in fondo alla stradicciuola, il comandante ordinò sul'attacco alla bajonetta nella direzione della strada stessa.

 

Vi si lanciò il Tabacchi colla sua sezione.

Senonchè si vide allora, dal lato sinistro della strada, apparire il grosso della colonna disteso in ordine sparso sul prato fiancheggiante.

Ma Enrico fu pronto a mutare comando, e senz'altro con quanta voce aveva gridò:

– Sulla sinistra! coraggio ragazzi! attacco alla baionetta! evviva Garibaldi!

Un urlo di noi tutti fe' seguito alle sue parole, e superando la scarpa della strada infossata, piombammo addosso ai pontifici.

Sorpresi anche dalle grida, costoro sostarono un momento esitanti; credettero senza dubbio di avere di fronte un nemico ben più numeroso.

Sventuratamente, oltre che montare il piccolo ciglio del campo di sinistra, dovevamo superare anche una siepe che costeggiava il ciglio stesso e che imbarazzava un movimento simultaneo di tutta la colonna. Enrico ch'era in testa a tutti, ne atterrò coi piedi quel tanto che bastava a lui solo per passare, e senz'altro si slanciò precipitoso in avanti.

– Fermati, Enrico, gli gridò Giovannino, che andiamo assieme!

Sono queste le ultime e le uniche impressioni che mi sono rimaste della tragedia che allora appunto avea principio: le parole di Giovannino, la corsa precipitosa di Enrico in mezzo al nemico colla rivoltella spianata contro il capitano dei pontifici e due o tre soldati sul suo fianco sinistro che lo prendean di mira. Poi non vidi altro, perchè nello stesso istante una palla tirata quasi a bruciapelo mi spaccò il polso del braccio sinistro.

Fu come un violento colpo di pietra: il braccio restò intorpidito, il fucile mi cadde e mi trovai disarmato di fronte a due soldati che m'investivano a bajonetta calata.

Trassi il revolver, ne scaricai due colpi nella lor direzione: la vista dell'arma li fe' retrocedere.

Squillò allora una tromba. Eran nuovi nemici che si avanzavano? era un segnale d'attacco alla villa per toglierci la difesa?.. Il Tabacchi lo prevenne portandosi sulla destra del luogo d'azione, e noi altri tutti accorremmo subito alla difesa della casa.

Appena entrato io caddi su di una seggiola ed ebbi qualche minuto di deliquio.

Quando rinvenni, la casa era tutta in trambusto.

Imbruniva; la lotta era finita, i papalini pareva che si fossero ritirati, ma c'era chi diceva che ci avrebbero assaliti per diversa parte.

– Bisogna difenderci, – barricheremo la porta, le finestre, – daranno fuoco alla casa, – è morto Enrico ed anche Giovannino, – meglio arrenderci, – no, dobbiamo vincere o morire, – è caduto Mantovani, – mancano pure Bassini e Papazzoni, – ci assaliranno da un momento all'altro, – di notte è impossibile, – usciamo di nuovo, – è caduto anche Mosettig, – non usciamo, ci prenderebbero, – difendiamoci qui.

Queste ed altre eran le frasi che rammento fra la trepidazione, la confusione, l'ansia dell'istante, il trambusto e l'urgenza di una pronta risoluzione.

Fui medicato alla meglio dall'amico Fabris (noi lo chiamavamo Febo ed era allora studente di medicina a Bologna) con delle pezze strappate da una camicia. Il projettile m'avea spezzato il capo articolare dell'ulna, il dolore era acuto e ad ogni piccola mossa mi rincrudiva lo spasimo. Temevo d'essere preso dal tetano.

Per darmi animo mi fecero bere del vino e poi mi adattarono al collo una benda, sì che il braccio potesse star fermo e adagiato.

L'angoscia maggiore in tutti era però per la perdita dei fratelli Cairoli: si parlava d'Enrico caduto, di Giovannino pure; degli altri non si sapeva. Sarebbe stato necessario andarli a levare dal campo; ma e se la casa fosse circondata?..

Era scorsa fra codesti dubii e contrasti una buona ora dal combattimento e la notte era già avanzata, quando parve udire dal di fuori delle grida continuate. Si tacque tutti e di lì a poco si sentì una voce chiara, distinta, disperata gridare nel buio della notte:

– Aiutooo!

– Chiedono soccorso.

– Sono i nostri feriti. Bisogna andare.

– E se fosse una gherminella dei nemici per tirarci fuor di casa?

– Comunque sia, bisogna andare.

– Vado io, ci vieni tu?

Ma in quella nuovamente e più lungo e più desolato s'udì il grido: Ajutooo!

Immantinente l'amico Febo, lo Stragliati ed altri, salite le scale, aprirono una finestra e gridarono ad alta voce:

– Chi è?

– Mosettig! rispose la voce.

Non c'era più dubbio: erano i nostri che chiamavano soccorso. Subito alcuni uscirono e rientrarono ben tosto reggendo a spalle il compagno Mosettig ferito ad una gamba. Tra i caduti era stato il primo a riaversi e si era trascinato a piccole tappe fin presso alla casa.

Senza più indugi un altro drappello uscì di nuovo fuori; poi un altro ancora e in breve furon portati entro la casa il Papazzoni ferito ad un piede, il povero Enrico morto ed agonizzante l'infelice Mantovani.

Enrico ed il Mantovani furono entrambi deposti a terra nella stanza dove il mattino s'era tenuto consiglio tra i capi sezione. Il Mantovani respirava appena, ma ebbe il tempo di dirci, fra i singulti della morte, come essendo caduto per una ferita fosse poi bajonettato sul terreno.

Un grido d'orrore, lo rammento, accolse quella rivelazione di codarda barbarie. Pochi momenti dopo, fra spasimi convulsivi terribili, spirò.

Il nostro dolore per la perdita di quei due amici fu vivissimo. Si riandavano i momenti dell'attacco, della mischia, si deplorava di aver agito precipitosamente, di aver fatto un attacco alla bajonetta in quel posto; meglio era difenderci in casa, meglio ritirarci al mattino; già si dovea prevedere che quella non era posizione sostenibile!..

Sul campo non si poterono ritrovare nè Giovannino, nè il Bassini. C'era chi assicurava che erano morti entrambi, forse caduti lungo la strada, dopo aver tentato di guadagnar la casa, forse trasportati via dagli stessi pontifici.

Intanto lo spasimo al mio braccio andava aumentando. Sdraiato com'ero, mi riusciva insoffribile; mi alzai e salii dall'amico Mosettig.

La sua ferita era grave. Mi strinse con affetto la mano, mi baciò:

– Ah, poveri noi, sclamò poscia, quanto fummo sfortunati!

– Pur troppo, gli risposi, e me ne duole nell'anima! Ora ci terranno prigionieri chi sa quanto tempo!.. E pensare che fra pochi giorni io avrei dovuto iscrivermi all'Università, e forse mi toccherà perdere l'anno!

L'amico mi guardò stupito con cera interrogativa, come per accertarsi se avevo dato di volta al cervello. Ma vedendo che io insistevo nel discorso:

– Ma ti par questo il momento di pensare all'Università? mi gridò. Chi sa domani cosa faranno di noi!

Per verità non aveva torto. Da parte mia, però, lo confesso ingenuamente, non fu nè millanteria nè sprezzo del pericolo. Io vado soggetto a distrazioni incredibili e anche in quella circostanza si vede che la regola non volle avere eccezione.

Durante la notte i nostri compagni si sbandarono tutti, chi da una parte, chi dall'altra. Rimasero a guardia dei feriti il Colombi, il Campari e il Fiorini, nonchè i doganieri pontifici fatti prigionieri la notte innanzi.

Cessato il trambusto e l'agitazione, dileguatisi uno ad uno i compagni, io mi gettai di nuovo sulla paglia, e fosse stanchezza dei patiti disagi o reazione all'angoscia sofferta, fatto sta che in quella casa dove pareva restassero gli avanzi di un saccheggio, fra compagni feriti che gemevano, con due amici morti d'accanto, con l'incertezza crudele del domani in cuore, quando il sole spuntò al mattino sull'orizzonte lontano ad illuminar quella scena d'orrore… io dormivo.

X.
L'indomani

Dormivo davvero quando un raggio di luce penetrò nella stanza a pianterreno. Destarmi e riconoscere subito la terribile realtà della situazione, fu cosa di un minuto. Non sognavo, no. Chi sogna dorme male ed io in quelle brevi ore avevo dormito profondamente. Tanto ero stanco!

Mi rizzai a sedere. La poca paglia su cui giacevo mi aveva mal difeso dall'umidità del pavimento e mi sentivo le ossa peste ed ammaccate come se mi avessero bastonato. Contemplai un istante la scena che mi circondava, poi uscii all'aria aperta. Avevo proprio bisogno di respirare liberamente.

L'orrore di quel luogo chiuso, barricato, pieno d'armi accatastate alla rinfusa, di cappotti, di borraccie, di vestiti abbandonati dai compagni per essere più lesti al cammino; l'aspetto di saccheggio e di devastazione che presentavano quei tavoli, quelle sedie rovesciate, le bottiglie fracassate, le stoviglie infrante, gli avanzi della cucina del giorno innanzi ancora sparsi sul pavimento e frammisti alla paglia, ai cappelli, alle bende, e tutto ciò chiazzato di macchie sanguigne; il gemito dei poveri miei compagni feriti, e nella stanza vicina, giacente a terra quasi a sbarrarne la porta, il cadavere del povero Enrico e l'altro più terribile del Mantovani, il quale pareva sfidasse ancora l'assassino che lo aveva morto a bajonettate sul terreno, formavano nell'insieme uno spettacolo raccapricciante.

Si soffocava: uscii, come ho detto.

Un magnifico sole cominciava ad indorare le foglie alle siepi ed agli alberelli che costeggiavano la stradicciuola di fronte alla casa. Di lontano giungeva il suono delle campane della città eterna, e ad ogni tratto un'archibugiata dei pacifici cacciatori onde abbonda la campagna romana, veniva a rompere la pace di quel luogo. Spettacolo di natura tanto tranquilla e sorridente che faceva vivo contrasto con la desolazione della villa, con la realtà del fatto, con l'amarissima incertezza della sorte nostra.

Pensavo… forse domani ci sottoporranno ad un Consiglio di guerra; forse… e il pensiero inorridiva, mentre inavvertita dalla congiuntiva dell'occhio mi scendeva una lagrima… E la mamma?..

Levai il capo per cacciare i neri presentimenti e… mi vidi faccia a faccia con uno sconosciuto!.. Dio mio! lo fisso. Era Giovannino! Giovannino Cairoli in persona!.. Ma chi avrebbe potuto più ravvisarlo? Pallido in viso e macchiato orribilmente di sangue che era colato dalla testa fasciata con un cencio e coperta da un cappellaccio. Si reggeva su di un bastone e camminava a stento.

Anch'egli pativa per le ferite toccate nella schiena difendendo il fratello dopo che era caduto. Povero Giovanni! Avea lottato corpo a corpo, aveva veduto cadere il fratello in quel terribile attacco alla bajonetta, avea veduto i soldati precipitarglisi allora addosso, si era avventato colla rivoltella alle tempia di quegli aggressori; ma la rivoltella, arruginita, non aveva agito. Disperato l'aveva sbattuta sulla testa d'uno di quei miserabili colla furia della tigre ferita, e come tigre ferita era caduto poi rovescio, colpito da una palla che gli sfiorò il cranio. Si era gettato allora sul corpo del fratello esamine, colle mani, col petto facendogli scudo, e le bajonette nemiche avevano finito anche lui, che giacque spossato, sanguinante, svenuto accanto al suo Enrico!

E quanta vita, quant'anima in quel giovinetto, mentre mi raccontava sì orribile tragedia!

– Ah! lasciatemi vedere il mio Enrico! che io lo baci ancora una volta, una volta ancora!

Gli amici Campari, Colombi ed io pure tentamno in ogni modo di opporci, e lo assicurammo che più tardi gli avremmo concesso questo supremo sfogo di dolore. Fu fatto entrare in casa, ma uno di noi ebbe l'avvedutezza di andare innanzi e di chiudere la porta della stanza dove giaceva il fratello.

– Sentite, amici, disse poi risoluto ed appena entrato in casa, facciamo una cosa. Abbiamo ancora fucili, abbiamo rivoltelle; se vengono i soldati barrichiamoci in casa e vendiamo cara la nostra vita.

Eroico ardimento d'un cuore generoso e ferito.

Non ci volle molto però a farlo persuaso della impossibilità di tale progetto. I gemiti dei compagni pressochè moribondi avrebbero condannato qualunque tentativo temerario da parte di noi, feriti pur anco ed impotenti a qualsiasi resistenza.

Era prossimo il mezzogiorno. Una brezza leggiera piegava gli alberi, metteva un lieve senso di brivido nelle ossa indolenzite e faceva lentamente sventolare il bianco lenzuolo che, annodato a mo' di bandiera ad un bastone, avevamo issato da una finestra della casa.

Uno strepito confuso d'armi e di voci, lo scalpitar di cavalli ci fe' comprendere che s'avanzavano dei militi. Erano certamente venuti a levare i feriti.

Le guardie di Finanza da noi fatte prigioniere lungo il Tevere e liberate da noi quella mattina, avevano senza dubbio mosso il comando militare pontificio al soccorso dei nostri feriti.

Così pensavamo: ma non era così.

– I pochi della scaramuccia di ier sera non dovean essere che l'avanguardia. Di certo sui Monti Parioli ora ci deve essere il grosso della banda. La chiamata al soccorso dei feriti non può essere che un gherminella per tirarci lassù ed attaccarci.

 

Ecco quale certamente deve essere stato il ragionamento del ministro delle armi e generale delle truppe pontificie, poichè non è credibile che si venisse a levar feriti con tanto apparato di forze. Zuavi, antiboini, tiraioli, zampitti, dragoni, gendarmi, ogni arma era stata messa a contribuzione.

Al primo vederci puntarono le armi in atto di fuoco.

– Feriti, feriti, blessés! gridavamo noi. Si! era come dire al muro! non ne capivano d'italiano! Finalmente un tenentino dei dragoni si fe' avanti gridando loro:

– Ne faites pas de feu! pas de feu! e fatti alcuni passi verso la nostra casa, prima ci ordinò d'uscire, poi messici in fila tutti fuor della porta, con una sentinella cui graziosamente ordinò d'infilzarci tutti se ci fossimo mossi, entrò nella casa e la masnada intera lo seguì.

Descrivere il fracasso che fecero con quei poveri fucili, ferrivecchi della Guardia nazionale, è cosa da non potersi ridire! Ce n'erano moltissimi di carichi ed essi li prendevano per la canna e pestandoli contro il suolo o contro il muro, ne spaccavano il calcio.

E dire che non uno esplose loro nelle mani!

– Vous étiez venus ici avec de trés-bonnes intentions, ci disse il tenentino uscendo e portando in pugno una mezza dozzina di rivoltelle.

Ricordo ancora la faccia del Campari e la sua risposta. I buoni ambrosiani non dimenticano mai la loro parlata, talora francamente ingenua, anche nei momenti supremi della vita.

– Oh me par peu, rispose egli con un accento di bonaria persuasione, me par che voressen minga cojonà gnanca lor!

Dopo un'ora circa impiegata a distinguere i fucili, i vestiti e quanto trovarono, ripresero finalmente la loro strada e sembrava che avessero fretta. Chiedemmo loro dove andassero e perchè non trasportassero i feriti. Ci fu risposto che non ne avevano il tempo, perchè doveano inseguire le bande17! Credevan forse a pochi passi da noi di scovare Garibaldi in persona!

Un gendarme prima di montare a cavallo mi presentò una bottiglia, offerendomi da bere. Lo guardai in viso; non comprendevo così strana cortesia.

– Bevi, bevi, mi ripeteva.

– Ah è così che la credete? sclamai d'un tratto. Presi la bottiglia e tracannati tre o quattro sorsi, la lanciai contro lo stipite fracassandola in mille pezzi. Temevano che avessimo avvelenato il vino!

Imbruniva. Il povero Giovanni era riuscito ad ottenere da noi di poter dare l'ultimo bacio all'amato suo estinto. Ma lo trascinammo subito fuori dalla stanza, promettendogli che guarderemmo noi stessi la preziosa salma perchè nessuno la toccasse.

Pochi minuti dopo io ed il Campari gli consegnammo alcuni oggetti e ricordi tolti di dosso al glorioso eroe.

Un rumor sordo di carri ci avvertiva che finalmente qualcuno da Roma si era mosso in nostro aiuto.

Era ben ora. I feriti nostri languivano senza cibo da ventiquattr'ore e le ferite incrudivano coll'avvicinarsi della notte. Erano bare tirate da un cavallo e coperte da un saccone. In ciascuna fu adagiato alla meglio un ferito. Vi erano pure due carrozze. Il corteo era composto d'un medico, un cappellano, un capitano dei gendarmi e di quel tenentino della mattina. Costui al povero Giovanni che io pregava di usare riguardo nell'entrar dentro la stanza ov'era suo fratello morto, rispose cinico:

– Ebbene, se è morto, non posso certo fargli del male!

Anche nei momenti più tristi c'è sempre una nota amena. Ce la diede questa volta il cappellano, un grosso e corpulento prete belga con una faccia da cuor contento inesprimibile, il quale domandò a più d'uno dei nostri feriti se prima di battersi aveva fatto le devozioni sue: qualcuno gli rispose che sì, ed egli ne fu contento come una pasqua.

C'incaminammo. Si scendeva lentamente per la calata dell'Arco scuro, ma quando imboccammo lo stradone di Porta del Popolo si accelerò il passo. Io ero a cassetta ed il cocchiere mi andava infastidendo con rimproveri ed ammonimenti.

– Fate il vostro mestiere! gli dissi. E tacque.

Arrivammo a Porta del Popolo e il treno si arrestò. Una compagnia di truppa era in arme al limitare della porta. C'era una agitazione, una ressa indiavolata. Un capitano venne allo sportello della nostra carrozza e raccontò che in città avveniva un fatto d'arme: eran duecento, trecento, quattrocento insorti, c'eran morti, feriti, ecc.18.

In quel mentre si udivano infatti parecchie fucilate.

– Oh Gesummaria! invocò il mio cocchiere.

– Niente paura, gridò il tenentino spavaldo, è qualcuno che… (lasciamo nella penna la parola). Avanti!

Uno squadrone di dragoni a cavallo ci si mise al fianco per iscorta e il corteo mosse di nuovo.

Tre cannoni erano puntati in Piazza del Popolo, uno contro il Corso, un altro verso il Babbuino, il terzo contro Ripetta. Noi prendemmo da questa parte. La via era deserta affatto, chiusi i negozi, le porte e le finestre. Il rumore delle ruote, lo scalpitar dei cavalli, il tintinnio delle sciabole dei dragoni in mezzo a quel sepolcrale silenzio aveano un che di sinistro. Appena vedevasi qualche imposta di finestra aprirsi un momento e far capolino qualche curioso attratto dall'insolito rumore, e poscia tosto rinchiudersi.

La traversata di Roma seguì senza inconvenienti.

Battevano le 8 di sera e noi arrivammo alle porte dell'ospedale di Santo Spirito incerti di nostra sorte, se prigionieri di guerra ovvero insorti sorpresi coll'armi alla mano, e quindi forse dannati nel capo per alto tradimento!

16… QuarcunoRimase ner casale chiuso drentoCo' li feriti; e de nojantri, ognunoDoppo che s'approvò lo sciojjmentoSe sbandassimo tutti. QuarchidunoFu preso a Roma a Piazza Barberina;L'antri sperduti in braccio de la sorteAgnedeno a schizzà pe' la Sabbina.Li più se riformòrno in carovana,Passòrno fiume, presero le corteDrento a li boschi, e agnedeno a Mentana.Pascarella, id., son. XXV.
17«Il comando di piazza solo a giorno avanzato mosse una poderosa colonna di fanti e di cavalli con mandato di battere la campagna da Porta del Popolo infino a Porta Pia, e snidare il nemico se si scoprisse, e dar la caccia agli sbandati». Civiltà cattolica.
18Era probabilmente una ricognizione capitanata dal principe Lancellotti, zelante crociato di quei giorni.