Lia

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(31) OSSA


Ma dove era diretta l’Aurora Sorgente, su quel mare notturno, al declinare dell’estate?

Come ogni buon generale, Gost Baran aveva preparato con cura i suoi piani. Che prevedevano un circuito delle città della costa occidentale, quelle più ricche e popolate, quindi tagliare per mare il Grande Golfo, proseguire via terra in maniera da giungere ad Argyria all’inizio dell’inverno, in tempo per le celebrazioni del secondo millennio.

Approdammo a Lyssa dopo cinque giorni di navigazione.

Dumpy Dum aveva detto il vero: mi ero abituato. Più o meno il giorno prima di arrivare. Ma abbastanza per cominciare ad intendere il respiro delle onde.

Scrutavo la circolare uniformità dell’orizzonte, non in cerca di una terra, ma di qualche segno che neppure sapevo come si sarebbe presentato.

Il tempo ci fu propizio. Durante quel viaggio non conobbi la furia demente del mare.

Per la prima volta da quando ero partito da Morraine non avevo nulla da fare, o quasi. Armeggiai un po’ attorno al carro, che era stato legato sul ponte, riparai qualche attrezzo di scena.

La sera del quarto giorno, estrassi dalla mia borsa i tesori che mi ero portato da casa, e che fino a qual momento non avevo toccato. La mappa dell’isola. Le Tragiche Historie (queste in verità le avevo mostrate a Myrtilla, un giorno); i Fiori di bianco prato, i Canti di Pridery, la lampada e l’olio. Accanto a questi posai la sfera nera che mi aveva regalato Occhi di Gatto, e che Riskrill il cacciatore aveva dichiarato essere un amuleto di grande potenza.

Tanto mi restava della mia vita anteriore, oltre ai ricordi. Che fino a qual momento mi ero sforzato di non risvegliare.

Mi misi a piangere.

Per fortuna ero solo.

Mi risvegliai nel pieno della notte. La cabina era piena di una luce lattea, lunare. Ma la luna, se già non era tramontata, poteva essere solo una falce sottilissima.

Scrutai all’intorno. Il chiarore veniva dalla mia bisaccia. L’avevo lasciata aperta, prima di addormentarmi, appesa ad un gancio sopra la mia testa.

Mi misi a sedere. Non avevo paura. Non pensavo a nulla. Era come la prosecuzione di un sogno. Presi la bisaccia, ne estrassi la mappa, la dispiegai. L’isola splendeva nel sole meridiano. Quasi potevo scorgere le creste bianche delle onde, e i gabbiani, e il tremolio delle foglie. Non l’avevo mai vista così bella.

Ti troverò, pensai.

Lentamente, la luce svanì, la mappa tornò ad essere un foglio.

Oltre Lyssa, si distende lo scheletro della terra. Ossa ingiallite, striate, perforavano la pelle verde scuro dei boschi. Sotto la pelle, scorrevano vene strette e sinuose di strade, dove il nostro carro passava a malapena.

Altre ossa affioravano. Disfatte dalla vegetazione, mostravano tuttavia i segni dell’uomo. Relitti di un’antichità quale non avevo mai immaginato, gettati all’intorno dal capriccio di qualche cataclisma.

Quella era la regione più antica delle Terre. Fin dalla Prima Era, le generazioni dell’uomo avevano lavorato quei campi, vi avevano costruito sopra le loro case, erano morte. Montagne intere erano state tagliate per cavarne la pietra. Ogni zolla che calpestavo era una tomba.

Non è così in tutto il mondo? Forse. Ma lì, più che altrove, il passato grava con tutta la stanchezza del suo peso. La continuità: ecco cosa distingueva quel luogo. Mai il sole era sorto su quella terra senza illuminare gioie e sciagure umane. Migliaia di anni. Milioni di vite, di sogni.

Nella prima città in cui ci fermammo, le pietre delle case portavano incisi segni antichissimi, ornamenti floreali, pezzi di animali: frammenti riutilizzati di edifici ancora più antichi, che a loro volta aveno utilizzato le rovine di altri. Ad un angolo, una grande faccia quasi obliterata dalla pioggia, dal gelo. Dei bambini ci si arrampicavano sopra, la bocca ridotta a una cavità sdentata, il naso informe. Le orbite enormi fissavano il cielo, e una crepa le attraversava la fronte, come una cicatrice.

Estratte da templi e palazzi, le pietre, con le loro immagini di divinità e di imperatori, facevano adesso da muri e da volti a cucine, osterie, cantine, probabilmente anche a fogne.

Fuori dalle mura, archi enormi si interrompevano precariamente nel vuoto: un ponte incomprensibile. Appresi in seguito che era stato un acquedotto.

A Cahrduc abita una gente dal sorriso enigmatico, il naso affilato, le palpebre strette. Applaudivano con riserva, ma erano generosi nelle offerte. Per qualche superstiziosa ragione, Baran si rifiutò nella maniera più assoluta di trascorrere la notte in città. Avevamo montato il palcoscenico nel primo pomeriggio, e mi erano rimaste un paio d’ore di tempo libero, prima dello spettacolo, e qualche soldo in tasca, concessione del nostro capocomico. Esplorai la città, che non è molto grande, ma con stradine talmente tortuose che si fatica a ritrovarsi due volte nello stesso posto. I muri delle case raramente sono dritti, le finestre poste alle altezze più varie confondono sul numero dei piani. Le facciate in mattoni rossi e gli angoli smussati rendono singolarmente difficile giudicare le distanze. Sembrava una città fatta apposta per trarre in inganno i nuovi venuti. In qualche maniera mi ricordava Morraine. Forse la Morraine sotterranea, di cui si favoleggiava, innalzata alla luce.

Sotto un arco, in cima a quattro gradini, vidi una vetrina e un’insegna. La vetrina era polverosa, ma lasciava filtrare abbastanza luce da scorgere dei libri. L’insegna era quella di una civetta. Entrai. Il padrone non assomigliava ad Arno Borissein, soprattutto perché nessuno degli abitanti di Cahrduc è grasso, ma la palandrana che indossava non era molto diversa. Mi chiesi se tutti i librai delle Terre non facessero parte di qualche segreta corporazione. Si limitò a guardarmi, con quella specie di sorriso, ma gli abitanti di Cahrduc sono tutti di poche parole. Rovistai fra i libri usati.

Mappe di città.

Questo poteva essere un libro utile. Lo estrassi da sotto una pila di altri tomi in quarto. La copertina di pelle minacciava di sbriciolarsi. Il titolo, sul dorso, era leggibile solo perché era stato scritto su un’etichetta appiccicata tempo dopo. Quello originale, sul frontespizio, diceva:

THEATRO DI NOBILISSIME CITTÀ

ovvero

ITINERARIO DEDALICO

Che mai voleva dire “dedalico”? Sfogliare il libro non era facile, perché molte delle mappe erano ripiegate in due o più parti. L’ordine con cui erano disposte, poi, non era né alfabetico né geografico. Provai l’indice, trovai Morraine, andai alla pagina indicata.

"Città di Morraine," diceva il cartiglio, "Con tutti i suoi Cortili, Portici, Passaggi, Gallerie, Fontane e Pozzi." Ma non era Morraine. Almeno, non era quella che conoscevo io. Mi pare di avervi detto che a Morraine non ci sono mappe di Morraine. Mappe disegnate. Ma nella mia testa c’era, ed era chiarissima.

Osservando meglio, qualcosa riconobbi... Il Castello, nell’angolo in alto a destra... e quello doveva essere il Cortile della Cisterna, quello da cui ero uscito insieme a Occhi di Gatto... ma i passaggi erano sbagliati, o meglio, ce n’era uno in più... Scrutai il centro, dove doveva trovarsi il Cortile Segreto, ma trovai solo un intrico di linee, come un labirinto... Allora mi ricordai. Quella mappa l’avevo già vista. Insieme a Occhi di Gatto, durante la Festa delle Maschere. Appesa alla parete di una sala, oltre la porticina minuscola del cortile senza nome. In bianco e nero, impresso su carta, il disegno a forma di fiore era meno riconoscibile, tuttavia...

– Un viaggiatore, vedo.

Sobbalzai. Non so perché, chiusi il libro di scatto.

– Quanto costa?

Non ricordo quanto lo pagai. Forse troppo, ma il sorriso del libraio mi impedì di tirare sul prezzo.

La notte ci accampammo in una radura, scelta da Gertrid dopo il vaglio attento di sfuggenti auspici.

Le donne dormirono nel carro, noi uomini fra due grandi falò.

Mi svegliai nel pieno della notte. Nell’aria, un canto.

A volte sogno di risentirlo.

Solo in sogno, e nelle colline intorno a Cahrduc è possibile udire la dolcezza di quel canto.

Mi levai a sedere. Il cielo era pieno di stelle, la luce arancione dei falò illuminava il carro e i miei compagni addormentati. Il canto andava e veniva, come una lenta onda oceanica. Feci per alzarmi. Una mano mi afferrò il polso. Era Dumpy Dum. Mi costrinse a stendermi di nuovo. Dumpy Dum aveva braccia e mani d’acciaio. Disse soltanto: – Non siamo soli.

Poco dopo il canto svanì, e ci fu possibile riprendere sonno.

Oltre le colline di Cahrduc, si stende una grande pianura, fiorente. Alcuni campi erano ancora da mietere. In mezzo ai campi, grandi fantocci di rami e paglia, vestiti di stracci, con maschere colorate. Riconobbi anche una larva di Morraine. Forse di quelle che vendevano a Gyenna, durante il mercato della luna.

– A cosa servono? – chiesi.

– A spaventare gli uccelli – rispose Astrix.

– A spaventare gli spiriti – disse Dumpy Dum.

– Quali spiriti?

– Quelli che fanno marcire i semi nella terra, quelli che portano la ruggine delle spighe, quelli che mandano le cavallette, quelli che mandano scarsa pioggia, quelli che ne mandano troppa...

 

– Uccelli – ripeté Astrix.

Ma le storie di spiriti sono molto più interessanti di quelle di uccelli.

– E quei nastri? – Lungo i bordi dei campi, da certi pali e dai rami degli alberi, penzolavano nastri con legate delle ossa.

– Altri spiriti – spiegò Dumpy Dum. – Quelli degli insetti molto piccoli.

La vita degli agricoltori doveva essere regolata da rituali complicati quanto quelli dei cacciatori. A Morraine, che è soprattutto una città di artigiani, non me ne ero mai resto conto.

– Funzionano? – chiesi.

– Tu mangi ogni giorno? – mi chiese Dumpy Dum.

– Cosa vorresti dire?

– Loro coltivano, e tutti mangiano abbastanza. Funziona, no?

Ci pensai un po’, mentre camminavamo sotto un cielo sempre più minaccioso.

– Ho sentito di certi selvaggi – dissi infine – che pregano ogni mattina perché sorga il sole. Il sole sorge. Dunque funziona.

– Tu hai mai sentito dire che una mattina il sole non sia sorto?

– No.

– Però hai letto le storie antiche. Sai cosa sono le carestie. In altre tempi capitavano, e la gente moriva di fame. In certi posti succede ancora. Lontano da qui. Spero.

Cadeva una pioggia grigia e monotona, che si insinuava sotto i vestiti e mi intirizziva. Io non ero abituato alla pioggia: Morraine è fatta di portici e passaggi coperti, e nessuno corre il rischio di bagnarsi. La mia nuova vita di attore girovago non mi era mai sembrata così poco attraente. E quale attore, poi?

In lontananza, sui campi ancora coperti si stoppie, scorgemmo una fattoria. Non era ancora sera, ma nessuno aveva molta voglia di proseguire.

I contadini ci diedero da mangiare per pochi soldi, e il fienile per dormire. Erano una famiglia numerosa, con a capo un vecchio dalla barba grigia, nove figli cinque nuore e un numero imprecisato di nipoti. Il vecchio fumava la pipa e ci guardava in silenzio, con una specie di sorriso sulle labbra. Forse era solo un po’ sordo, e non capiva i nostri discorsi.

– Andate ad Argyria? – chiese il figlio più grande.

– Esatto! – rispose Baran. – E confidiamo di non sfigurare, alle celebrazioni.

– Molti sono passati – osservò criptico l’uomo, che aveva grandi spalle e la pelle scura e rugosa di chi lavora molto al sole.

– Questa sera vengono i nostri vicini. Ci riuniamo nella stalla a raccontare storie – disse d’improvviso il vecchio.

– Ah! – disse Baran. – Raccontare storie è il nostro mestiere.

Nella stalla, l’odore denso del bestiame quasi mi impediva di respirare. Non avevo ancora disimparato ad essere un cittadino. Ci sedemmo su panche, sgabelli per mungere, balle di fieno. Cominciò ad arrivare gente dalle cascine vicine. Un otre di vino veniva passato all’intorno. Solo un paio di lampade illuminavano la grande stalla cavernosa. Le mucche sbuffavano e ruminavano, indifferenti.

Cominciarono le vecchie, raccontando favole. Alcune erano molto simili a quelle che avevo sentito da mia nonna, a Morraine, altre erano nuove.

Poi Baran raccontò qualche intreccio di commedia, Astrix e Gertrid alcune novelle. Fu poi la volta dei vecchi, con storie di spettri e folletti.

Nel mezzo di una di queste, che parlava di una mano mozzata che ritornava dal suo assassino, mi persi negli occhi scuri e grandi di una ragazza seduta davanti a me, e mi addormentai.

Qualcuno mi trasportò nel fienile, e mi stese addosso una coperta.

Mi svegliò, al mattino, un brontolio lontano di tuono.

(32) ARGYRIA


Non si entra in Argyria. Ci si accosta ad essa per gradi successivi.

Non c’è una cinta di mura attorno ad Argyria, e all’esterno di essa la campagna, ma tante cinte, con anelli di case, orti, strade, giardini.

Ci addentrammo in questo arcipelago, dove le case sorgono come isole e scogliere sono le mura. Ciascuna di esse poteva essere una piccola Morraine, ma più massiccia e severa. Molto in alto si scorgevano fessure di finestre e fregi ornamentali Chi mai abitava i piani inferiori, privi di aperture? Al livello della strada c'erano delle botteghe, che occupavano poco più di una nicchia ricavata nello spessore dei muri, ed esponevano la maggior parte delle loro merci sulla strada o appese a dei ganci.

Queste muraglie, di pietra rossiccia, avevano un andamento irregolare, curvilineo, che le strade assecondavano come fiumi fra gole montane. E come fiumi in piena trasportavano detriti di ogni genere, noi fra questi, in mezzo ad un mugghiare di zoccoli, ruote, piedi.

Per il suo secondo millennio, Argyria aveva ingoiato visitatori da tutte le Terre di Mezzo.

Io, per un istintivo timore di perdermi, che non mi aveva del tutto abbandonato da quando avevo lasciato il ventre materno di Morraine, mi ero arrampicato sul carro, insieme alle donne, malgrado il nostro procedere fosse quanto mai lento. Di lì potevo veder sopra le teste della folla, che era formata da gente la più varia che avessi mai visto, e che neppure il mercato di Gyenna poteva vantare. Fra tante razze e fogge del vestire, non riuscivo ancora a capire quali fossero i veri abitanti di Argyria.

Un livido tramonto ci sorprese ancora per via. La via verso cosa, non avrei saputo dire. Qualche posto dove mangiare e dormire, speravo.

Lungo le strade principali, da certi ganci sotto gli spioventi dei tetti, vennero calate mediante catene delle lampade accese entro gabbie di ferro. Le strade più piccole, invece, che intravedevo per pochi metri a causa dell’andamento ricurvo dei muri, si riempirono di ombre sempre più scure. Da queste sbucavano ogni tanto figure rese furtive a causa di quel loro emergere dal buio.

Altre lanterne venivano accese nelle botteghe. La strada prese a salire. Giungemmo sulla cima di un colle, dove uno slargo si apriva su un dirupo, e un sole rosso apparso da sotto nuvole ardesia brillò per pochi attimi e sparì. In quegli attimi illuminò un fiume sinuoso, grifoni di pietra sui fastigi di un palazzo, le cupole di un tempio.

Il traffico cominciava a diradarsi. Alcune delle botteghe venivano chiuse, con massicce ante di legno rinforzate da bande di ferro. Si procedeva più spediti.

Ma ancora la città si stendeva davanti a noi, e io non riuscivo a immaginare in quale parte di essa ci trovassimo.

Ci fermammo infine ad una locanda vicino al fiume, in un quartiere dove le case erano più basse e le vie più strette.

– Quando avremo ricevuto l’invito dal Palazzo, troveremo un alloggio più adeguato – ci promise Baran. – Nel frattempo...

L’oste ci consigliò di non uscire di notte. Nessuno di noi ne aveva voglia.

L’osteria, da fuori, era simile a tutte le case che avevo visto ad Argyria. All’interno c’era un cortile, con la stalla, le rimesse, la cucina, un po’ di orto, pollame, e le finestre per illuminare le stanze dei primi piani.

La cucina aveva altissime volte annerite, un grande camino, tavoli e panche, una botola che conduceva in cantina. Ci sedemmo, e ci venne portata una pentola di coccio, con della carne in un sugo rosso e denso, una grossa pagnotta, un boccale di vino, scodelle e bicchieri. La carne era condita con molte spezie, e fu necessario un secondo boccale di vino.

La scala di legno su cui dovemmo arrampicarci alla fine della cena mi parve interminabile, ma più per via del vino che per il fatto che la nostra stanza si trovasse all’ultimo piano. Si trattava di una specie di sottotetto, un grande ambiente con una tenda che divideva gli uomini dalle donne, letti, sedie, un tavolo, due armadi, il tutto né troppo nuovo né troppo vecchio, né troppo pulito né troppo sporco.

Quello che più mi attirò, furono le finestre: piccole come feritoie, davano sulla strada. Guardai ma non vidi quasi niente: il cielo era coperto, le lampade delle strade troppo in basso. Solo da lontano, su un colle, si scorgeva un edificio illuminato. Forse era il Palazzo dell’Arconte.

La mattina Gost Baran e Gertrid partirono per il Palazzo, portando con sé la lettera di Lektos Ly per il Proto-Archivista Gyon Balasco; Astrix e Myrtilla si misero alla ricerca di un posto e dei permessi per tenere qualche spettacolo, in attesa di essere invitati a corte. (Inutile perdere tempo nell’ozio, disse Baran.) Io e Dumpy Dum ci occupammo del carro e degli attrezzi di scena. Che, caso mai non l’abbiate ancora capito, erano entrambi piuttosto vecchi e necessitavano di frequenti riparazioni.

All’ora di pranzo, nessuno dei quattro era ancora tornato.

Io e il nano mangiammo, senza riuscire ad apprezzare pienamente le verdure ripiene, che costituivano il piatto principale del giorno. Ripensandoci, la cucina della Lanterna Cieca (tale il nome della locanda) è fra le migliori che abbia mai assaggiato, e delle più varie. Con il dovuto rispetto per i miei attuali ospiti!

Dopo pranzo Dumpy Dum cominciò a scherzare con una servetta, che pareva divertirsi molto. Io mi infilai nel carro, che cominciavo un po’ a sentire come la mia vera casa, con i suoi odori familiari, e tirai fuori il Theatro di Nobilissime Città.

Argyria occupava una posizione di rilievo nel volume, com’è naturale, con un foglio piegato in quattro e piuttosto malconcio, segno di frequenti consultazioni. Per un’ora mi lambiccai il cervello, cercando di scoprire sulla mappa (che mi sembrava straordinariamente regolare, rispetto all’impressione che mi ero fatto della città, e assomigliava ad una stella a 16 punte) la via che avevamo percorso e l’ubicazione della locanda. Conoscevo, presumibilmente, il punto di partenza, ossia la Porta di Cahrduc. Sapevo che eravamo vicino al fiume. Ma questo era estremamente tortuoso, e a seconda dei punti, scorreva praticamente in tutte le direzioni possibili.

Non venni a capo di nulla. Esasperato, tornai nella cucina. Dumpy Dum e la servetta erano spariti. Gli altri quattro non erano ancora tornati. Lasciai un messaggio presso l’oste, raccolsi il coraggio, e uscii, per trovare qualche certezza topografica e per calmare una vaga inquietudine.

Dopo un’ora, e un numero imprecisato di strade, capii che mi ero perso.

Era già calata la sera quando ritrovai prima il fiume poi la Lanterna Cieca. Baran, Gertrid, Myrtilla, Astrix erano tornati. Parlavano con agitazione, e non si curarono molto del mio ritorno. Io non mi curavo molto dei loro discorsi.

Ero stanchissimo, ma non era questa la ragione del mio disinteresse.

Avevo trovato Lia!

O almeno, pensavo di averla trovata.

Per la centesima volta ripercorsi nella mia mente gli eventi di quel pomeriggio.

Dunque: ero uscito con l’idea di esplorare Argyria, e di verificare la corrispondenza delle case e delle strade di pietra con quelle di carta segnate sulla mappa del Theatro, che mi ero fissata come potevo nella memoria (essendo il Theatro medesimo troppo ingombrante da trasportare, e non volendo strappare il foglio). Avevo riconosciuto un’isola sul fiume, con un tempio rotondo e due ponti che la collegavano alle opposte rive; una grande piazza circolare, con al centro una fontana e cinque vie disposte a raggiera; un colle con in cima un fantasioso monumento con carri e cavalli alati; i giardini che circondavano una villa... Poi strade e incroci si erano irrimediabilmente ingarbugliati, e il fiume, su cui avevo pensato di poter sempre contare, aveva cominciato ad eludermi con i suoi meandri.

Il tramonto calava grigio e nebbioso, e dall’alto delle case-isola calavano le lampade. Mi ritrovai in un intrico di piccole vie, piene di botteghe di artigiani e di negozietti. Le pietre dei muri erano lisce fino all’altezza di un uomo, consunte dallo sfregare di molte mani, spalle, sporte. Forse dovevo chiedere indicazione. Era certamente la soluzione più semplice. Ma non mi ero mai perso in vita mia: a Morraine ero nato, e tutte le altre città che avevo visto erano piccole, paragonate a questa. L’ostinazione, e una sorta di amor proprio, mi rendevano riluttante a chiedere. In fondo, dovevano mancare ancora due ore come minimo alla cena nella Lanterna Cieca. Forse la cosa migliore era ricostruire a ritroso la via percorsa, anche se senza dubbio sarebbe stata più lunga.

 

Più facile a dirsi che a farsi. Le strade, viste da opposte direzioni, mutano sottilmente di aspetto, e il passaggio dalla luce del giorno a quella delle lanterne trasforma ogni cosa.

Giunto ad un incrocio, mi arrestai. Cercando di orientarmi, notai una cosa singolare: le strade possedevano dei nomi. Nomi scritti, voglio dire, incisi su delle lapidi di pietra poste in alto agli angoli delle case.

“Via del Moro” recitava la lapide sopra di me. Questo rende molto più facile ritrovare il cammino, pensai.

E sotto la lapide, un manifesto a stampa:

LA COMPAGNIA

DI

LELIUS ABRAMUS

Presenta

un’opera di magia, terrore e sangue

LA FOLLIA DI ALDIBRAS

ovvero:

L’IMPERO DI CENERE

Tratta dalle più veritiere ed antiche storie

Sotto, un secondo cartello, scritto a mano (più o meno lo stesso sistema che avevamo usato noi a Larissa):

AL

TEATRO DELLA FORTUNA

via dei Semplici numero 22

Per sette giorni ogni sera da

Il resto era strappato.

Ho un’idea molto confusa di come arrivai al Teatro della Fortuna (questa volta non avevo avuto remore a chiedere indicazioni), ma quando arrivai era chiuso. Dei manifesti annunciavano altre tragedie e altre compagnie. Staccandone un lembo, scoprii Aldibras e la data di una settimana prima.

Il teatro era costruito più o meno come le altre case di Argyria: niente finestre al piano terra; quelle più alte comunque buie. Porte sbarrate e nessun segno di vita all’interno. Doveva essere il giorno di chiusura.

Cominciai a fare il giro dell’edificio, con qualche riluttanza, poiché, come ho detto, i vicoli di Argyria sono poco illuminati. Incontrai solo qualche gatto, e scoprii che il retro del teatro dava sul fiume. Una banchina lastricata di pietre nerastre, reti stese ad asciugare, moli e pontili che si perdevano in un luccicare incerto di onde flaccide. Attraccati ai moli barconi da carico ed alcuni navigli più eleganti. Su tutto, un odore oleoso, di pesce e fanghiglia.

Un porto nel cuore di Argyria! La cosa mi stupì, ma ripensandoci non era tanto strana: il mare distava solo poche leghe lungo il corso del fiume.

In mezzo alla strada, un rettangolo di luce.

Avanzai di qualche passo, e vidi l’insegna:

IL RE PESCATORE

Arrivato davanti alla vetrina sporca, cominciai a capire. C’erano mantelli di stoffa cerata, cappelli che assomigliavano a cappucci, reti, ami, altri oggetti di cui non riconobbi l’uso. A Morraine non peschiamo molto. Dentro, nella stretta nicchia ricavata nelle mura del teatro, le mercanzie erano sistemate su scaffali che arrivavano fino al soffitto.

Entrai. C'era appena lo spazio per un bancone, stracolmo di altri articoli, e dietro ad esso un uomo con la barba grigia, la carnagione scura e rugosa, la pipa in bocca. Alle sue spalle una porta bassa e stretta, che dava in un retrobottega seminterrato (come avrei scoperto molti anni dopo). E quando lui girò attorno al bancone, lo giuro davanti agli dei che preferite, aveva una gamba di legno!

Mi guardò, e dovette comprendere alla prima occhiata che io non avevo mai pescato in vita mia, e che non volevo comprare niente di quello che lui aveva. Ma, forse perché dovevano capitare pochi clienti a quell’ora e in quella stagione, e magari si sentiva solo, mi sorrise.

La qual cosa, all’inizio, mi preoccupò, perché aveva una cicatrice sulla guancia, e il sorriso gli riusciva storto e piuttosto inquietante, e per un momento mi sembrò perfino che dovesse avere una benda nera sull’occhio. Ma non ce l’aveva, quindi non doveva essere un vero pirata.

– Hai bisogno di qualcosa, ragazzo? – Già, di cosa avevo bisogno? Mentre ci pensavo, avevo abbassato gli occhi, e mi trovai a fissare la sua gamba di legno, che era una cosa di cui avevo letto nei romanzi, ma che non avevo mai visto in vita mia, e lui disse: – Me l’ha mangiata una balena. – E in quel momento gli credetti. Magari era anche vero.

Voi forse non sapete cosa sono le balene: sono pesci enormi che abitano negli oceani, e sono capaci di spezzare in due una nave con un colpo di coda. Ma non abitano nel mare dove sfocia il fiume di Argyria, che si chiama Erebys, se non ve l’ho ancora detto.

– Cerco la compagnia di Lelius Abramus.

Lui aggrottò la fronte e non rispose immediatamente.

– Sei arrivato tardi, direi. – Pareva d'improvviso sospettoso.

– Non sapete dove sia, adesso?

– Forse lo so, ma tu perché vuoi saperlo?

– Avrei un messaggio per lui.

– Be’, fino ad ieri potevi trovarli lì. – Mi fece cenno di venire e indicò. C’era una casetta, una specie di baracca di legno, lungo la banchina, a un centinaio di passi. – Tenevano il carro lì davanti. Lo so perché gliel’ho affittata io.

– E adesso...?

– Adesso hanno trovato un posto migliore. – Mi strizzò l’occhio, il che produsse un effetto ancora più inquietante. – Sono a Palazzo!

– Hanno avuto...

– Una scrittura per la Grande Festa. Così mi ha detto Abramus.

Guardai la catapecchia. Meglio del carro, certamente, ma... senza dubbio Lelius avrebbe potuto permettersi una locanda almeno pari alla nostra.

– C’erano... tutti?

– Tutti chi?

– Abramus... il vecchio, una donna. Una ragazza, Lia...

Il Re Pescatore alzò le spalle. – Sì, erano quattro, ma non so i nomi degli altri. Cercavano una sistemazione vicino al teatro. Qui nella zona non ci sono molte locande. Locande raccomandabili, voglio dire. – Mi strizzò ancora l’occhio. – A proposito, se ti interessa...

Scossi la testa.

– Gente strana. Del resto tutti quelli che recitano lo sono. Reciti anche tu? – Scossi di nuovo la testa. – Alcuni dei pescatori dicono di aver visto anche dei bambini, molto piccoli. Io no. – Fece un gesto con le dita, forse uno scongiuro.

Rientrammo nella bottega.

– Non ti serve altro? – Indicò le sue mercanzie.

Io mi guardai intorno. In una teca vidi delle piccole scatole rotonde, di ottone lucido.

– Sai cosa sono? – mi chiese il negoziante.

– Orologi?

Il Re scosse il capo con aria misteriosa. – No. Sono oggetti molto più utili, per chi naviga.

Estrasse una delle scatole dalla teca. Sollevò il coperchio incernierato, su cui erano incise ancore e altri emblemi marini. Dentro, sotto un vetro, c’era un quadrante con lettere, numeri e delle figure di pesci, navi, mostri, sirene. E una lancetta.

– Guarda. – Fece girare la cassa. La lancetta oscillò un poco, poi tornò nella posizione iniziale. – Vedi? Indica sempre il settentrione.

– E come è possibile?

– Ah! – Mi strizzò l’occhio. – È una magia.

Presi in mano l’oggetto, lo feci girare, mossi anche un passo, sospettando qualche trucco. Ma invariabilmente l’ago tornava nella stessa direzione.

– Io non sono un marinaio... – dissi dubbiosamente.

– Oh, può servire anche sulla terra. – Ne dubitavo, ma poi, osservando il quadrante, vidi dei segni che mi ricordavano quelli sulla mia mappa, e così mi ritrovai a contrattare il prezzo.

– Come si chiama? – chiesi, dopo che lui ebbe intascato i soldi e io l’oggetto.

– Bussola – rispose lui.

E sapete una cosa? Il Re Pescatore aveva ragione. Serve anche sulla terra.

A questo punto il viaggiatore estrasse la bussola e ce la mostrò.

È anche grazie a questa che io mi sono salvato nel vostro deserto.

Olete lõpetanud tasuta lõigu lugemise. Kas soovite edasi lugeda?