Lia

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Mi sembrò che questo, in qualche modo, riequilibrasse l’ordine delle cose, a Larissa.

Le donne indossavano abiti molto scollati, le sommità dei seni cosparse di polveri di vari colori. Molte tenevano in mano cordicelle di cuoio o catenine dorate, a cui erano attaccati cagnolini, mediante un anello attorno al collo. Gli animali erano di fogge e taglie quanto mai bizzarre, tanto che alcuni sembravano a stento cani, e forse non lo erano. Certuni, in maniera che non avrei saputo dire se più penosa o ridicola, avevano il pelo rasato o colorato. Ne vidi parecchi sollevare una zampa contro un muro e fare i loro bisogni, mentre le dame attendevano ostentando indifferenza.

– Noi non lasciamo certo pisciare i cani contro i muri! – mi scappò.

– Questa è Larissa – disse Dumpy Dum.

(23) GRENDEL


Incollato l’ultimo manifesto, Dumpy Dum mi diede una gomitata e con una strizzatina d’occhio e un cenno del capo indicò un’osteria. – Gost può aspettare un po’ – disse.

Ci sedemmo ad un tavolo vuoto. Gli avventori non erano molti, ma l’oste se la prendeva comoda. Forse perché eravamo un nano e un ragazzo, forse perché eravamo stranieri.

Dumpy Dum chiese d’improvviso: – Perché ti interessa Lelius Abramus?

– Oh... Quando ero a... in un posto, ho visto Teseius e Phenissa, rappresentata dalla sua compagnia. Era molto bella.

Dumpy Dum mormorò: – Sì, un’ottima compagnia. Chi erano gli attori?

– Non ricordo i nomi di tutti. Ma Phenissa era interpretata da una certa Lia, mi pare...

Dumpy Dum non disse nulla.

– Poi c’erano delle specie di burattini.

– Ah! Questo è un segreto di Lelius. Nessuno sa come li faccia muovere... Vino di Lark e prosciutto di cinghiale. – Questo all’oste, che era finalmente arrivato.

Quando tornammo al Foro delle Capre, il sole era quasi tramontato ed io leggermente ubriaco. Myrtilla stava danzando sul palco, accompagnata da Gertrid ed Astrix, rispettivamente all’arciliuto e al flauto. Baran, dietro le quinte, aveva già indossato il costume da tiranno. Ci accolse come se volesse farci tagliare la testa.

– Perché un simile ritardo? È inammissibile! Dumpy Dum, un’altra come questa e verrai cacciato! Preparati subito per il tuo numero! Arquin, la puntualità è essenziale nella nostra professione! Riempi d’olio quelle lampade, prendi dal baule il costume di Astrix, quello nero, c’è una manica da cucire, alza il fondale con la scena di palazzo.

Corse ad osservare il pubblico da dietro le quinte. A mia volta sbirciai da sopra le sue spalle. Si erano raccolte forse cento persone. Gli uomini osservavano con molto interesse Myrtilla, che indossava un’ampia veste color smeraldo, con lunghi spacchi. A mo' di introduzione intonò una canzoncina che diceva:

Ecco arrivano i pupazzi,

un due tre, via!

con i musici e i pagliacci.

Tutti bravi in fede mia,

nonostante i loro stracci.

Hanno grande fantasia,

dategli un soldo per cortesia!

Dumpy Dum mi tirò per la giacca. Mi strizzò un occhio e indicò con un cenno del capo le lampade e la fiasca dell’olio. Mi misi al lavoro.

Si sentirono degli applausi. Myrtilla aveva terminato il suo numero, e Dumpy Dum salì sul palco. La musica si fece più veloce, accompagnata da tamburi. Baran era sparito, e doveva essere lui a suonarli.

Myrtilla, arrossata ed ansimante, mi sorrise e mi diede un buffetto sulla guancia. Poi si infilò dietro un paravento per cambiarsi. Sbirciai dentro e arrossi, poi mi allontanai prima che potesse vedermi.

Dal palcoscenico provenivano tonfi frequenti: Dumpy Dum che eseguiva le sue capriole. Ogni tanto delle risa e qualche applauso.

Il nano tornò dietro le quinte con un salto mortale rovesciato. Si sedette su una cassa per riprendere fiato, ma Gost non gliene lasciò il tempo.

– Presto! La musica! – Gli porse uno strumento a fiato che non avevo mai visto, con una specie di mantice di pelle e dei tubi forniti di buchi, mentre lui stesso imbracciava un olifante e Astrix una bombarda.

Attaccarono una melodia vivace e allegra, ma il cui impeto si smorzava proprio nei momenti culminanti, come per una segreta incertezza del futuro.

Myrtilla sbucò dal paravento, allacciandosi l’abito da principessa. Si fermò dietro alle quinte, tirò un profondo respiro, poi uscì sul palco.

Sentii applaudire. Scostai un lembo del fondale. Con la coda dell’occhio vidi Gost Baran che mi guardava torvo, ma era troppo occupato a soffiare nel suo strumento per richiamarmi, ed io feci finta di niente.

Myrtilla attaccò il suo monologo. Alla luce delle lampade i vetri colorati dei suoi gingilli scintillavano come gioielli veri, e il trucco che si era data sulle guance pareva trasformarla in qualche creatura non terrestre.

Parlò delle sue speranze d’amore, di sposa promessa ad un principe straniero, famoso per prodezza e cortesia. Senza averlo mai visto prima, ella già cominciava ad amarlo.

La recitazione mi lasciò un po’ deluso. Forse perché la paragonavo, inevitabilmente, a Lia? La voce, pensai, la voce è ciò che più conta in un attore. La voce di Myrtilla non era abbastanza... da principessa. Da principessa appena adolescente e quasi sposa. La dizione era un po’ troppo veloce, talvolta leggermente stridula. Forse pretendevo troppo. E forse, ponendomi dalla parte del pubblico, avrei ricevuto un’impressione diversa.

Un brusco strattone pose fine alle mie riflessioni teatrali. Un viso tremendo mi minacciò: occhi di brace, sopracciglia nere come carbone e gigantesche, una bocca crudele.

Era Gost Baran, nel suo costume e trucco da tiranno, che con una mano dai lunghi artigli mi indicava certi tamburi e gong che dovevo battere al suo ingresso in scena. Avevo scordato le mie istruzioni. Astrix e Dumpy Dum soffiarono dentro le loro trombe. Gertrid era ancora dietro la sua tenda, ad abbigliarsi.

Pestai sui miei strumenti con convinzione sufficiente a favorire un maestoso ingresso per Grendel, che si guadagnò una buona accoglienza dalla platea. Visto che adesso Gost era sul palco, tornai senza timori al mio posto di osservazione.

Dovetti ammettere, con qualche riluttanza, che la recitazione di Gost era di un livello superiore a quella di Myrtilla. Forse un poco caricata, ma suppongo fosse quanto si aspettava il pubblico di Larissa.

Mentre il duetto proseguiva, mi resi conto di una particolare che aumentò il mio rispetto per l’attore: insensibilmente, il tiranno non era più tiranno. Padre affettuoso, ancorché severo. Monarca inflessibile, ma giusto. Guerriero coraggioso, seppure spietato. Tutto questo espresso mediante l’inflessione della voce, la scelta delle parole, la mimica: minime alterazioni rispetto al canovaccio corrente, ma sufficienti.

Gli sforzi di Baran non furono spesi invano. Gli applausi scattavano nei momenti giusti. Anche se, come potei constatare dopo essere scivolato giù dal carro-palcoscenico per poter meglio osservare il pubblico, l’iniziativa veniva sempre presa da un gruppetto di spettatori in prima fila: personaggi dall’aspetto dignitoso, vestiti riccamente, e seduti su seggi che dovevano essersi fatti portare appositamente dai servi, perché di sicuro non erano saltati fuori dal nostro carro.

Il primo atto si concluse felicemente, come testimoniarono anche le facce distese degli attori. Gost Baran arrivò a sorridermi e a darmi un colpetto di approvazione sulla spalla.

Il secondo atto si apriva nel castello del re Karmak di Freija, interpretato da un Astrix Palemon cui la magrezza conferiva una subdola malignità.

Ma, sorpresa! Al suo apparire, dal fondo della piazza, vicino all’imboccatura di un vicolo, si udì uno scroscio di applausi. Costernazione fra il pubblico, soprattutto della prima fila. I dignitari si voltarono corrucciati. Uno di loro, dotato di una pesante catena d’argento intorno al collo, si alzò in fretta e furia e si allontanò.

Io mi arrampicai sulla sponda del carro per vedere meglio. Il dignitario che si era alzato faceva grandi gesti, mentre gli applausi continuavano. La zona da cui provenivano era scarsamente illuminata, ma il gruppetto non poteva comprendere più di una dozzina di persone. Da qualche parte, forse richiamate dal gesticolare dell’uomo con la catena d’argento, giunsero delle guardie, che accorsero con un tintinnio di armi verso il vicolo buio. Prima che potessero agguantarli, i dissidenti si erano dati alla fuga. Evidentemente il piano era stato preparato con cura.

Per tutta la durata dell’incidente, Astrix non perse una battuta, né tradì esitazione alcuna.

Il dignitario con la catena tornò verso la fine dell’atto, con un’espressione scornata. Anch’io tornai al mio posto, e trovai un Gost Baran con un’aria molto meno soddisfatta di prima, benché gli applausi a Grendel, forse per fare dimenticare quelli tributati a Karmak, fossero stati abbondanti e insistenti.

Sentii il nostro capocomico consigliare agli altri di tagliare certe scene.

L’atmosfera di tensione si allentò solo alla fine, quando Myrtilla (cioè Ergrid) morì. Forse per caso, o forse per calcolo, nel lasciarsi cadere la veste le si aprì lungo un fianco, e la fanciulla rimasse stesa sul palco con le gambe scoperte. Questa volta gli applausi mi parvero spontanei. Del resto il monologo finale era stato recitato in maniera quasi perfetta, con la giusta dose di strazio e rassegnazione, quantunque mancasse delle espressioni di perdono per l’ex-sposo, e di ogni accenno ad un amore non ancora spento, come nell'originale (ma quale poteva dirsi l'originale?).

 

Calai il sipario. Mentre gli attori si apprestavano a ringraziare il pubblico, io uscii con un piattino per intercettare quelli che cercavano di svignarsela in anticipo. Non avevo modo di fare paragoni, ma non mi parve che le offerte fossero particolarmente generose.

Intravidi Gost Baran che parlava con i notabili, e Dumpy Dum che a sua volta raccoglieva l’obolo.

Quando tornai, Gost neppure guardò il denaro. Lo infilò in una borsa e disse: – Partiamo.

Gli altri si stavano già togliendo i costumi.

Mi toccò andare a prendere i cavalli, che erano stati messi in una stalla non lontana.

Quando tornai il carro era già stato caricato, in qualche maniera.

Aggiogammo i cavalli e partimmo. Le strade erano deserte e buie. Una lanterna accanto alla cassetta e una luna incerta ci aiutarono a ritrovare la strada. Due volte incontrammo una ronda. Baran mostrò loro una carta, che le guardie fecero finta di esaminare: forse non sapevano leggere, ma riconobbero il sigillo.

Raggiungemmo la porta opposta a quella da cui eravamo entrati. L’ufficiale di servizio lesse con attenzione, volle ispezionare il carro, ma rinunziò ben presto ad addentrarsi nella massa disordinata degli attrezzi di scena. Io osservavo tutto con un’ansia che non sapevo spiegarmi, se non che la respiravo nell’aria.

Due guardie sollevarono la sbarra, che era di rovere largo un palmo. La porta si aprì lamentosamente. Uscimmo.

Solo quando la porta si fu richiusa alle nostre spalle, mi sentii di chiedere: – Perché tanta fretta? – (ma pur sempre con un sussurro) a Dumpy Dum, che camminava vicino a me.

Poi Baran, che sedeva a cassetta, sferzò i cavalli e noi tutti che seguivamo a piedi, perché a causa del disordine non c’era posto sul carro, fummo costretti ad affrettare il passo fin quasi a correre, e la mia risposta dovette attendere.

Per la seconda volta lasciavo una città di notte.

(24) I CACCIATORI


– Ma noi che colpa potevamo avere?

– Si erano preparati, non ti pare? Dovevano saperlo in anticipo.

– Avevamo attaccato manifesti per tutta la città! – Dumpy Dum alzò le spalle, o immagino che lo facesse, nel buio.

– I nuovi regimi sono sempre sospettosi. – Dopo un istante aggiunse: – E anche quelli vecchi.

Sebbene fosse trascorsa da tempo la mezzanotte, il carro non si era ancora fermato. Procedeva lento sulla strada tortuosa e in salita, in una notte appena rischiarata dalle stelle, fra le colline a sud di Larissa.

– Gost ha paura che ci inseguano?

– Che ci ripensino – rispose laconico il nano.

Ad una lega dalla città, il nostro impresario aveva abbandonato la strada maestra, quella che conduceva ad oriente, verso il regno di Ichomene, per imboccare un viottolo che, sospettavo, neppure lui conosceva bene, perché ad ogni bivio o incrocio si fermava, e poi aveva l’aria di riprendere il cammino a caso.

– Dove stiamo andando?

– Credo che voglia trovare la strada per il mare.

Il mare!

All’alba, ci eravamo appena svegliati, ricevemmo la visita di due cacciatori. Apparvero nel nostro campo come un lento manifestarsi di ombre e di foglie e di rocce, finché non assunsero forma umana. Uno era anziano e piccolo e nodoso. L’altro giovane e piccolo e magro. Non dissero una parola. Il primo ci porse una sorta di collana: uccelli infilati per il collo in un giunco, già spennati.

Gost Baran, con notevole prontezza di spirito, li ringraziò e fece segno a Myrtilla di tirare fuori le nostre provviste, quel poco che c’era. Invitò i due cacciatori a sedersi. Il più giovane, con poche mosse, risveglio di muovo le fiamme dalle ceneri della notte. Myrtilla infilò gli uccelli in uno spiedo, insieme a dei pezzi di lardo, e li pose sul fuoco; poi tagliò il pane e del formaggio che aveva acquistato a Larissa la sera prima. Baran cavò da un nascondiglio del carro una bottiglia di vino e la stappò con sussiego, come avevo visto a fare da certi camerieri nelle locande dei cortili ricchi di Morraine.

I due non dissero nulla, mentre gli uccelli rosolavano. Ringraziarono con cenni del capo per il vino e il pane, bevvero, aspettarono. Avvolti nei loro mantelli grigio-verdi, assomigliavano a quei cacciatori che venivano a Morraine nei giorni di mercato.

Risposero ad una sola domanda: i loro nomi. Riskrill il vecchio, Paradin il giovane. Ben presto, anche la loquacità di Baran si arrese.

Una sola volta si mossero: il vecchio sfiorò con la mano il polso del suo compagno più giovane, con l’altra indicò un punto sopra la cima di certi alberi. Dopo qualche battito di cuore, un uccello dalla lunga coda bianca si alzò in volo.

Mangiammo. Del primo uccello, Riskrill gettò nel fuoco la testa, si lanciò alle spalle le ossa, seppellì in un buco praticato in terra con un dito il fegato. Paradin lo imitò con cura.

Il giovane era seduto vicino a me.

– Perché? – chiesi, senza molta speranza di ricevere una risposta. Ma forse il cibo e il vino, oppure l’esecuzione della cerimonia, avevano rotto la consegna del silenzio.

– Per conciliare. Il loro spirito – rispose. La sua voce era bassa, leggermente roca, come il fruscio del vento fra le foglie secche. Mi venne in mente che era come il suo mantello: adatta a confondersi con il bosco. – Lo spirito degli animali. Ha quattro forme. Fuoco. Aria. Terra. Acqua – aggiunse inaspettatamente.

Ci misi un momento a capire. Ma... – Acqua? – chiesi, parlando anch’io a voce bassa.

– La saliva – rispose lui.

Il ragazzo aveva più o meno la mia età. – È tuo padre?

– No. Maestro.

– Come faceva a sapere che quell’uccello si sarebbe levato?

– Il maestro è un grande cacciatore. Conosce la natura degli animali. – E dopo una pausa, a voce ancora più bassa: – Un giorno anch’io sarò un grande cacciatore.

Osservai il giovane Paradin con una certa invidia. Lui sapeva cosa sarebbe diventato. O almeno cosa voleva diventare. Il suo sguardo incrociò il mio.

Baran disse: – Stiamo cercando la strada per il mare.

Riskrill disse: – Vi accompagneremo. Per un tratto.

– Da dove vieni? – chiesi a Paradin.

– Gaskill. È un piccolo villaggio. – Indicò una direzione. Non chiese da dove venissi io.

Notai un movimento con la coda dell’occhio. Riskrill si era alzato, senza produrre il più piccolo rumore. Paradin lo imitò dopo la pausa di un respiro.

Il vecchio indicò – Di lì. Vi raggiungeremo. Volete comprare cibo?

– Sì, certo! – disse Myrtilla.

I due se ne andarono senza voltarsi. Appena superati i primi alberi, svanirono del tutto alla nostra vista.

Due ore dopo, e una lega circa di strada, ad un crocevia: eccoli ad attenderci.

Paradin appoggiò a terra un involto di pelle. Lo srotolò. Carni rosse, scuoiate. Forse due lepri e qualche uccello che non riconobbi. Alcune radici e delle erbe, raccolte in mazzi.

Myrtilla si inginocchiò per guardare. – Quanto? – chiese.

Il maestro nominò una cifra, molto modesta. Baran lo pagò senza mercanteggiare, e Myrtilla mise cacciagione e vegetali in un cesto. Paradin riavvolse la pelle. I due presero per una delle strade e noi li seguimmo. Non si voltarono mai a guardarci, né ci rivolsero la parola. Di tanto in tanto si scambiavano occhiate, segni, forse un paio di volte una parola sussurrata. Nessuno di noi osò turbare i loro misteriosi colloqui. I pochi contadini che incontrammo salutarono i cacciatori come se li conoscessero, ricevendo in cambio un cenno del capo.

Poco prima di mezzogiorno raggiungemmo una sorta di passo fra le colline. La vegetazione era rada: ginepro, ginestre quasi in fiore, qualche quercia. Molte altre piante di cui un abitatore della città, come me, non conosceva il nome, e probabilmente non lo conoscerà mai.

Oltre il crinale, le colline si adagiavano nella pianura. La calura rendeva indistinti i contorni, ma si intravedeva il nastro grigio-argento di un fiume, macchie più scure che forse erano città, tratti più chiari di strade.

Riskrill indicò. – Ah! – disse Baran, come riconoscendo i luoghi.

Paradin era sparito. Tornò poco dopo con della legna secca. Come per incanto, il fuoco era già acceso. Myrtilla gli sorrise grata e prese le provviste, gli attrezzi da cucina.

Ricordo che faceva molto caldo, le cicale cantavano forte fra l’erba secca, e la strada polverosa aveva accresciuto la nostra sete. Myrtilla prese un fiasco di vino che aveva tenuto in fresco nella botticella dell’acqua.

Paradin si sedette di nuovo accanto a me, per mangiare. Io mi ero tolto la giacca, e l’amuleto di Occhi di Gatto mi usciva dalla camicia slacciata. Me lo tolsi dal collo e lo mostrai a Paradin. Forse perché era l’unica cosa che avessi che potesse interessarlo, pensai.

Lui lo prese e se lo rigirò fra le dita. Era una sfera perfetta, nera, di un materiale opaco e liscio, che non avevo mai visto e di cui non sapevo il nome. Vidi che anche Riskrill la fissava.

– Questo – disse Paradin. – Possiede un grande potere.

– Come lo sai? – chiesi.

– Noi... cacciatori. – Con un movimento degli occhi cercò forse l’approvazione di Riskrill. – Conosciamo la magia. La caccia è magia. Il cibo è magia. La magia... – Non gli avevo mai sentito fare un discorso così lungo. – È sapere le cose.

Riskrill si alzò. Paradin teneva ancora fra le dita la sfera magica. Me la restituì, e nel farlo la sua mano si strinse attorno alla mia.

– Vi ringraziamo – disse Baran.

Fra i cespugli bassi, i due sparirono, in un tempo sorprendentemente breve.

(25) I DUE AMANTI


Il villaggio si chiamava Ardzilla, ed era davvero piccolo. Non doveva capitare molto spesso che vedessero un carro di teatranti, lì fra le Colline Ventose, a parecchie leghe dalla Strada del Mare.

C’era una locanda passabilmente pulita, con una sala comune per gli ospiti e un cortile piuttosto grande, che d’estate doveva servire anche per trebbiare il grano.

Baran fece i suoi calcoli. Si accordò con l’oste. Non c’era bisogno di manifesti, ad Ardzilla. Al calar della sera, il villaggio si era riunito quasi al completo nel cortile della locanda, senza riuscire a riempirlo.

Allestimmo uno spettacolo senza scene, usando come palcoscenico i tavoli della sala comune. In programma: la farsa di Galapin e Pandeimon, con intermezzi musicali e danzati. Astrix faceva Galapin, Myrtilla la servetta astuta, Baran l’avaro. Gertrid era andata a dormire presto, lamentando un mal di testa, e Dumpy Dum suonava una quantità impressionante di strumenti, anche contemporaneamente.

I tre sulla scena improvvisavano quasi tutto. Pandeimon venne abbindolato come di dovere, Galapin e Yvette si sposarono.

I bambini, seduti per terra in prima fila, guardavano con grandi occhi seri, ridendo solo ad imitazione dei grandi. Quello era probabilmente il primo spettacolo della loro vita. Non avevano mai visto la Festa delle Maschere, con duecentoquaranta spettacoli in una sola sera!

Il pubblico adulto rise con moderazione: anche loro non dovevano essere molto abituati alla finzione teatrale. Nondimeno, ci ricompensarono con maggiore generosità dei cittadini di Larissa, in proporzione al loro numero e alla loro ricchezza.

Alla fine, l’oste e Baran divisero il guadagno, con reciproca soddisfazione.

Andammo a letto quando il sole era tramontato da poco, e fummo svegliati all’alba per la colazione: latte cagliato e miele. Cominciavo a pensare che la vita del comico di campagna fosse ciò che faceva per me, dopo tutto.

 

Phainon è molto diversa da Larissa: posta all’incrocio di due grandi vie di comunicazione, affacciata sulla riva di un fiume pieno di chiatte e di barche, accoglieva chiunque vi entrasse come un’osteria i suoi avventori, come un bazar i clienti, come una fiera i curiosi. Per la verità Dumpy Dum usò un altro paragone, che qui non riferisco.

Non contava moltissimi abitanti, ma, sdraiata ai piedi delle Colline Ventose, occupava la pianura senza curarsi dello spazio: grandi strade, case bianche con giardini davanti e orti dietro, larghe piazze per i mercati e locande, affollate di stranieri; non avevo mai visto tanti abiti di fogge così diverse.

– Qui non dobbiamo badare ai regolamenti – ci comunicò Baran. – Ma alle borse sì: i ladri abbondano.

La locanda dove ci fermammo si chiamava Il Cinghiale Azzurro, e aveva un’insegna con quell’animale e quel colore. Intorno, qualche albero, alla cui ombra riparammo il carro.

Per essere un posto dove i ladri abbondavano, pareva che gli osti non volessero rendere a costoro la vita troppo difficile. – Non sarebbe meglio un cortile chiuso e un paio di cani? – chiesi a Dumpy Dum.

– Aspetta – rispose.

Poco dopo, un garzone dell’osteria si offrì di sorvegliarci il carro durante la notte, in cambio di una modica cifra.

A Phainon rappresentammo Il principe folle, una tragedia che non compariva nella mia raccolta, e che non avevo mai sentito raccontare. Il giovane principe di Erez si finge pazzo per smascherare lo zio che ha ucciso il re suo padre. Ma finisce per immedesimarsi a tal punto nella sua finzione, da compiere atti di vera follia, come uccidere la sua promessa sposa e profanare un cimitero. Alla fine, l’unica salvezza per il regno pare essere la permanenza sul trono dello zio assassino. Ma è veramente un assassino? O è forse la madre ad avere architettato l’uccisione del marito, per gelosia? Oppure la follia del principe è reale, fin dall’inizio? Preso dalle mie varie incombenze, suppongo di essermi perso qualche battuta, perché non riesco tuttora a giungere ad una conclusione.

La storia riscosse comunque molti applausi, tanto che la rappresentammo per due sere. Cominciavo a capire che Baran possedeva il dono principale per un capocomico: quello di saper indovinare i gusti del pubblico.

– Dove ha trovato questa storia? – chiesi a Myrtilla, dopo che era stata trasportata fuori dal palcoscenico, priva di vita.

Lei alzò le spalle. – Ogni capocomico ha il suo repertorio esclusivo. Da quando sono con lui, l’abbiamo sempre rappresentata. Aiutami a slacciare il vestito.

– Cioè da quanto tempo?

– Tre anni.

– Prima cosa facevi?

– Quello che devo fare adesso: la serva. – Rise. – Dammi il costume.

– E come...

– Un cavaliere si era innamorato dell’attrice giovane. Lei ha colto l’occasione al volo, e li ha piantati in asso. Si chiamava Jaline: bionda, la bocca a forma di cuore. – Sospirò. – Era molto bella.

– Anche tu sei bionda, e sei molto bella. Scapperesti con un cavaliere?

– Certamente! – Mi diede un bacio sulla guancia. – Ma tornerei subito!

Di nuovo sulla strada del mare. La sosta a Phainon era stata remunerativa, la mattina limpida e ventosa. Il vento portava un odore sconosciuto, che io immaginai fosse quello della salsedine, finché non scoprii che soffiava dalla parte sbagliata.

Ed ecco, seduti sul ciglio della strada, all’ombra di una quercia, un uomo e una donna.

Lui era biondo, di aspetto gentile, né giovane né anziano, una cicatrice sulla tempia che gli conferiva un’espressione perennemente triste. Lei, reclinata sulla sua spalla, aveva il viso nascosto dai capelli, ma tutta la sua posa suggeriva una qualche forma di sofferenza.

Astrix, che guidava, fermò il carro. L’uomo si alzò. Indicò la sua compagna. – Mia moglie... – disse.

Gertrid si era avvicinata alla donna, seguita da Myrtilla. Lei sollevò il viso, e ci accorgemmo che era molto giovane, pallida, di una bellezza stanca e tenera.

Gertrid le chiese qualcosa che non sentii. La fanciulla mosse le labbra per rispondere.

– Poverina! – esclamò Myrtilla.

– Deve salire sul carro – disse Gertrid con fermezza.

La donna guardò il suo compagno, che non aveva più aperto bocca. Questi guardò Baran e Astrix, poi fece un piccolo cenno col capo. La fanciulla si alzò.

Solo allora mi accorsi che era incinta.

La sera alloggiammo in una locanda a cinque leghe dalla città più vicina, in ritardo sui nostri piani di marcia. La donna soffriva per le scosse del carro, anche se non aveva mai emesso un lamento. Il marito, se tale era, la guardava mordendosi le labbra. E Astrix, anche lui senza dire parola, aveva lasciato che i cavalli se la prendessero comoda.

Nell’ora più calda del pomeriggio avevamo avuto un incontro che ci aveva inquietato.

Ad un incrocio, seduti su un muricciolo di pietre a secco, si riposavano due cavalieri, accanto al tempietto della dea del triplice volto, con le candele accese lasciate in offerta dai viaggiatori.

I due ci salutarono. Indossavano quelle cappe marroni, con due spacchi di fianco per le braccia e il colletto alto, che usano i viaggiatori da un capo all’altro delle Terre di Mezzo. Né i vestiti che si scorgevano sotto i mantelli, né l’accento servivano a identificarli meglio.

Ci fermammo, discorremmo un po’ delle strade, del tempo. Concordemente, prevedemmo pioggia imminente. Poi uno dei due cavalieri chiese: – Non avete visto per caso una coppia, lui biondo, lei più giovane, incinta?

Io, scioccamente, mi guardai alle spalle. Ma il marito che di solito camminava dietro il carro, accanto all’apertura del telone, era sparito.

Prima che potessi voltare la testa, sentii Gertrid rispondere: – Certamente.

La fissai. Non capivo.

– A Phainon – proseguì Gertrid. – Erano diretti a Bassidania. Li ricordo perché sono venuti ad uno dei nostri spettacoli, e poi li abbiamo incontrati per strada.

La via per Bassidania, ricordavo, seguiva per un tratto la strada del mare.

– Ah! – disse il più anziano dei due, un uomo con la barba grigia, occhi di un azzurro metallico.

– E perché volete saperlo? – chiese Baran severamente, con la sua migliore voce da Tiranno, lanciando a Gertrid un’occhiata di rimprovero.

L’uomo con la barba grigia sollevò le due palme aperte.

– Per i migliori motivi! Vedete, lui è mio cugino. Si è innamorato di questa fanciulla, ma il padre di lui si opponeva alle nozze. Potete immaginare il resto. Sono fuggiti insieme. Il vecchio ha un caratteraccio, ma in fondo è di buon cuore, e questo figlio è la pupilla dei suoi occhi. Non può sopportare di saperlo lontano, senza un tetto, con un nipote che forse non vedrà mai. In breve: è disposto a perdonarli. Noi li stiamo cercando ovunque. La notizia che ci date ci riempie di speranza!

Io sorrisi e guardai il carro, aspettandomi di vedere il tendone aprirsi, l’uomo e la fanciulla scendere insieme, emozionati, con le lacrime agli occhi. Ecco un caso in cui la vita rivaleggiava con il teatro.

Ma niente di questo accade. Ricevetti solo un calcio negli stinchi da Dumpy Dum, che mi era vicino.

– Correte dunque a raggiungerli! – esclamò Myrtilla, arrossata come se dovesse lei stessa balzare a cavallo.

– Non sappiamo come ringraziarvi – disse l’uomo.

Baran fece un gesto magnanimo. – Di nulla. La coscienza di una buona azione è ricompensa sufficiente. Ma chissà che un giorno non possiate venire ad applaudirci!

– Con piacere! – disse il più giovane dei due, inchinandosi a Myrtilla, con il cappello sul petto.

I due salirono a cavallo, e corsero via fra una nuvola di polvere.

E adesso, nella locanda, in una stanza che avevamo per noi soli, davanti al fuoco acceso nel camino, guardavamo i due amanti, in attesa di una spiegazione.

L’uomo sospirò, e prese la mano della sua compagna.

– Adesso ho tre motivi per ringraziarvi – disse. – Vedete, io sono Lektos Ly.