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V

La bionda era seduta a una tavola, presso al focolare. Poggiava le mani aperte e la faccia su qualcosa che pareva un fagotto. Un lieve soffio inclinava accanto a lei la fiammella d’un lume a olio piantato sulla tavola tra le bucce d’un’arancia.

Letizia urlò:

– Marta!..

Ma come? Oh, Dio! Dio! Quella che il furiere aveva presa dopo di lei, quella per la quale l’aveva lasciata! Marta, Marta, là dentro! Nella casa di don Placido!..

La bionda, come istupidita, la bocca schiusa, gli occhi incertamente affisati, allungava la testa nell’ombra. Poi congiunse le mani, come accordandole a una muta implorazione. E Letizia, che s’appressava, la udì infine mormorare con voce quasi di pianto:

– Tu si’ Letizia d’ ’a Riva Casilina…

E a un tratto si sentì afferrare le mani, se le sentì avvincere ai polsi e piegò, e quasi s’abbandonò su quel corpo palpitante e un po’ molle da cui, nell’ombra afosa della stanzuccia, vaporava un alito tepido di gioventù e di salute.

La bionda balbettava:

– Mbe’, perdòname, perdòname!..

Ora piangevano, piano, sedute vicino, così vicino che i loro ginocchi si toccavano e la scarsa fiamma della lampa, di volta in volta investita e piegata dal soffio esterno, stentava a disegnare e a separare que’ due corpi quasi immoti…

VI

– Avanti, avanti! – urlava don Placido, nella notte, correndo lungo la Via della Stazione – Ora ci verrà addosso tutta l’acqua del santissimo cielo! Ah, Corpo di Cristo! Avanti!..

L’ombra sua nera e veloce scivolava e fuggiva su’ muri. Le donne lo seguivano, tenendosi per mano, chiuse ne’ loro scialli pesanti, inciampando, di tratto in tratto, ove si faceva più fitta l’oscurità. Così passarono per via Gran Quartiere, poi davanti alla Villa Ferdinandea le cui statue impallidivano confusamente, poi davanti al teatro. Adesso arrivavano alla porta vecchia della città. Sotto l’androne si scaldavano a una grande fiammata di fascine due guardie di finanza, e quella di piantone canticchiava, con le mani in saccoccia, addossata a uno stipite.

– Salute! – le gridò don Placido, seguitando a correre.

– Salute e bene! – gridò la guardia.

Adesso le loro ombre s’inseguivano sul ponte delle fortificazioni: sotto gli stivaloni di don Placido l’acciottolato crepitava. Sui fossati, sulla vallata di Capua era sceso un velario oscuro.

– Avanti! Siamo arrivati! – egli urlò ancora – Io vado pe’ biglietti. Prendo la terza! Passate per l’ultima porta a destra e aspettatemi sul marciapiedi…

Bruscamente apparve la fabbrica della Stazione. Letizia si volse. Tutto era scomparso nella notte, dietro di lei: la città, la campagna, i bastioni. Nessuna luce brillava quasi più in quel lontano. Tutto finiva. Allora stese le braccia verso Capua e singhiozzò perdutamente:

– Addio! Addio! Addio!..

Poi si sentì trascinare dalla bionda, che quasi la sollevava, e si ritrovò sul marciapiedi, davanti al treno nero, interminabile. La macchina sbuffava. Un vento umido e freddo la percosse in faccia. Udì confuse voci e a un tratto urlare:

– In vettura! In vettura!

Uno sportello si spalancò. La bionda salì per la prima, stese le braccia, afferrò Letizia e se la trasse dentro. Lo sportello si chiuse sbatacchiando. L’impeto del treno che s’avviava le gettò l’una addosso all’altra.

Lo scompartimento era quasi deserto. Due fattori fumavano sul sedile opposto, e subito si misero a parlare di derrate, d’olio, di vino, a voce alta. La pioggia sferzava i vetri dei finestrini.

VII

– Arriviamo… – le mormorò Marta, a un tratto.

Per più d’un’ora, senza parlare, senza neppure guardarla, se l’era tenuta a fianco, stretta, avvinghiandola quasi, rinserrando la stretta a ogni scossone del treno. Ora le parlava sottovoce, rapidamente, quasi all’orecchio.

– Ascolta… Napoli non la so, non ci sono mai stata. Dicono ch’è una città grande, immensa, pericolosa, un inferno… M’ascolti?..

Letizia assentì con un moto del capo.

Marta continuò:

– Ci ha perdute lo stesso uomo. Bene, non importa… Senti… Siamo come due sorelle, ci siamo conosciute da tanto tempo… Pensa così, come penso io. E tu ora mi vuoi bene, e io ti voglio bene… Senti…

E la voce s’inteneriva sempre più, maternamente, e tutte e due quelle donne palpitavano. I fattori seguitavano a parlare, più basso.

– Io non ti lascerò mai! – balbettò ancora la bionda. E in quel patto cercò le mani di Letizia e le strinse – E tu giurami lo stesso! Tu non mi devi lasciare!.. Ho paura di Napoli… Senti… Dimmi che m’aiuterai, che mi difenderai… Letizia, giuralo! Giuralo a Marta, a questa povera disgraziata!..

Letizia rispose, con un soffio di voce:

– Sì, sì… giuro…

Il treno entrò sotto la tettoia e passò sugli scambii con un fragore assordante. I fattori si levarono e agguantarono le loro valigie. Una voce, due, tre urlarono nell’oscurità:

– Napoli! Napoli! Napoli!..

Marta si buttò giù e stese le braccia alla compagna. Si spalancarono in quel punto gli sportelli di tutte le vetture e vomitarono sul marciapiedi un’ondata di soldati. Il ventottesimo d’artiglieria, il reggimento del furiere, era partito con loro da Capua. Ora i primi ranghi si formavano in fretta, sotto la tettoia, e confusamente s’udivano altre voci, e lampeggiavano altre armi laggiù in coda al treno.

Gli ufficiali gridavano i loro ordini e correvano qua e là lungo il treno.

– Vieni! – disse Marta, trascinando la compagna.

Sorpassarono i cancelli, s’arrestarono per un momento, ignare, indecise, sotto le arcate dell’uscita sulla piazza.

Era quasi la mezzanotte. La pioggia batteva sul selciato. Migliaia di lumi, alti, bassi, ora bianchicci, ora rossastri occhieggiavano nella vasta piazza e dalle vie circostanti, ove le case apparivano e sparivano in una nebbia nera che a volte pareva che le dissolvesse.

Le due donne, attonite, irresolute, scesero dal marciapiedi. Ma quel fiume di soldati che le aveva rincorso fu sopra di loro d’un subito, e le sospinse, e le separò. Passò tutto il reggimento, quasi fuggendo, sotto la pioggia. Letizia fu ricacciata sotto i giardini, dalla parte del Vasto. Ella sbarrò nell’oscurità i suoi grandi occhi azzurri pieni d’orrore.

E urlò:

– Marta!.. Marta!

Nessuno le rispose.

Letizia si sentì mancare. S’addossò a un fanale. Raccolse la voce e con uno sforzo supremo chiamò ancora:

– Marta!.. Marta!.. Marta!..

Nessuno, nessuno…

Ora ella era a fronte dell’ignoto, nella misteriosa notte del suo destino.

Sola.

PESCI FUOR D’ACQUA

I

– Son deciso, ecco! – ripetette seduto di faccia a me alla medesima tavola, il mio compagno d’ufficio de Laurenzi – Ormai son deciso a resistere! E staremo a vedere! L’ufficio? I doveri dell’ufficio? L’orario? Ma l’ufficio non conta nulla, mio caro, a fronte di tutta una vita, di tutti i ricordi che v’inchiodano al posto ov’è stato il padre. Il padre, capisci? E io dunque dovrei rinunziare alla scrivania di mio padre, alla stanza dov’è stato mio padre, all’aria che ha respirato mio padre! Ah, sì per esempio! Ma voglio vederlo, perdio!

S’interruppe. Il cameriere, uno de’ più anziani di quella ignobile gargotte ove s’andava a far colazione tra preti, avvocati, studenti e cantanti del teatro vicino, ora gli poneva davanti un piatto di baccalà alla livornese fumigante in una brodaglia rossastra. Gli occhi miopi del de Laurenzi s’appressarono al piatto e vi si sprofondarono e lo interrogarono avidamente: tra quel vapore succulento le nari di un lungo naso floscio palpitarono e si dilatarono.

– Alla livornese, professore – disse il cameriere – Poi me ne parlerà. E appresso ha ordinato?

– Un formaggio e un finocchio.

– Il vino solito?

– Solito.

Si mise a mangiare, voracemente. E io, che avevo terminato il mio modesto asciolvere, sorseggiando un caffè e fumando mezzo toscano mi misi a guardarlo come se lo vedessi per la prima volta.

Alto, magro, con le spalle incurvate, con una gran barba grigiastra e incolta pel cui pelo intricato or si disseminavano le briciole del pane e le gocce del brodo untuoso, con orribili mani dalle dita nodose e lunghe che parevano artigli, mal vestito, tutto chiuso in un vecchio cappotto stinto e rattoppato il cui bavero che un tempo era stato ornato di pelo marrone or ne serbava solo quattro o cinque ignobili ciuffetti, il mio compagno di ufficio de Laurenzi, un uomo sui sessanta anni suonati, incarnava pittorescamente la pietosa straccioneria del travettismo. Ammogliato, carico di figliuoli e di piccoli debiti pe’ quali il suo stipendio era strappato a brani e giorno per giorno alla cassa dell’economo, egli era un di quelli sciagurati il cui contatto uggioso ve ne sollecita quasi a non indulgere alle volgari abitudini e a’ miserabili vizii, ma ch’io m’inducevo a creder degno, il più delle volte, della più malinconica commiserazione.

Era stato – raccontava – giornalista di grido, nell’Alta Italia, a’ suoi be’ tempi: lo era ancora qui, adesso, in una gazzetta quotidiana che stentava parecchio la vita e nelle cui trascurate colonne il de Laurenzi poneva, di volta in volta, certe sue rievocative narrazioni partenopee scialbe e sciatte, disseminate di ampollosi rimpianti e miserabilmente intessute sulle cronache de’ giornali del tempo, in cui frugava tutta la santa giornata.

Nella biblioteca governativa, ov’ero anch’io, il de Laurenzi era entrato quando essa aveva a capo un prelato di cui bastava soltanto soddisfare l’olimpica vanità per guadagnare, se non la stima, la indifferente acquiescenza. Morto costui la biblioteca non aveva più potuto offerire alle gratuite libertà che l’ex giornalista vi s’era conquistate un comodo asilo remuneratore. Ora bisognava lavorare e frequentare l’ufficio. Il nuovo bibliotecario era severissimo: guardava nel registro d’ingresso degl’impiegati, segnava le ore e i minuti a’ tardi arrivati, mandava in giro, di volta in volta, ordini del giorno in cui si raccomandavano lo zelo, l’ossequenza all’orario, la diligenza ne’ compiti, e pretendeva che tutti firmassero quelli ukase in segno di rispettosa adesione.

 

Una schiavitù, sissignori: una soppressione spietata, implacabile, dell’ingegno e della personalità, una scettica considerazione dell’io pensante e creante, degli altrui nervi, dell’altrui cultura quando non fosse quella delle scienze naturali e delle matematiche, nelle quali quel nuovo direttore era spaventosamente agguerrito.

Ah, sì: portate in questi polverosi e silenziosi antri, foderati della storia cartacea del pensiero umano, portatevi, se vi riesce, la giovialità, l’arditezza, il libero arbitrio, la poesia, l’indipendenza: portatevi il vostro talento, la vostra modernità, le vostre abitudini sincere e svegliate, se vi vorrete vedere a mano a mano sfiorire tutta codesta ancor viva giovinezza dell’animo vostro! Mio Dio, che aridità e che tristezza tra queste mute pareti, gravi d’in folio e d’enciclopedie: tra queste mura sorde a ogni voce impulsiva e pur così impregnate de’ pettegolezzi, delle invidie e delle guerricciuole che costituiscono il tessuto connettivo della vita degl’impiegati, il continuo esercizio della loro parola aspra e mordace, l’alimentazione quotidiana dell’ozio e dell’ignoranza del loro pensiero!

Che diamine, dunque, pretendeva di non volere lasciare qui, come un brano del suo cuore dolente, il mio compagno de Laurenzi? E di dove gli veniva tutto questo attaccamento atavo-topografico, espresso con tanto impeto melodrammatico? Io non sapevo, in verità, figurarmi e ammettere tra il baccalà alla livornese e l’evocazione paterna alcuna tollerabile analogia. Quest’uomo dunque componeva con tanta assoluta ignoranza della loro espressione dissimile le sensazioni della psiche e la più brutale delle soddisfazioni fisiologiche?

– Comprenderai – disse lui, quasi come per rispondere al mio pensiero, e dopo aver vuotato il suo terzo bicchiere di vino bianco siciliano – comprenderai ch’io mi trovo nelle biblioteche non per le mie aspirazioni, non per elezione mia. Ti pare? Un impiego governativo! Cioè una sgobbatura! Una servitù! Ma, poi che là dentro mio padre, ch’era uno studioso, è stato impiegato anche lui e ha vissuto metà della sua vita io vi ho voluto iniziare come una tradizione metodica ed esemplare nella storia di queste successioni familiari. Usciamo?

– Usciamo. Bada ch’è ora di tornare lassù.

De Laurenzi afferrò un tovagliolo e si forbì le labbra, in fretta, e poi lo buttò sulla tavola tutto insudiciato, come uno straccio. Si levò: cacciò la mano nella profondità d’una delle saccocce del suo cappotto, vi pescò e ripescò per buon tratto, e infine cavò fuori quell’artiglio armato d’un mozzicone di sigaro.

– Andiamo – mi fece, dopo avere acceso il mozzicone.

Sulla soglia della trattoria s’arrestò, per ricominciare il discorso.

– E così eccomi in guerra aperta col signor direttore. Si capisce: io sono uno straordinario, pel momento: io sono entrato nel sancta sanctorum senza i titoli che ci vogliono. Titoli? E il mio ingegno, il mio passato? Questi signori non vedono che bibliografia, schedatura, inventarii. E guai a chi è qualcuno o qualcosa! E poi sotterfugi, rapporti segreti, denunzie: ecco la loro maniera di battagliare. Ora, come l’hanno insegnato anche a me, loro mandano ufficii – e io mi dò per malato e vado a Roma.

Si scappellò, con un saluto profondo.

Colui ch’egli aveva salutato gli fece pur di cappello e passò via, in mezzo a quattro o cinque altri che lo accompagnavano e con cui discuteva calorosamente.

– Lupus in fabula– disse de Laurenzi – L’onorevole Maliberti. Non lo conosci?

– No.

– Vuoi che ti presenti, un’altra volta?

– Ma no!..

– Fai male. Una potenza, sai. È lui che m’ha presentato al ministro. Ed è così che sono a posto, adesso.

Riaccese il suo mozzicone di sigaro, che s’era spento. E soggiunse:

– Vedrai, mio caro. S’è battagliato, a Roma, giorni addietro. Ma l’ho spuntata, questa volta. Francamente, se io fossi te, cercherei di conoscere l’onorevole. Non sei elettore, tu? No? Come, non sei elettore, non ti sei fatto inscrivere?..

Affrettavo il passo. Egli s’accorse della poca attenzione onde accoglievo le sue parole e s’arrestò, a un tratto.

– Tu dunque rientri in ufficio?

– E tu non ci vieni?

– Io no. Vado al giornale. Ho un articolo da correggere in bozze di stampa. E mi preme più quello, naturalmente.

Feci l’atto di rincamminarmi.

– Se domandano di me…

– Ho capito…

– Ecco… Si potrebbe inventare una frottola. Un figlio malato, per esempio. L’influenza. Si può dire che mi sono venuti a chiamare da casa mia, d’urgenza. Una malattia a tua scelta. E poi mi telefoni al giornale. D’accordo?

– Sì – mormorai – d’accordo.

Egli s’era già allontanato, a gran passi, trascinando pel fango di via Costantinopoli le sue scarpacce inzaccherate sulle quali sbattevano, molli e intrise di mota, le bocche larghe e logore de’ suoi pantaloni.

Ora passava un carro funebre, di quelli che fanno continuamente la via di Foria e s’avviano al cimitero. Il de Laurenzi, curvo, con la mano alla falda del cappello, scivolò accanto all’enorme e nero carrozzone dalla cui cimasa dorata pareva che volessero spiccare il volo, ad ali spiegate, quattro polisarcici angioli di legno. La via, su quel transito, s’era fatta silenziosa, a un tratto. E a me parve che tanto da quel lento carro come da quell’uomo pur funebre si sprigionasse in quel punto una medesima espressione mortuaria il cui senso mi durò dentro per qualche secondo. Poi tutto si tolse dalla mia vista. Ma sopra di me e sull’animo mio, mentre m’avviavo alla porta del mio ufficio, pesava ancora, come l’ultimo segno di tanta malinconia, un cielo invernale plumbeo e greve. L’aria mi pareva satura d’una umidità uggiosa, e associata a tutta quella tristezza, a tutta quella miseria.

– Spero che non mi chieggano di costui! – m’auguravo, salendo le scale della biblioteca.

Come mi seccava di dover mentire, se mai! Una collera sorda, commista d’insofferenza e di sprezzo, mi sommoveva contro quest’uomo che intendeva piegarmi a una ripugnante complicità. Lui tenero dell’ufficio, della stanza paterna, della vita di quel luogo severo e nobile – lui, così svogliato, così cinico, così pronto a barattare la sua dignità e il suo amor proprio con una menzogna da scolare?

Un uomo di quasi sessant’anni!

II

– Stazza l’aspetta – mi disse l’usciere di guardia alla porta, come mi vide – Ha domandato di lei più volte.

– Stazza? E che vuole? Dov’è?

– Nella stanza del direttore.

Era uno degl’impiegati più anziani, un uomo eccellente, nel cui bonario sorriso io m’abbattevo ogni mattina, da quattro o cinque anni che frequentavo l’ufficio: il solo sincero sorriso che ritrovassi là dentro. Nella biblioteca Stazza era entrato a trent’anni; ora ne aveva sessantacinque suonati. Era ancora un colosso: nelle sue larghe mani poderose s’ammucchiavano pile enormi di libri, ed egli le reggeva e le portava qua e là senza alcuno sforzo visibile, con le braccia tese, lento, paziente, tranquillo. E come la pratica scienza del luogo ove quasi aveva vissuto tutta la sua vita ve lo ritrovava acconcio e disposto alle fatiche più improbe, egli non se ne stancava. Si conosceva illetterato, sapeva la insufficienza della sua cultura, meno che mediocre e null’affatto accresciuta neppure dalle più immediate e continue comunioni co’ sapienti compagni locali e con i lettori – e però badava, offerendo e adoperando come un valore succedaneo la forza delle sue membra poderose, a compensare questa sua grande pochezza spirituale.

Di volta in volta, quando per cercare qualche libro mi capitava di entrare nella sua stanza – ov’egli non s’era fatto portare che una delle più vecchie e più umili scrivanie e due seggiole, una delle quali per riporvi il cappello – la bonaria semplicità di quell’uomo mi vi tratteneva per un pezzo. Era la mezz’ora in cui Stazza si concedeva un breve riposo. Facevamo quattro chiacchiere: io addossato a uno scaffale, con tra le mani il libro che mi occorreva, lui seduto alla sua scrivania, coi gomiti sulla tavola.

Una volta, non so come, non ricordo più perchè, gli chiesi, sorridendo:

– E lei crede che si possa aver passione per la biblioteca, noialtri?

Stazza, serio, socchiuse gli occhi, con quel suo solito vezzo di quando voleva dir cose gravi.

– Si possa? Si deve, caro collega. Guardi, io non ho moglie, non genitori, non fratelli. E per me la biblioteca è la moglie, è la madre, qualcosa come una famiglia. Penso, talvolta, che avrei avuto quasi il diritto di nascere qui, in una di queste stanze. Lei ride?

– No, anzi, trovo naturale. S’intende, naturale per lei che non fa altro, che non conosce altro, perdoni.

– Già, lei fa un’altra vita. E poi…

Rimase in forse un momento. Poi soggiunse, con aria di sincera umiliazione:

– E poi lei sa tante cose ch’io non so. E poi è giovane, e ha da pensare a tante altre cose.

– No, non è questo. Dica che ciascuno non comprende se non quel che ritrova in se stesso.

– Sarà. Ma glie ne voglio dire una: stanotte, per esempio, sa lei che cosa ho sognato? Il nostro gatto rosso che scorrazzava nella sala degl’incunaboli.

Sorrideva, candidamente. In quel punto mi sentii quasi intenerito da quella innocenza pacata e soddisfatta, illuminata, come da un dolce riverbero dell’anima, da due limpidi occhi azzurrini. No, non ponevo, è vero, quell’inconscia virtù in relazione con tante altre della vita, più stimabili, più alte, e non mi pareva di doverne cavare ammaestramento: quella era una forma nulla, una espressione quasi brutale di accontentamento, l’indizio ignaro e pietoso d’una natura inferiore, tranquillamente passiva. Tuttavia quella felicità fortificante, d’un tonico effetto morale, pareva che mi volesse ammonire sulle cose della vita.

O non avevo davanti a me un essere ch’io forse giudicavo troppo frettolosamente? La mia fantasia, disposta ad architettare, ora mi offeriva un più sottile giudizio intorno ad esso: io gli supponevo, adesso, una rinunzia progressiva, una riduzione continuata delle sue pretensioni, delle sue speranze, della sua libertà, e tutto questo mi sembrava mascherato da quel faccione rosso e pletorico, traspirante una giovialità e una contentezza fanciullesche e rischiarato da un sorriso perenne.

Così, talvolta, quando potevo coglierlo in qualche momento in cui mi si mettesse tutto quanto sott’occhi, io facevo scorrere sulla superficie di quest’uomo il mio sguardo investigatore, e tentavo di penetrarla. Sapevo ch’egli era solo, che in casa non aveva che una vecchia serva, che l’abito suo di trovarsi sempre pel primo in ufficio e d’uscirne sempre l’ultimo – urtante metodicità per gli apprezzamenti d’un malato di nervi com’io sono – non s’era mutato una sola volta da quando Stazza era entrato in biblioteca. Costui dunque non aveva avuto gioventù, passioni, disillusioni, scoraggiamenti? Che cosa era nel passato di questo gigante rubicondo che violentava e superava tutte le leggi impulsive alle quali tre quarti dell’umanità va soggetta?

Finii per arrendermi a quella impenetrabilità pacifica e indifferente. Ma un senso di tedio e di stanchezza mi allontanò dal mio compagno. Lo incontravo, ci salutavamo freddamente, ed io gli sfuggivo, accrescendo così, senza forse desiderarlo, il numero delle persone la cui comunione mi diventava, là dentro, ogni giorno più insopportabile.