Tasuta

L'ignoto: Novelle

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

IV

A poco a poco il cortile si era vuotato. Ora un’improvvisa calura sciroccale umida e greve occupava l’aria. Il sole scottava. In quello spiazzato irregolare, rinserrato da muri grigi, alti e interrotti da linee non simmetriche di finestre e di poggiuoli, la luce pioveva come in un pozzo e vi si raccoglieva pesantemente. A uno de’ poggiuoli era seduta una reclusa, incinta, e rammendava un panno bianco che le si distendeva sul ventre rotondo e gonfio. Guardava abbasso, di volta in volta, e poi levava un lembo del panno per passarlo e ripassarlo sulla fronte sudata. Due altre donne, affacciate alla finestra accanto, chiacchieravano, e una fumava una sigaretta e sputava continuamente sotto, su un mucchio di calcinacci. E passavano e ripassavano dietro alle altre finestre altre recluse, e attraversavano corridoi e dormitorii, dai quali usciva un confuso vocio, uno strepito di voci discordi e di risate, un fracasso di porte e di vetrate sbattute. Nella infermeria, i cui quattro poggiuoli stampavano sul bianco muro rivolto a mezzodì il vivace colore de’ loro stipiti dipinti di verde, una suora già era sopraggiunta e apriva le persiane, sbatacchiandole sul cortile. Accanto, vestita d’un camice grigiastro e tutta raccolta sopra uno sgabelletto, a un cantone d’un altro poggiuolo, una malata infilava alla gamba scarna e nuda una calza, e si voltava a quel romore.

Improvvisamente la campanella del refettorio tintinnò. Le tre porte del refettorio s’apersero, giù a pian terreno, sotto gli archi che da quel lato ricorrevano davanti a un breve peristilio. Erano le otto del mattino e a quell’ora le recluse scendevano a sorbire il caffè. S’udì subito là dentro un romore di panche trascinate sul pavimento, s’udirono cozzare le chicchere e a un tratto, mentre si faceva un silenzio profondo, una voce lenta e nasale giunse di là fino al cortile.

– Figliuole, un’altra giornata della nostra vita principia. Ringraziamo la santa Vergine Maria, che ci ha concesso di vivere quest’altra giornata, e promettiamole di averla presente in tutte le nostre azioni. Un’avemaria secondo la intenzione di ciascuna di voi.

Seguì un breve mormorio come di preghiere recitate sommessamente. Poi ricominciarono lo strepito e il vocio.

– Hai sentito? – fece Cocotte a una spilungona che si trascinava dietro una seggiola in cortile e vi cercava un posto all’ombra – Ci raccomandano alla santa Vergine. I Gesuiti ci raccomandavano a quel bravo Eterno Padre, ti ricordi?

Levò il braccio e puntò al refettorio la mano spiegata.

– Idiote! – urlò.

E subito dette in una risata folle, tenendosi i fianchi, battendo i piedi a terra, scotendo i pugni stretti.

L’altra aveva trovata l’ombra e s’era seduta. Aveva cavato un coltellino e s’era messa a sbucciare un’arancia.

– Levati dal sole – ammonì.

E una voce, da una finestra, ripetette, forte:

– Cocotte, levati dal sole!

– Ieri il Padre Eterno, oggi la santa Vergine! – strillò Cocotte– Napoli! Roma! Firenze! Si cambia!

Ora s’accendeva e s’agitava, sorpresa da que’ suoi vapori convulsivi per cui si cominciava a mano a mano a scolorire nel viso, a tremare, a balbettare parole senza senso.

Fece ancora qualche passo verso gli archi del peristilio e a un punto si soffermò, piegandosi quasi, allungando il collo, spiando…

– La piccola!.. – mormorò.

Suora Vittoria appariva sotto uno di quelli archi.

Allora l’epilettica le si avvicinò, pian piano, con un sorriso ebete.

– Badi! – fece alla suora quella dell’arancia, e si levò – Badi! È malata!..

Suora Vittoria stese la mano, come per difendersi. Cocotte glie l’afferrò a volo e la strinse forte e la tenne fra le sue, borbottando.

Vi fu un silenzio pauroso. Adesso l’epilettica, estatica, la bocca spalancata, affisava la suora. E sul suo volto inquieto, impallidito improvvisamente, e negli occhi suoi stralunati cresceva un terrore subitaneo e angoscioso. Le sue labbra si sforzavano di articolar parole che vi s’interrompevano confusamente e vi morivano tra un suono gutturale. Poi, lentamente, le sue mani si rilassarono. Il balbettio scemò, s’udì appena. Ed ella si ritrasse, tutta raccolta sopra se stessa, piegata, in un atteggiamento di bestia.

Mise un alto strido, d’un subito, e barcollò.

– Scendi, Rita! – gridò la spilungona a una finestra – Porta un cuscino!

Accorreva, con la bocca ancor piena.

– Qui! Qui! Voialtre!

Sopraggiungevano le recluse, dal refettorio. Cocotte era caduta sul selciato, con un tonfo sordo. E come la suora, in quel punto, le aveva profferto le braccia l’epilettica le si era avvinghiata a’ fianchi, se l’era trascinata addosso e se la premeva sul petto ansante.

Al sole ardente che lo investiva quel gruppo di membra s’aggrovigliava e sobbalzava. Le braccia di Cocotte, nude fino alla scapola, ora percotevano l’aria, i suoi denti stridevano, ed ella mugolava come un bruto ferito.

– Lasciala! – gridò la butterata alla suora – Scostati!..

Si chinò, l’afferrò per la vita e tentò di svellerla da quelle braccia che l’avevano riafferrata, irrigidite e tenaci.

– Lasciala!

Cocotte, sfinita, ricadde di peso e restò immota.

La suora le passò una mano sotto il capo, si piegò, posò la sua guancia su quella faccia stravolta e bruttata di sozza bava sanguigna.

La butterata, ginocchioni, cercava di liberarla e le urlava, faccia a faccia:

– Ma sei pazza!.. Ma bada!.. Ricomincerà!..

Allora la piccola suora balbettò, soffocata da’ singhiozzi:

– Mia madre… Mia madre…

IL POSTO

L’ultima sera di dicembre del 18… il mio portinaio mi mise sul breve tavolino che mi serviva da tavola da pranzo e da scrittoio una lettera sulla cui busta era stampato tanto di Ministero della Pubblica Istruzione. Il decreto di nomina. Professore – finalmente!

Ed eccoti – pensai, spiegando quel foglio e scorrendolo con una rapida occhiata – eccoti dunque pedagogo a venticinque anni, nel meglio della vita e con tante altre e ben diverse illusioni nel cuore! Sta bene. E ora va: e insegna ai giovanetti sulla scorta dei soliti programmi: e ragiona loro de’ fatti di Pirro e di Leonida, delle guerre peloponnesiache e della ritirata dei Macedoni…

Lentamente, ricacciai quel foglio nella busta è la riposi sulla tavola. E rimasi lì, seduto davanti ad essa e quasi meravigliato della serenità con cui accoglievo quella notizia pur così attesa e che quasi non così presto mi aspettavo. Come! – pensavo – Tu conquisti un posto sicuro e che t’assicura la vecchiaia – tu riesci a procurarti uno stipendio certo quando tanti altri, più vecchi di te, e più meritevoli, e più umili ne sognano invano uno anche minore; tu raggiungi la piccola gloria dell’insegnamento, un titolo, l’avvenire, infine – e non benedici la provvidenza, e non ti reputi fortunato?

Vero, vero; solo al mondo, oramai – mia madre era morta nel luglio dell’anno precedente e avea seguito mio padre laggiù nel breve cimitero del mio paesello – io avevo dovuto, fin qua, vivere a Napoli – in questa città così grande, così espressiva, così movimentata – la vita dello studente povero e sconosciuto che si può appena permettere il lusso d’un solo e parco asciolvere al giorno e di un unico vestito all’anno. Un altro, dunque, al posto mio sarebbe stato davvero più contento.

Ma io rimasi lì, al cospetto di quella partecipazione, che parecchi dei miei compagni m’avrebbero certo invidiata, quasi a malinconicamente contemplarla. Per altri la vita cominciava di là, da quella carta. Per me, pareva che lì si dovesse arrestare. Sì, sì, arrestare! Come ritorcere l’animo mio, che si voltava addietro e vedeva a mano a mano allontanarsi, svanire quasi come in una nebbia fredda i più teneri ideali ch’esso aveva accolto fino ad ora? L’arte, la poesia, la letteratura, tutto un miraggio luminoso di plauso e di successo si dissolveva – e agli occhi della mia fantasia, che or andava architettando cose e persone e luoghi novelli, già, con una gelida evidenza, apparivano la scuola, la simmetrica linea dei banchi, le austere pareti, e l’ardesia e la cattedra dalla quale sarebbe suonata, su d’un tono ammonitivo, la mia povera voce non avvezza alla formola pedagogica.

Tornai ad aprire la busta, macchinalmente. Tornai a gettar gli occhi su quel foglio timbrato, percorso da una di quelle perfette calligrafie d’amanuensi le quali constituiscono il merito più considerevole degl’impiegati a’ Ministeri. La partecipazione era estetica: il mio nome era scritto in rondino…

Una voce squillò improvvisamente nella mia camera…

– Carlo! Carlo!

S’era spalancata la porta e Matteo Barra, il mio compagno di studio e di stanza, quasi mi si precipitava addosso.

Io m’ero levato, commosso. Buon figliuolo! Il portinaio, o qualche comune amico, o il solito bollettino del Ministero gli avevano partecipato la mia nomina…

– Come hai saputo? Da chi?

Ci eravamo abbracciati e baciati. Egli mi guardava, ora, con gli occhi ridenti.

– Ho fatto la scala d’un fiato! – balbettò, ansante.

Mise la mano in petto. Cavò il portafogli, le sue carte d’appunti di «Diritto Costituzionale», il librettino in cui segnava le mie e sue spese giornaliere. Spuntò di mezzo a quelle carte un telegramma. Egli lo spiegò, mi trasse al balcone, me lo pose sotto gli occhi.

– Ecco… leggi! – mi fece – È mia madre. L’ho saputo da lei…

Lessi, sorpreso:

«Caterina acconsente assieme famiglia. Tutto pronto. Vieni passare qui feste. Ti benedico. Carmela».

– Non capisci? – esclamò Matteo Barra – Non hai capito? Io mi sposo. Io parto.

– Parti!..

– Ma certamente! – e si mise a misurare la stanza a larghi passi – E che vuoi che aspetti? Non hai letto? Dice «tutto pronto».

Mi si arrestò d’avanti. Mi mise la mano sulla spalla.

 

– Tu ti ricordi di Caterina, non è vero? Della sua zia monaca?.. Quella è morta, la zia, a ottant’anni! Requiescat! E Caterina eredita. Ricordi che lotte, che battaglie, che disperazioni? Bene: ora non più… Tutto è a posto… I parenti di lei mi scrivono lettere affettuosissime… E lei!.. Lei, non ti puoi figurare! È felice, è orgogliosa della mia laurea. Capirai, abbiamo una laurea adesso… Dottore in utroque!.. Ah, mio Dio! Son contento, guarda, son contento! Andiamo a pranzo. Pago io. Voglio pagare io!..

S’interruppe. Mi guardò, meravigliato. M’afferrò pel braccio e mi scosse, faccia a faccia.

– Ma, che hai? Carlo? Che hai?..

Guardò intorno, come a interrogare sul mio silenzio le umili e fredde pareti della nostra stanzuccia. Io ero rimasto impiedi tra la vetrata e le imposte del balcone. Era un momento in cui l’oscuro Vico Majorani, laggiù a’ Tribunali, taceva, penetrato tutto quanto da quella naturale malinconia della sera che cade, dalla particolare tristezza dell’ora in cui pare che tutte le anime si raccolgano. Brillò un lume, di fuori, a un tratto: di faccia al nostro balcone al primo piano s’accendeva il fanale al cantone. Arrossato nel volto da quell’improvviso fuoco esteriore, ritto rimpetto a me, Barra mi stendeva le mani. Io le presi e le serrai, muto.

– Ma che hai? – mi ripetette – Tu tremi?.. Tu hai le mani gelate!

Balbettai:

– Senti… Credevo… M’era parso che tu sapessi…

– Ebbene? Che cosa?..

– Ho avuto il decreto, ecco… Il decreto di professore…

– Come! – esclamò – Ma davvero?..

Gl’indicavo il tavolino, sul quale il lume esterno a pena riesciva a far biancheggiare, nella oscurità, quel provvido foglio. Barra lo prese, s’appressò alle vetrate un’altra volta, lo lesse in fretta.

– Perdio!.. Ma come!.. E non mi hai detto niente!

– Che importava?

– Come! A me! Ma importava moltissimo, importava! Ma è una consolazione, per un amico!.. Carlo! Che diavolo! Dovevi subito dirmelo!.. Dunque bravo! Bravo! Son contento… Dunque eccoti a posto. Son contentone!

Aveva acceso l’ultimo mozzicone che ci era rimasto d’una stearica e ora badava a cacciare e a pestare in fretta e furia in una valigetta qualche camicia, de’ libri, un paio di scarpe, una spazzola. Andava su e giù per la stanzuccia, frugandovi, accrescendo a mano a mano il suo bagaglio. E durante la bisogna continuava:

– Sì… Ti devi chiamar fortunato, via! Non ti pare?.. La vita assicurata. Ma scherzi?.. Dimmi, hai visto niente i miei pettini?.. Non ti scomodare. Eccoli. Dunque… Ti dicevo, ringrazia Dio!.. Sì, sì, sono soddisfazioni meritate… Tu sei buono, tu hai un magnifico talento, tu faresti cose grandi. Si, sì. Ma di questi tempi… La vita… l’avvenire…

Quali parole vuote, nulle, abituali! E poi, gli premeva davvero la mia fortuna?..

Nella penombra, ricadendo a sedere davanti alla tavola, sorrisi amaramente. Ora Barra interrompeva il suo vaniloquio. Aveva preparato la valigia. E pareva indeciso, mortificato, quasi. Certo, egli mi voleva dire che l’ora della partenza si appressava, che occorreva che egli se ne andasse.

E in quel silenzio della cameretta, quasi senza distintamente vederci, c’intendemmo: il fluido dei nostri pensieri s’incontrò. La nostra amicizia si spezzava, in quel punto – e a nessuno di noi importava più dell’altro.

– Va pure – mormorai.

E mi parve di rispondere, freddamente, a quel che egli non aveva il coraggio di dirmi.

– Senti – disse lui, decidendosi – Ho un’ora. Il tempo per pigliare un boccone assieme. Vieni?

– No. Non ho fame.

– Non vieni?

– No.

– Hai mangiato?

– Ho mangiato.

– No, non è vero…

– Voglio dormire. Sono stanco.

Vi fu un silenzio.

– Buon viaggio – soggiunsi – Buona fortuna…

M’ero levato. Egli mi si avvicinava, confuso.

– Almeno… – mormorò – Abbracciami, almeno!..

L’abbracciai. Sentii, in quel punto, sciogliersi il mio cuore così gonfio. Sentii che Barra era stato, dopo tutto, il mio compagno di speranze, di privazioni, di gioie… Il suo cuore batteva sul mio così forte, così forte!.. E mi prese un tremito invincibile: la gola mi si serrò…

Ma, novellamente, e d’un subito, rampollò dall’orgoglioso e inasprito animo mio il tedio di questo ambiguo momento. Barra mi parve volgare e ipocrita: la sua frettolosa espansione mi disgustò.

– Vai, vai! – gli feci.

E, sulla porta, mentre ancora gli stendevo la mano, un impeto di collera e di disprezzo me la fece ritrarre.

– Va! – dissi – Addio!.. Va pure!.. Sii felice!..

– Addio… – mormorò Barra, timidamente.

Scese le scale, da prima lento, poi proprio a rompicollo. Io rinchiusi l’uscio. Mossi diritto al lume e lo spensi.

Si rifece l’oscurità nella stanzuccia. Nell’angolo della vetrata tornò più vivo il riflesso rossastro del fanale, e mi parve che il Vico Majorani diventasse più cupo e più silenzioso.

Mi sentivo piegare. Cercai il letto, tastai la fredda coltre, mi vi gettai sopra, bocconi. Il silenzio era alto. La fruttivendola, una storpia, addormentava il suo piccolo giù, nel vico, con una cantilena lamentosa.

Nascosi la faccia nelli origlieri. E a un tratto mi misi a singhiozzare, convulsamente.

VECCHIE CONOSCENZE

I

– La buona sera alla compagnia!

Mi volsi. E al suono della rauca voce grossolana si voltarono pur a guardare verso la porta i miei compagni di tavolino del Caffè Grande al Corso. Era l’ercole della troupe d’acrobati attendata a Giffuni dietro il mercato bovino.

– Buonasera – risposi – Che c’è? Non si lavora?

– Macché! – fece l’ercole, raggiustando sulla piccola testa quasi calva un sudicio berretto di pelo marrone – A Giffuni Vallepiana? E Pompei non è meglio! Città morta, caro lei, città di barbari, non dico per offenderla. Già lei non è giffunino… o giffunese… Come si dice?

E sedette al nostro tavolino e cavò la pipetta da una saccoccia d’un grande panciotto stinto di velluto rossastro.

– Giffunese – disse il telegrafista di Bartolo, levando gli occhi dalla Gazzetta di Venezia che gli mandava ogni giorno un suo ex collega di laggiù ove il di Bartolo era stato quattro anni.

Seguì un silenzio. Il Caffè Grande era quasi deserto: due mercanti ragionavano del raccolto a un cantuccio, e a un altro sedeva, solitario, il giovane professore di lettere del Liceo Cotugno. S’era fatto portare il calamaio e rivedeva le bozze del suo studio sull’Hecatelegium di Pacifico Massimi, comunicando alla ruvida carta da stampe l’acre e molesto profumo del patchculi ch’egli usava portare addosso. Appiè del banco del principale erano due o tre cacciatori di Casalferrato e sentenziavano di cani e di fucili col caffettiere, Nemrod impenitente anche lui.

– Un rhum! – chiese l’ercole, dopo un po’, lanciando al soffitto la prima boccata di fumo denso e puzzolente – Almeno – soggiunse, e si trasse davanti il bicchierino – qui c’è calduccio, ci si sta bene. Hanno visto fuori? Mezzo palmo di neve e nemmeno un cane per la via. La neve in Ottobre? Ma dico, dove siamo? In Russia?

– Cattiva stagione – disse il di Bartolo, per dir qualcosa.

– E voi che farete? – chiesi all’ercole, che si grattava il mento e guardava davanti a sè nel vuoto, con uno sguardo sgomento.

– E che devo fare? Domani o domani l’altro si va via. Domani è domenica e vorrei profittare della giornata. Chissà! Bel paese Giffuni! In tre sere settantotto lire! Cosa vuole, che ci lasci in pegno Mahmud?

Il di Bartolo si volse, con l’indice puntato sulla Gazzetta al passo che leggeva.

– Mahmud?

– L’orso bianco – disse l’ercole, grave.

– Difatti – io dissi – avrete le vostre spese…

– Spese? Altro! E poi gli incerti, caro lei. Se sapesse!

Bevve un goccetto di rhum, si passò il dorso della mano vellosa e enorme sulle labbra e soggiunse:

– Guardi, tre cavalli m’erano rimasti e uno m’è finito a Roccadaspide, col carbonchio. Il pagliaccio mi s’è affiochito per via e ha mezzo perso la voce; sua sorella, la Gilda, è cotta d’un impiegato di ferrovia che le faceva l’asino a Tricarico, e gli scrive lettere tutta la santa giornata e non mi lavora più come prima. E la Rosetta che a un tratto mi vien fuori con l’isterismo! Che? Contentezze grandi, caro signor dottore!

E fregò palma a palma, con tale furia che pareva si volesse spellare le mani.

– Mi dica, dottore, lei che se ne intende: che roba è codesta? Malattia grave?

– L’isterismo?

– Ecco.

– E vostra moglie è isterica? Davvero non mi pareva. E che ha? Che accusa?

– E che so, io? Dolori in petto, dolori allo stomaco, alle gambe, ai polsi. In faccia, di certo è smagrita. L’avesse vista quattro o cinque anni fa! Le dico, un bisciù! L’ha vista al trapezio?

– Sì, mi pare…

– Eh?.. – fece l’ercole, strizzando l’occhio – Ha visto che lavoro preciso?

Accennavo di sì, col capo. In quel punto pensavo ad altro. Il di Bartolo s’era sprofondato nella lettura del suo giornale, ma di volta in volta, ne levava lo sguardo per lasciarlo posare sul mio interlocutore, ch’egli affisava, silenzioso per qualche minuto, come si fa con certe persone nuove le quali vi suscitano un curioso interessamento nell’animo.

– Ha un cerino? – chiese l’ercole, che aveva vuotato nel cavo della mano il fornellino della pipetta e ora la ricaricava, lentamente.

Ne prese un fascetto dalla scatola che gli porgevo e se li mise in saccoccia.

– Scusi se mi permetto… Ma qui a Giffuni non c’è un solo cortile che abbia uno straccio di lume. L’altra notte per poco non mi sono spaccato il capo a un muro… Ma lei che ha, dottore? La vedo così uggioso! Che ha? S’annoia, non è vero?

Sorrisi malinconicamente. E mentre, voltandomi, cercavo sul divanetto ov’ero seduto, il mio bambù e l’ultimo fascicolo della Rivista Clinica sulla quale il di Bartolo s’era adagiato, l’ercole, frugando nel taschino del suo panciotto, borbottò:

– S’intende: questo non è paese per gente che vive. Denari in giro niente: divertimenti niente. Nemmeno un teatro. Prefettura e Municipio nello stesso palazzo, all’ultimo piano! Macché! Dopo dimani adios!

– Lei resta? – feci al di Bartolo.

L’altro nostro compagno di tavolino, Bazza, cancelliere alla Pretura, al solito s’era addormentato. Usava di far questo ogni sera, e lo svegliava il cameriere quando il caffè si chiudeva.

– Ma è presto – osservò il di Bartolo. – Guardi, non sono le dieci. Io resto ancora un poco e accompagno Bazza. Ma lei proprio vuole andar via?

– Ho sonno – risposi – Arrivederla.

– Signori! – salutò l’ercole, che pure s’era levato e si sberrettava.

Fuori, rialzando il bavero della sua giacchetta e tossendo a piccoli colpetti secchi, egli mi si mise allato e prese con me pel Corso scuro e deserto.

S’era liquefatta la neve: al raro lume di qualche bottega ancora aperta lucevano qua e là delle pozze e dei rigagnoli. L’ercole mi pigliava pel braccio, dolcemente, e me li faceva schivare.

Facemmo una ventina di passi in silenzio.

– Abita lontano? – chiese lui a un tratto.

– Non così lontano. Ma dal Caffè Grande a casa mia c’è un bel tratto. Sono in via del Mercato.

Si fermò su due piedi.

– Come! Ma dunque siamo vicini! Io son lì, di rimpetto. Non ha visto il mio carrozzone?

– Sì… difatti.

Ripigliammo il cammino e si rifece il silenzio fra noi, per un tratto. Dopo un po’ l’ercole riprese:

– E Bamboccetta, l’ha vista?

Lo guardai. Scossi la testa per dir di no. Egli parve meravigliato.

– Non ha mai visto Bamboccetta? Mia figlia? La piccina? Ma al circo c’è mai stato, lei?

– Sì, una volta: non ho troppo tempo…

– Ma scusi, ci deve venire. M’onori domani ch’è domenica. Senza complimenti… Lei mi fa chiamare alla porta e sarò ben felice. Almeno vedrà Bamboccetta.

Pronunziando quel nome il vocione s’inteneriva. L’ercole si arrestò un’altra volta, per un momento, come a meditare, e io pure dovetti arrestarmi. Il silenzio era alto. A un tratto, nel lontano, fendette l’aria il fischio del treno diretto che partiva per le Calabrie e ne vibrò, per qualche secondo, l’eco malinconica.

Come spuntammo dal Corso nella Via del Seminario ci apparvero di faccia, nell’alto, le tre finestre del Circolo, rosse nel buio profondo.

– La vita, caro signore – continuò l’ercole, seguitando nel suo vaniloquio – è una cosa triste e pesante. Non le pare? Ho una moglie, la Rosina, che m’è nemica mortale. Non se la può figurare: dispetti, furie, malattie, ogni sorta di birbonate. L’ho presa a Settignano, in Toscana, una volta che vi sono passato con tanti bei denari in saccoccia, che ora non si vedono più. Era lì con un signore titolato, un conte, gran femminiero, e costui l’aveva conosciuta in compagnia Roussel, a Firenze, e se l’era portata via in campagna. Bene; dopo un po’ eccoti il signorino che ti pianta lì quella creatura senza neppur dirle: obbligato. Arrivo io, comincio a lavorare, la Rosina mi viene a narrare i suoi patimenti e così senz’altro me la metto in casa. Sarà stato un sette anni fa: dico bene: l’anno appresso m’è nata Bamboccetta. La rosa fra le spine, caro lei, la…

 

S’interruppe, si piegò, per frugare con lo sguardo nella oscurità della strada. E in quell’atto, col capo avanzato, rimase qualche secondo.

Lontano nella piazza del mercato, ove il carrozzone degli acrobati scompariva nel buio fitto, brillava, come una lucciola sorvolante, la piccola e rapida fiamma d’uno zolfanello, e subito si spegneva. Io la vidi: all’ercole forse sfuggì. Egli si era quasi rivolto addietro e continuava a spiare.

– Chi va là? – fece a un tratto. – Rigo?.. Sei tu, Rigo?..

Non rispose alcuno. Ma un’ombra era scivolata lungo il muro, dall’altra parte, e aveva svoltato al cantone.

– Che volete fare? – dissi all’ercole, piano. – Qui a Giffuni non sono ladri. Sarà qualche amante…

– M’era parso Rigo – borbottò. – Sa, quello che mangia la stoppa accesa. Il gobbetto. Una vipera… Ma lei è arrivata?

Ero giunto a casa, difatti, e m’arrestavo davanti al portone. Accesi un moccoletto che portavo addosso per la bisogna e si fece un po’ di lume sotto l’arco barocco. E a quella luce indecisa che saliva a stento fino alla testa dell’ercole, mi parve di vedere impallidito il suo volto e diventati minacciosi quei piccoli occhi tondi, fino allora così inespressivi.

Stesi macchinalmente la mano. Egli la strinse fra le sue, diacce, e dell’atto che non s’aspettava parve sorpreso a un tempo e commosso. D’un subito lasciò la mano, mi voltò le spalle e scappò fuori. Andava lesto. Risuonò per buon tratto il romore dei suoi passi precipitosi, nella notte, e poi daccapo tutto tacque.

Come entrai nella mia stanza da letto mi feci al balcone che dava sulla via, e lo apersi, e ficcai lo sguardo laggiù nelle misteriose tenebre del mercato bovino.

La notte era fredda. Sgusciò nella mia camera, per lo schiuso delle vetrate, una folata di vento e quasi me le spalancò a dietro. Mi rivoltavo per tornar dentro quando un grido, all’improvviso, ruppe il profondo silenzio, e seguirono al grido un rumore confuso, un tramestio, laggiù, presso alla baracca, e subito un va e vieni di lumi e d’ombre. S’illuminò dopo un poco – ero rimasto lì inchiodato al balcone – la finestra terrena della caserma dei carabinieri, poco lontana dalla baracca, e novelle ombre frettolose passarono e ripassarono in quel chiaro. Appresso i lumi si spensero intorno intorno, e tornò il buio impenetrabile.

All’aria m’era entrato addosso un gran freddo. La naturale emozione che anche mi penetrava mi tenne desto sotto le coltri per un bel po’. Che cosa dunque era accaduto nella baracca dell’ercole? Al mattino lo seppi. La Rosina se ne era scappata via col pagliaccio, e quel Rigo, il gobbetto, le aveva tenuto mano. E l’ercole aveva accoltellato il gobbetto.