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IV

– Addio, dunque, Vittorio!..

E Cataldo Abbadessa, grasso, roseo, allegro, affettuoso, mi gettò le braccia al collo, presso al carrozzino che mi doveva accompagnare alla stazione.

– Caro Vittorio!.. – diceva – Povero il mio caro Vittorio!

E non sapeva dire altro. La signora Rosa, fiorente come lui, fresca, d’una bellezza piena di salute e di luce, mi andava cacciando sigari in saccoccia e ammucchiava alcuni piccoli formaggi della sua fattoria sui cuscini del carrozzino.

– Perdonateci, professore… È cosa da poco… Siamo gente alla buona…

– Dunque, addio… – balbettai – Addio, Cataldo… Addio, signora Rosa…

Il carrozzino si metteva in moto.

Ebbi appena il tempo d’esclamare:

– Signorina Carolina, addio…

Ella, ritta in mezzo alla via, immota, pallida, stese la mano…

La udii mormorare:

– Addio, signor professore…

E il carrozzino partì, velocemente, tra nugoli di polvere.

TOTÒ CUOR D’ORO

I

Due disgrazie, una più terribile dell’altra, colpirono, tre anni fa, nel febbraio, il mio amico artista Totò Galiero. Morì improvvisamente un suo zio presso il quale Totò mangiava, beveva, e scriveva le sue poesie lagrimose, i suoi sonetti pieni d’anima, come dicono adesso, i suoi straziantissimi drammoni, brani d’un cuore esulcerato, ch’egli, con un sorriso amaro, gettava di volta in volta a quel cane del pubblico. E un male misterioso – lo scoppio, a sentire i medici, d’una latente infermità nervosa che finiva per molto stranamente esprimersi – gli annebbiava in tale maniera la vista da nascondergli a un tratto e completamente ogni miseria umana.

Gli amici, figurarsi se rimasero atterriti da questo duplice disastro! Coglieva il poeta sentimentale, il pietoso scrittore del «Calvario d’una derelitta», l’espositore commosso delle privazioni degli oppressi, Totò Galiero, il vero socialista della penna, soprannominato fra noi «Totò cuor d’oro» per le rare e nobili qualità della sua psiche.

La povertà! La cecità! Ci pensate voi? Roba da far rabbrividire, veri castighi tremendi. Ed ecco per un anno la Vedetta Letteraria, L’Humanum, il Giornale del Socialismo Artistico privati, deserti dei versi e della prosa del nostro buon Totò. Ed eccolo sparito, seppellito chissà dove, muto per tutti, ma impavido, stoico, certamente, e con quell’animo forte che posseggono le creature fatte come lui, ritto di fronte alle sue due immani sventure.

Dopo un anno da questi fatti dolorosi, mentre una sera leggevo tranquillamente il processo Dreyfus, la posta mi recapitò, fra l’altre, una lettera sulla cui busta era scritto, con calligrafia evidentemente muliebre, il mio nome.

Io non sono un donnaiuolo, non intrattengo corrispondenza epistolare con le ammiratrici del mio nobile ingegno, non eccito gli scambii spirituali con le letterate. Quella calligrafia donnesca mi sorprese, dunque, e m’intricò. Apersi la busta, guardai in fondo alla breve letterina e vi lessi con meraviglia non poca la firma del mio amico Totò! Lì per lì, non ricordando la sua triste infermità d’occhi, mi domandai perchè mi scrivesse a quel modo, servendosi di quelle pattes de mouche così peculiari a un sesso che non era il suo. Poi mi risovvenni della fatale necessità ch’egli aveva di ricorrere a un’altra mano per le sue epistole, e nello spirito mi rimase soltanto la curiosità di conoscere per quale ragione egli affidasse la sua corrispondenza a una donna. La lettera, per altro, me lo spiegò subito.

«Conoscete, mio caro amico, l’ex monastero di Santa Patrizia, lì nella vecchia Napoli, ricoverante famiglie povere e vergognose della loro povertà, antichi impiegati pensionati e pinzochere e attori decaduti? Lo conoscerete certamente. Ebbene, io son lì, anzi qui, in questo decrepito locale: secondo corridoio del secondo piano, terza porta a sinistra. Vado dal medico ogni tre o quattro giorni e aspetto, pazientemente, l’operazione alla quale egli mi dovrà sottoporre e che, dice lui, riescirà completamente. Le mie condizioni finanziarie non sono, ahimè, mutate. Se spero di riacquistar la vista non così spero di potere trovar presto un posticino, un’occupazione quale che sia, tanto, insomma, che mi dia da vivere. Pazienza! Sapete d’altra parte, che cosa veramente desidero? Una vostra visita. Verrete dunque? Vi aspetta il vostro affezionatissimo Galiero. Ave!

«P.S. – La mano che vi scrive questa lettera è quella d’una buona vicina che mi fa da segretario. Il cuore è sempre quello del vostro Totò. Arrivederci!»

Povero Totò! Non misi tempo in mezzo e andai a trovarlo nel vecchio monastero di Santa Patrizia. Era una di quelle uggiose, piovigginose, grige giornate di marzo che vi mettono la tristezza in cuore e l’umido nelle ossa. Trovai Totò del suo solito umore quasi allegro e fu egli stesso, anzi, che avviò la conversazione per via non funebre.

– Guarirò – mi disse – Il dottore me l’ha proprio assicurato. L’operazione sarà dolorosa, sarà lunghetta, ma io tornerò a vedere.

– Ma davvero?

– Oh! Ne sono certissimo. Lo sento, ecco. E sento che al mio cuore tormentato è riserbata la più alta, la più gentile delle soddisfazioni. Quella di poter vedere, di poter ringraziare non solo col vivo della mia voce, ma col baleno del mio sguardo commosso la più santa delle creature di questo mondo, colei che durante la mia infermità non s’è mai per un momento solo allontanata da me, che m’ha prodigato tutte le sue cure, tutto il suo affetto, tutta la sua bontà! Oh! le sarò ben riconoscente, amico mio! Ora io non desidero di vedere che per lei, per lei solamente!

Parlava forte. La sua voce s’era riscaldata e tutta la sua persona vibrava.

Mi parve di udire un fruscìo di gonne, fuori la porta della celletta. Qualcuno che forse origliava lì, nella penombra, ora s’allontanava in fretta.

E Totò mi parlò della sua vicina, a lungo. Un angelo. Tutti i giorni gli portava il caffè, gli sedeva accanto, lo consolava, gli leggeva i libri e i giornali, gli scriveva le lettere, badava alla sua biancheria, gli spazzolava gli abiti…

– Dunque un idillio?

– Mah! – fece lui, sorridendo.

– Bella?

Totò sorrise ancora, amaramente. E io m’accorsi della mia storditaggine. Che poteva sapere, il povero cieco, del fisico dell’angelo? Ma egli continuava a narrarmi di tante piccole circostanze sentimentali per cui pensai che almeno nell’anima di lui, se non davanti agli occhi suoi, la figura della misteriosa benefattrice doveva essere impressa come una delle più delicate e suggestive.

– Mi scriverete ancora qualche volta? – chiesi al mio amico sul punto di lasciarlo.

– Ma certamente. Spero di potervi presto annunziare la mia guarigione.

– E la felice soluzione del vostro idillio – soggiunsi.

– Chissà?.. – disse lui.

II

Passarono da quel giorno sei o sette mesi. Notizie di Totò, durante tutto quel tempo, io non avevo più potuto apprendere poi ch’ero dovuto partire, appena qualche settimana dopo di averlo visto, per la Germania. Lassù, di volta in volta, mi si rifaceva vivo il ricordo de’ miei amici di Napoli e spesso, nella nebbia nicotinizzata di qualche birreria di Magonza o di Heidelberg, tra’ fumi del prosciutto caldo e del saüercraut, la ideale e dolorosa figura di Totò Galiero mi appariva come quella d’un personaggio poetico e tragico, e degno di quella nordica letteratura.

Tornato a Napoli trovai, fra le parecchie che il mio portinaio aveva avuto la splendida idea di serbarmi per tre mesi nel suo casotto, una lettera di Totò. Questa volta egli scriveva manu propria, con la sua bella calligrafia chiara e grande, indizio, come osservano i grafologi, d’una passionalità generosa.

«Sono guarito! – annunziava la lettera – Vedo! Vedo!»

Nient’altro.

Evviva! Ma dove ottenere più precise notizie, dove potermi congratulare con quel poveretto, dove poterlo riabbracciare? Corsi all’ex monastero di Santa Patrizia, infilai daccapo quel lungo e oscuro corridoio che m’aveva guidato alla cella di Totò e con una indescrivibile emozione picchiai al numero 40.

Mi venne ad aprire un vecchietto che aveva fra mani un berrettino tondo intorno al quale egli stesso andava cucendo un nastro di felpa. Dallo schiuso della porta s’intravedevano un lettuccio basso, una vecchia sciabola e due grandi stivaloni appesi al muro, e attaccati alle pareti delle immagini sacre, delle fotografie, un ritratto di Ferdinando II. La stanzuccia mi parve quella d’un qualche militare giubilato, d’un solitiero, come dicono a Napoli: il vecchietto aveva ancora l’aria marziale, un bel paio di bianchi baffi rialzati e addosso una giacchetta soldatesca, abbottonata fino al mento.

– Scusi, Totò Galiero?

Egli esclamò, sorpreso:

– Come! Chi?..

– Domando perdono. – soggiunsi – Galiero. Ha forse sloggiato?

– Da un pezzo! – disse lui.

– Sono un suo amico. Venivo a vederlo. A congratularmi con lui anzi, che, pare, ha riacquistato la vista… Lei… scusi, ne sa niente?.. Vedo che occupa la sua stanza…

Il vecchio mi continuava a sgranare gli occhi in faccia, e taceva.

– Lo conosce? – insistevo – È pure un suo amico, lei?

– Io!? – urlò, come se gli avessi dato uno schiaffo.

Vi fu un silenzio. Ero confuso, non sapevo più che dire e quasi facevo per salutare il vecchietto e andarmene. Egli si volse addietro per riporre il berrettino e l’ago su un tavolinetto. Poi uscì nel corridoio, mi prese per mano, silenziosamente, e mi condusse rimpetto, d’avanti a un’altra porticella. Si chinò a guardare pel buco della serratura e mi fece atto perchè lo imitassi. Guardai là dentro anch’io.

V’era una giovane donna, bruttina, piccola, biondiccia, seduta per terra – al sole che la illuminava tutta – accanto a uno di que’ grossi cestoni ne’ quali le povere madri napoletane, le donne del popolo, mettono a dormire i loro piccini. La piccola bionda si chinava su quella culla e di volta in volta agitava la mano per cacciar via qualche mosca.

 

– Ha visto? – disse il vecchietto.

Non capivo e non sapevo che cosa rispondere. Allora egli, nel corridoio scuro, avvicinando quasi alla mia la sua faccia, mormorò:

– Il suo amico ci ha lasciato questo grazioso ricordo. Ah, non sa nulla? Bene, glie lo dico io. Partito… Il signor Galiero è partito per l’America, coi denari dell’eredità d’uno zio prete… Capisce?.. E lei, non ne sapeva nulla?

Sorrideva, ma con tal sorriso che mi gelò il sangue. Le sue mani scarne tremavano.

– Totò Galiero! – esclamai – Totò ha fatto questo!..

– Già: – disse il vecchietto, continuando a sorridere e rincamminandosi verso la sua stanza – Totò Galiero ha fatto questo. Ha fatto una madre. E te l’ha piantata col figliuolo. Che? Bello! Magnifico! Grandioso! Per gratitudine, l’ha fatto. Quella è la signorina che lo ha assistito durante tutta la sua infermità…

Fece ancora due passi e si volse.

– Totò cuor d’oro, se non mi sbaglio – esclamò – Totò cuor d’oro!.. Il poeta! Accidenti! Totò cuor d’oro!

Sulla soglia della sua stanza mi salutò con la mano.

– La riverisco, sa! E lei me lo riverisca!

Suonò una risata ironica, sghignazzante, terribile. Il vecchio sparve nella sua camera.

La porticina si chiuse, sbattuta forte.

QUELLA DELLE CILIEGE

I

Stesa supina sul piccolo divanetto della sala terrena dell’Ospedale degl’Incurabili, lì ove si fanno le immediate medicature a’ feriti che vi capitano di tanto in tanto da’ rioni popolani di Napoli, una giovane donna ripigliava i sensi a mano a mano.

Erano le dieci ore di una magnifica sera di primavera. La lampadina elettrica, che la suora di guardia aveva incappucciata con un pezzo di carta rosea, bagnava il divanetto e quella donna di un dolce lume colorito, diffuso e uguale.

In qua, presso a una tavola sulla quale era squadernato il registro per le Ricezioni notturne, il medico di servizio preparava, sbadigliando, le bende e l’ovatta. Quando ebbe tutto allestito per la medicatura, sedette alla tavola, si trasse davanti il calamaio e il registro, sbadigliò ancora una volta e accese un’altra lampadina, per vederci meglio.

– Dunque? – disse, voltandosi – Voialtri, fatevi avanti.

Due guardie di pubblica sicurezza uscirono dalla penombra e si posero di faccia al medico. Il brigadiere salutò militarmente.

– Il fatto? – disse il dottore.

– Vico Astuti, sezione Porto.

– Scusi, brigadiere – corresse l’altra guardia – sezione Mercato.

Il medico scosse la testa, nervoso.

– Vi ho chiesto del fatto, non del luogo. Come è andato? Spicciatevi.

– Il fatto del ferimento? – disse il brigadiere – Ecco. Io e la guardia scelta Cosentino, qui presente, passavamo pel Vico Astuti, verso le nove e un quarto. Costei urlava, in mezzo a certe femmine. Ci siamo avvicinati al gruppetto. Be’? – dico – di che si tratta? Dice una di quelle femmine: Brigadiere, portatela all’ospedale: l’hanno sfregiata e perde sangue. E così l’abbiamo portata qui, in vettura…

Il dottore s’era levato e s’avvicinava al divanetto.

– Dove ti hanno ferita, eh, bella bimba?

La donna, che premeva sulla guancia destra una pezzuola la quale s’era tutta arrossata, ne la disgiunse pian piano. Apparve la guancia sanguinante. Ella strinse i denti, con un brivido, e tornò a chiuder gli occhi.

– Rasoio: – mormorava il medico, reclinato sulla donna – colpo scorrente dalla tempia all’angolo mascellare inferiore. Ferita abbastanza profonda. Aspetta… Anche qui? Anche al braccio?

Gli agenti s’accostarono per guardare.

– Ferita anche al braccio! – esclamò il brigadiere – Era per questo che mi sentivo scorrere il sangue nella manica, quando l’ho afferrata pel braccio! Vuol dire che ha parato un altro colpo e ha preso anche quello.

– Ah, Signore Iddio! – sospirò la suora.

– Come ti chiami? – chiese il dottore.

La donna balbettò:

– Sofia Ercolano.

– Soprannominata la rossa– disse il brigadiere.

– E lo vuoi dire chi è stato?

Attraverso alla pezzuola che le nascondeva quasi tutta la faccia, la rossa mormorò:

– Non lo so… Non l’ho visto…

– Sangue d’un cane! – esclamò la guardia Cosentino – Ma senti se non fanno tutte così! «Non lo so! Non lo conosco! È stato uno sbaglio!..». Ah, brutte bagasce!..

– Basta! – disse il dottore.

– Ma Cristo! – mormorò il brigadiere alla guardia – Vuoi star zitto? Non vedi che c’è la suora madre?

Soggiunse, levando la mano spiegata al chepì:

– Possiamo andare?

Senza badargli il chirurgo si volse alla monaca.

– La catinella.

La rossa sgranò gli occhi spaventata, e tentò di rizzarsi.

– No! No!.. Che mi volete fare?..

– Pazienza, bella mia. Poca roba. Ce la caveremo in cinque minuti.

Rimboccò fino a’ gomiti le maniche del lungo camice grigiastro e si mise a frugare tra’ suoi ferri. Intanto, piegato sulla cassetta ov’erano riposti, senza nemmeno voltarsi, diceva alle guardie:

– Voialtri andatevene, pel momento. Poi vi chiamerò.

– Andiamocene – disse il Guglielmi a Cosentino.

Nel corridoio incontrarono la suora che portava la catinella.

Il brigadiere le domandò:

– Scusi, resta qui la rossa?

– Ma s’intende – disse la suora.

S’udì la voce dell’Ercolano, alta, squillante:

– No! No!.. Ah, bella Vergine!.. Ah, Madonna del Carmine!..

Ora, nello spazioso cortile tutto inondato dal chiaro lume della luna, le guardie, stanche, s’avviavano al largo sedile di marmo su cui, presso alla scala scoperta e marmorea, un gigantesco eucaliptus spandeva un’ombra nerastra.

Sedettero. Il brigadiere accese un sigaro e lanciò alla fresca e pura aria notturna una copiosa boccata di fumo.

Risuonò, ancora, più cupo, un urlo della rossa. Si rifece il silenzio.

– Guardi che luna! – mormorò Cosentino, levando gli occhi in alto.

– Luna piena – disse il brigadiere, beatamente. – Pare giorno.

Dopo un po’, Cosentino disse:

– Ha mezzo sigaro, per caso?

II

Nella sala «Ramaglia», al buon sole che v’entrava pe’ larghi finestroni, le ricoverate nell’ospedale chiacchieravano. Delle frasi allegre correvano di letto in letto fino in fondo allo stanzone, ove, presso alla bella porta di marmo e accanto a una tavola coperta da un tappeto verdognolo, una suora preparava filacce. Seduto alla medesima tavola l’impiegato delle entrate ricopiava in un quaderno le prescrizioni farmaceutiche. Era l’ora della visita. I parenti delle ricoverate arrivavano a gruppi, continuamente, e si sparpagliavano intorno a’ letti e subito vi si andavano a sedere accapo o nel corsello tra muro e letto, o rimanevano davanti ad essi, impiedi, con l’aria triste e meravigliata delle persone di buona salute che si trovano al cospetto d’un qualche loro caro diventato là dentro così pallido, così triste, così sfinito! Laggiù, verso gli ultimi letti, una giovane contadina itterica baciucchiava il figliuolo che le avevano portato dal villaggio, un marmocchietto bianco e roseo il cui vivo incarnato dava maggior rilievo all’orribile color giallastro della madre. Un altro figliuoletto di lei s’era arrampicato sul letto e là dove la coltre si alzava ad angolo sulle ginocchia della mamma egli si piegava, e abbracciava ridendo quelle ginocchia nascoste e le baciucchiava.

La suora di guardia sospese la sua bisogna e mormorò all’impiegato:

– Guardi che bella scenetta per un pittore!

– Idroclorato di morfina – fece l’impiegato, con l’indice della sinistra puntato sul foglio dal quale ricopiava – Ovatta pacchi nove… Diceva, suora?.. Già: difatti. Scena per un pittore. C’è la visita, oggi?

– Certo. È giovedì.

– Non ci avevo badato.

Rimasero muti per un pezzo, guardando a uno a uno i nuovi venuti dei quali qualcuno, capitato lì per la prima volta, cercava il letto che gli avevano indicato.

– Quella lì non ha proprio nessuno che la venga a trovare – osservò la suora, a un tratto.

– Chi?

– L’ottantuno. Laggiù.

– La rossa? E chi vuole che la venga a trovare? Ecco… se proprio ci volessero venire tutti quelli che la conoscono… Avremmo qui un reggimento, suora!..

– Davvero? E perchè?

– Perchè?.. Perchè queste cose lei non le sa. Sono piccole miserie della vita, ecco. Quella signorina è un po’… Come devo dire? Un po’ la signorina Omnibus.

La suora arrossì e si levò. Minacciava l’impiegato, con l’indice teso.

– Ah, quella linguaccia!

– Già, già: ha ragione. – disse quello, e si rimise a ricopiare – Ovatta pacchi nove, garza tre, bende sette…

La suora mosse dirittamente al lettuccio della Ercolano, che pareva assopita. Contemplò a lungo quel volto ancora pallido, segnato dalla tempia all’angolo della bocca dalla ferita recente, che ora s’andava rimarginando. E come l’Ercolano lasciava penzolare fuori del letto un braccio ella glie lo sollevò, dolcemente, e lo ripose sulle coltri.

La rossa aperse gli occhi e sorrise.

– Quel povero braccio! – disse la suora – Il braccio malato! E lei se lo lascia cascar giù fuori dal letto!

– È guarito.

– Ah, sì? Come andiamo dunque? Bene?

– Bene, sì, sì. E domani me ne voglio andare. Ecco già undici giorni che son qui. Ci perdo la salute, suora! Peggio d’un carcere!

– Ma dove vuole andare? Parenti ne ha lei?

– Non ho alcuno – rispose l’Ercolano, un po’ triste, un po’ impazientita.

S’era messa a sedere in mezzo al letto e le sue mani esangui e nervose tormentavano le lenzuola. Il suo sguardo errava, senza volontà. E su’ letti in fila, sul viavai della gente esso passava come quello, già abituato e senza curiosità, delle vecchie clientele dell’ospedale. A un momento, più a lungo, s’arrestò sulla cappelletta che veniva fuori da un angolo dello stanzone, nascosta da pesanti cortine a fiorami.

La suora immaginò che pregasse. Si intenerì. Stese la mano, dopo un poco, e lievemente glie la posò sulla spalla.

– A che pensa?

– Penso – mormorò l’Ercolano – al sogno che ho fatto stanotte. Ho sognato delle ciliege. E mi pareva di averne pieno il grembiale e di mangiarne tante, tante!..

– Ciliege?

– Le adoro.

S’era fatta lieta. Si dimenticava.

– Tante volte, quando mi cercano, chiedono di quella delle ciliege

– È il tempo loro – disse la suora, arrossendo – Domani glie ne faccio avere.

– Domani me ne vado.

– Ma no! – esclamò l’altra, scotendo il capo. – Non voglio che se ne vada così presto! Ancora non siamo in gambe, figliuola!

E le carezzò i capelli, col suo solito atto materno che le ingraziava le ricoverate più difficili.

Lentamente l’Ercolano si riaddossò ai cuscini e vi affondò il capo. Sulla sua pallida faccia passò un’ombra di tedio e di stanchezza.

– Dunque si resta intese – disse la suora – Domani non si va via. E le porterò le ciliege, domani.

La rossa aveva chiuso gli occhi. Pareva assopita. La suora si chinò sopra di lei e le mormorò:

– Arrivederci, non è vero?

– Arrivederci… – balbettò la convalescente.